23 Novembre 2018 -

36mo Torino Film Festival_23 Novembre – 1 Dicembre 2018_Presentazione

Novembre, Torino, il programma annunciato ancora una volta da Emanuela Martini, le conferme e il ritorno delle più calde certezze. E prima di tutto, quest’anno, c’è da tirare un grande sospiro di sollievo. Perché stavolta, per questa trentaseiesima edizione del Torino Film Festival che si prepara a fare capolino nei colori autunnali del capoluogo sabaudo, si è molto seriamente temuto. C’è stato un periodo, poco meno di un anno fa, in cui quello che da molti anni è il più irrinunciabile appuntamento cinefilo d’Italia ha seriamente rischiato di dover forzatamente abiurare la sua anima, la sua capacità di rivolgersi alla città quanto a un pubblico più ampio, la sua proposta variegata e intelligentemente divisa in sezioni dalle quali ogni spettatore sa perfettamente cosa aspettarsi. Si parlava, dalla Mole e dal Museo del Cinema, di “necessità” di snaturarsi, di aprire a una multitematicità che, fra teatro, musica e moda, avrebbe inevitabilmente ridotto lo spazio per la settima arte, avrebbe inevitabilmente tagliato sulle retrospettive ormai merce sempre più rara nel mondo festivaliero, e avrebbe inevitabilmente riportato all’invisibilità o quasi quel cinema di linguaggio e marginale che da parecchi anni, grazie all’encomiabile lavoro di Onde e di TFFdoc, riesce a trovare spazio sugli schermi italiani. Così non è stato, per fortuna, ma non era scontato. E perché tutto restasse uguale, (per lo meno per ora) salvo nella sua ragion d’essere, sono dovute cambiare tante (altre) cose, a partire dalle dimissioni di Laura Milani dalla presidenza del Museo, sostituita da Sergio Toffetti. Prima c’è stato il rinnovo dell’intero staff che sarebbe dovuto uscire – non solo Emanuela Martini come direttrice, ma anche Davide Oberto e Massimo Causo alla guida delle rispettive sezioni laterali – per ancora due edizioni, e poi si è proceduto, per la fortuna di tutti, nella stessa direzione degli ultimi anni. Una direzione che, in barba alle sempre maggiori difficoltà di pianificazione fra numero di sale e di slot ridotti, riesce a presentare un programma ogni volta straordinario per completezza e coerenza, dimostrando come sia possibile, con meno della metà del budget che ha a disposizione la Festa del Cinema di Roma, rivolgersi realmente a una metropoli entrando appieno a far parte della sua politica culturale.
Quasi all’opposto rispetto a quel ghetto per ricchi che è l’Auditorium Parco della Musica, non-luogo sperso a Roma nord fra i Parioli e il villaggio olimpico, lontano dalla città, scomodo da raggiungere più o meno per chiunque e totalmente inadatto, per forma delle sale, alla fruizione cinematografica, ribatte a breve distanza il pieno centro della città di Torino, in cui il TFF, come una sorta di Berlinale italiana, è perfettamente innestato per geografia e metafora nel tessuto urbano. Ancora una volta pronto a richiamare la cittadinanza e gli addetti ai lavori rivolgendosi a ogni palato con film vecchi e nuovi, mainstream e di ricerca, di genere e iperautoriali, fino allo sperimentale più audace. La vita di Torino continua dentro e intorno alle sale, con lo snodo di piazza Castello, i romanzi al neon di via Lagrange e le statue “profonde rosse” di piazza CLN che diventano ogni anno parte della manifestazione, compagne di viaggio e di visioni, mentre anno dopo anno, programma dopo programma, (inevitabile) confronto dopo (inevitabile) confronto, si acuisce ulteriormente la distanza siderale fra la pochezza di quella sostanziale passerella per vip fatta di opere accatastate alla rinfusa e proiettate a Roma nord firmata Antonio Monda e le rotte invece ben precise su cui naviga da sempre, con pieno successo, il TFF secondo Emanuela Martini, al dodicesimo anno di direzione fra le retrovie dei vari Moretti, Amelio e Virzì e l’investitura ufficiale a front(wo)man. Perché Torino è l’ambiente, Torino è una città culturale e permeabile, Torino è una cittadinanza consapevole e partecipe. Torino sono i vialoni che portano da una sala all’altra, Torino è il 55 che saltella sul pavé di via Po mentre il 15 lo semina ben saldo sui binari, Torino sono quei posti – sempre gli stessi – dove mangiare tanto in poco tempo spendendo il meno possibile. Torino è la prima neve che ogni anno, salvo rare eccezioni, fa capolino durante una delle ultime notti del Festival decretando l’inizio ufficiale dell’inverno, e Torino è la corsa forsennata dopo una proiezione in ritardo sotto il grande spauracchio dell’ammonizione per aver fatto scadere un biglietto blu.

