16 Maggio 2023 -

76° Festival de Cannes_16-27 maggio 2023_Presentazione

Non è più tempo di quel Desolé, pending che, prima dei necessari e provvidenziali ritocchi al sistema di prenotazione online dei posti in sala che da un certo punto in poi erano riusciti a far filare tutto liscio, aveva segnato come un incubo i primi giorni della scorsa edizione. In questo 2023, in cui il Festival di Cannes torna definitivamente a riassestare la sua gigantesca mole di accreditati da tutto il mondo sui numeri del pre-Covid, mantenendo però i biglietti per assicurarsi il posto in sala da tentare di accaparrarsi, sgomitando, quattro mattine prima di ogni proiezione fra le 7 in punto e le 7 e 5 secondi in cui immancabilmente l’intero programma di giornata (compresi gli oltre mille posti della Debussy e i 2309 del Gran Theatre Lumière) risulta già esaurito, tocca direttamente alla dicitura Complete. Scritta in rosso, senza più nemmeno far finta di essere dispiaciuti. Specialmente su tanti film che già in questi primi giorni di prenotazioni (la proiezione unica di Almodòvar, l’unica accessibile alla stampa di Scorsese, ma anche per diversi titoli in concorso come il nuovo lavoro di Jonathan Glazer, quello di Kore-eda e le tre ore abbondanti di Wang Bing che non è certo un autore pop sembra essere stato semplicemente il caso a stabilire i fortunati che a pari condizioni e rapidità sono riusciti a sbloccare la pagina) non sono mai stati disponibili nemmeno per un istante: decide l’algoritmo, anche all’interno dello stesso colore in cui il Festival da sempre divide in vere e proprie classi sociali i suoi fruitori, chi una mattina riuscirà realmente a prenotare per quattro giorni dopo e chi invece troverà solo strade sbarrate, e poi semmai per qualche minuto durante i successivi quattro giorni, a orari rigorosamente a caso nei quali sarà pura fortuna essere dentro il sistema, qualcosa da poter vedere. Altrimenti, non resterà che tentare di mettersi in fila in rush line, sperando (forse invano o forse no, lo scopriremo nei prossimi giorni) in qualche posto libero dell’ultimo minuto. Una vera e propria lotteria che forse, dopo due edizioni di prenotazioni relativamente semplici e di vita degli accreditati considerevolmente migliorata, riesce a rendere quella che era stata la soluzione al problema delle vecchie file ancora più stressante di quanto lo fossero file stesse, figlia dei numeri eccessivi di un Festival sempre più elefantiaco, pachidermico, evidentemente ben più interessato alla propria autocelebrazione che ai film. Una politica, quella di Thierry Frémaux, sempre più evidente, e del resto già esplicitata dal “bollino” che accompagnava i titoli dell’edizione “fantasma” 2020, saltata per la pandemia eppure calcolata come se si fosse effettivamente tenuta, più per strappare i film alle altre kermesse che per spingerli: il suo è un Festival che vuole prendere tutto, senza curarsi che poi sia realmente possibile vederlo. Quello che conta è poter mettere il cappello sul grande nome, la bandierina sul titolo, una piccola Palma (specialmente se al posto di un Leone, e pazienza se Venezia avrebbe con ogni probabilità anche fatto in modo di mostrare il film con un numero di proiezioni più adeguato alla mole di accreditati) sulla locandina che lo accompagnerà in giro per il mondo. Agendo un po’ come il nemico giurato Netflix, a ben vedere, in un paradosso nel quale non importa più il film, ma solo che ci sia sopra il proprio logo. Quasi come se il Festival fosse un album di figurine e le opere che presenta fossero semplicemente caselle da riempire, oggetti di valore con cui rendere la propria vetrina più prestigiosa anziché un qualcosa a cui rendere servizio mettendolo in mostra nel prestigio della propria vetrina.