Certo, nell’anno della (tragica) chiusura del Roar Roads, (ormai ex) pub aperto fino a tardi che non potrà più essere lo storico ritrovo di amici vecchi e nuovi legati dall’accredito per i tardivi hamburger che Festival immancabilmente comporta (servirà trovare al più presto una soluzione alternativa), qualcuno potrebbe forse storcere il naso di fronte all’assenza di qualcosa che sarebbe stato più o meno lecito aspettarsi nel fantasticare e nelle speranze degli scorsi mesi. Per la prima volta in un rapporto pluriennale, per esempio, non ci sarà Kuso yarô to utsukushiki sekai, nuovo lavoro di Sion Sono. Come, giustificatissimo e anzi ovvio, non ci sarà nemmeno Martin Scorsese, che di The Irishman ha terminato le riprese ormai da mesi ma è ancora ben lontano, impegnato in una lunga e complicatissima postproduzione frame by frame, dal poterlo dichiarare pronto. Così come non ci sarà, nonostante il canale aperto dalla retrospettiva dello scorso anno, il nuovo Brian De Palma che parrebbe non volere fare Festival, né ci sarà, per motivi analoghi dopo la stroncatissima prima di Toronto, il tormentato Xavier Dolan di The Death and Life of John F. Donovan. E non ci sarà nemmeno, proprio a voler fare i pignoli, la Anna’s war di Fedorchenko, in tutto l’anno festivaliero abbastanza inspiegabilmente passata solo a Rotterdam e poi dimenticata da tutte le altre kermesse. Succede, pazienza! E soprattutto sarebbe esercizio ozioso e inutile, di fronte a un programma ramificato e intelligente come quello del 36mo Torino Film Festival, concentrarsi su quello che forse ci sarebbe potuto essere e invece manca. Basta e avanza quello che c’è, e non tanto per i lungometraggi in programma che superano ampiamente i centocinquanta, ma per le evidenti, chiare, coerenti e ben precise scelte culturali e politiche che stanno alla base della selezione.
Ben al di là delle attese per l’opera prima da regista di Valerio Mastandrea ospitata in concorso o di quella per le luci naturali della Sardegna con cui è stato fotografato il nuovo Bonifacio Angius, quello del 36mo TFF è un programma in cui Onde e Festa Mobile hanno condiviso gli slot per riuscire a ospitare con tanto di replica le fluviali quattordici ore di La flor, è un programma in cui troveranno la loro prima italiana l’Ash is the purest white di Jia Zhang-ke e il Dovlatov di Alexei German jr, è un programma che recupera dalla Semaine di Cannes il Wildlife d’esordio di Paul Dano e da Locarno l’appassionato Blaze secondo Ethan Hawke, è un programma che esalta la vena thriller del regista filippino Brillante Mendoza e quella documentaristica di Nanni Moretti, film di chiusura con il suo Santiago, Italia, ed è un programma che, nel ritagliare al guest director Pupi Avati la finestra con cui tornare alla genesi cinefila del suo horror padano, non ha dimenticato nell’anno della morte di omaggiare con otto film la grandezza di Ermanno Olmi. È un programma in cui la Dulcinea di Luca Ferri dialogherà con Radu Jude, con Alberto Momo, con Tonino De Bernardi e con il Galileo di Teresa Villaverde, è un programma in cui il cinema documentario tornerà indietro e si farà Apocalisse nella disperata e forse utopica ricerca di un post-mondo, è un programma che guarda a tutto il mondo dall’America Latina all’Asia passando per l’Europa dell’Est, ed è un programma in cui il cinema di genere della ormai tradizionale Notte Horror sarà la sospensione fra le scala(te) al paradiso in scarpette rosse di Powell-Pressburger e i flicker attraverso cui scorreranno le migliori copie disponibili della miracolosa filmografia di Jean Eustache, ribadendo ancora una volta la storica attenzione del Torino Film Festival nei confronti dei grandi capolavori del passato. Con una cura, sempre più sorprendente in tempi in cui i grandi Festival tendono a confondere le retrospettive con la presentazione degli ultimi restauri disponibili, totalmente rinnovata dopo qualche anno forse un po’ troppo “digitale”: se circa metà dei (capo)lavori del duo britannico Micheal Powell ed Emeric Pressburger passeranno a Torino in pellicola, e già questo è estremamente meritorio, è nell’omaggio a Jean Eustache che il TFF36, grazie alle copie catalogate direttamente dal figlio del regista francese in giro per le varie cineteche, torna a una retrospettiva quasi totalmente in 35 e in 16mm, che pare quasi ricalcata sulle orme di quelle, storiche e leggendarie, di quella che fu la torinese CinemaGiovani di Roberto Turigliatto da diversi anni curatore a Locarno.
Anche nella ricerca della filologia, del film originale, del suo aspetto e della sua resa al momento della prima proiezione sta la grandezza del nuovo/vecchio Torino Film Festival, forse l’appuntamento più sinceramente cinefilo, dove a muovere le fila del carrozzone c’è prima di tutto una genuina e contagiosa passione, e in seconda battuta una sempre ben precisa riflessione che consenta ai film di trovare un dialogo fra loro, di segnare uno o mille possibili percorsi, di rinnovarsi visione dopo visione. Roma, sotterrata e ormai senza bussola, guarda sempre più da lontano, senza capire che per fare le cose bene basterebbe farle così, pensandoci, avendone voglia, anteponendo alla politica dei salotti quella di una ben precisa idea di cinema, avendo competenze e delegando le aree specifiche a chi ha competenze specifiche. Da parte nostra, ci prepariamo a immergerci giorno dopo giorno nelle immagini, dal primo mattino fino alla tarda serata, avvolti nel caldo abbraccio delle poltrone del Massimo e del Reposi: la vera e unica “festa” è quella di Torino. E si chiama Festival, non Festa, perché è una cosa seria.

Marco Romagna

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