E in effetti, fingendo di sorvolare sulla consueta sostanziale assenza dell’ex-colonia Africa, rappresentata come sempre solo da co-produzioni francesi, sembra davvero esserci tutto, in questa Cannes numero 76. Tanto, tantissimo, probabilmente troppo, da occidente a oriente, dal popolare allo sperimentale, dal genere al lirico d’autore, dai nomi soliti e immancabili alle scommesse degli esordi. Dall’apertura di stasera (sulla carta non di altissimo profilo, ma con Johnny Depp sul tappeto rosso) con Jeanne du Barry di Maïwenn, ai già citati (e probabilmente invisibili) Pedro Almodòvar con il corto western queer Strange way of life e Martin Scorsese con l’atteso Killers of the Flower Moon, agli altrettanto già citati (ma si presume e spera in qualche modo visibili) Kore-eda, Glazer e (un doppio) Wang Bing, passando, fra il concorso principale e le altre sezioni con minore disponibilità e quindi meno chances di riuscire effettivamente a entrare in sala, per i nuovi lavori di Nuri Bilge Ceylan, Lisandro Alonso, Aki Kaurismäki, Todd Haynes, Ken Loach, Catherine Breillat, Jessica Hausner, Karim Aïnouz, Hong Sangsoo e Robert Rodriguez, ma anche per l’animazione 3D del nuovo Pixar contrapposta agli acquerelli di Linda veut du poulet! di Chiara Malta e Sébastien Laudenbach presentato in AciD, per due Wim Wenders, per Anurag Kashyap e per il trittico italiano formato da Marco Bellocchio, Nanni Moretti e Alice Rohrwacher. Ma anche per il nuovo Indiana Jones questa volta con regia di James Mangold, per Geomijip di Kim Ji-woon, per Michel Gondry, per Bertrand Mandico, per Kleber Mendonça Filho. Eppure sono altri tre, i titoli e gli autori per cui più vibra il cuore. Tutti e tre difficili da riuscire a vedere. Da una parte Takeshi Kitano, con il suo Kubi che si preannuncia probabilmente come il film in assoluto più ambizioso della carriera, dall’altra Victor Erice, che a oltre trent’anni dall’ultimo El sol del Membrillo e a cinquanta esatti dall’esordio Lo spirito dell’alveare, torna alla regia con il suo quarto lungometraggio Cerrar los Ojos, e soprattutto l’ultimo, inedito, definitivo lascito postumo di Jean-Luc Godard, Film annonce du film qui n’existerà jamais: «Droles de guerre» (1er tournage), che verrà presentato fra i classici in mezzo a conclamati capolavori come L’Amour fou di Rivette, Il ferroviere di Germi, Io ti salverò di Hitchcock, ma anche Le Retour à la raison di Man Ray e un paio di Ozu. Per il resto sarà il profilo in bianco e nero di Catherine Deneuve, apparentemente distratta su una spiaggia di Saint-Tropez nel ’68 mentre si aggiusta i capelli durante le riprese di La Chamade di Alain Cavalier, a campeggiare sulle facciate del Palais per le due settimane della settantaseiesima edizione del Festival di Cannes. Quella in cui, in nome dell’inclusività, la Quinzaine des Réalisatèurs ha cambiato nome in Quinzaine des Cinéastes, quella in cui i quasi introvabili Fuori Concorso e Cannes Premiére sono sulla carta ben più interessanti di una pur buona (anche se probabilmente un po’ al di sotto degli standard particolarmente alti dello scorso anno) competizione principale, quella in cui forse si vedrà per l’ultima volta Godard, o forse non sarà possibile, e bisognerà inseguirlo ancora. Sono le regole del gioco: prendere o lasciare. E Cannes si prende sempre, a prescindere. Con tutte le sue difficoltà, con tutte le sue esagerazioni, con tutti i dubbi e le perplessità che la sua gestione può portare, nella speranza che le preoccupazioni siano eccessive, e che alla fine in qualche modo i film si riescano a vedere. Cannes si prende semplicemente perché è troppo importante, Cannes si prende anche con temperature e previsioni meteo ben più vicine all’autunno che alla primavera, Cannes si prende anche con la pioggia in autostrada a Savona a rendere più pericoloso del solito il consueto viaggio in scooter. Verso due settimane di certi sguardi, sperando solo che questo loro continuo giocare a gonfiarsi non li porti prima o poi a scoppiare.

Ultimo punto, il più importante. Ieri è venuta tragicamente a mancare una giovane cineasta, una giovane operatrice culturale, una giovane neomamma, una troppo giovane amica che, senza sapere nulla, eravamo certi di incrociare in questi giorni fra le sale e i corridoi del Palais. Una storia atroce, della quale è semplicemente impossibile riuscire a farsi una ragione e per la quale da due giorni ci ritroviamo sotto shock, distrutti, disperati. È a lei, Chiara Rigione, che nel nostro piccolo vorremmo dedicare la copertura di questa edizione. Ciao Chiara. Non dimenticheremo mai il tuo sorriso contagioso, la tua passione, la tua gioia nel respirare cinema. Grazie per quello che hai sempre saputo condividere.

Marco Romagna

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