15 Febbraio 2024 -

74. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_15-25 Febbraio 2024_Presentazione

«Ma… che fine ha fatto il Cinemaxx?». Una domanda che per tutti i frequentatori più o meno di vecchia data della Berlinale, già smaltito a fatica lo shock per la chiusura del CineStar del Sony Center da qualche anno non sopravvissuto alla crisi e poi alla fase-Covid, si è presentata spontanea sin dal momento dell’annuncio del programma day by day di questa edizione numero 74, e che solo al momento dell’uscita del calendario delle proiezioni stampa (il calcio di inizio ufficiale affidato a Small Things Like These del belga Tim Mielants, ieri sera in anteprima press e questa sera apertura ufficiale dell’edizione) ha trovato una risposta. Il gigantesco multisala da decenni fra le principali strutture della kermesse teutonica, dopo i tanti problemi di programmazione dello scorso anno dovuti ai lavori di restauro e alle sole 4 sale utilizzabili, è ora assolutamente di nuovo a disposizione, ma solo per le proiezioni stampa e l’ancor più blindato European Film Market, attivo solo per gli accreditati – nemmeno tutti – e invece totalmente chiuso al pubblico “normale” della Berlinale. Un completo scollamento fra gli addetti ai lavori e gli spettatori paganti di una cittadinanza da sempre estremamente interessata e interessante, educata e permeabile alle immagini in movimento, nel quale è quasi liberatorio che qualche proiezione stampa di massimo interesse si sovrapponga, o che una parte non piccola di film “laterali” proprio non la abbiano, costringendo di fatto chi preferisce vagare liberamente per le sezioni senza fossilizzarsi sulla sola competizione e poco più a girare per le molte sale sparse per Berlino ritrovando finalmente un contatto e un confronto con il pubblico cittadino. Che poi, a ben vedere, è proprio quello che rende la pur elefantiaca Berlinale un Festival molto più a misura d’uomo di Cannes e Venezia, o per lo meno molto meno freddo e più “sociale”, in cui è possibile tastare il polso della gente, carpirne i responsi, studiare non solo un film ma anche la sua ricezione. Certo, a ribaltare la montagna e Maometto si perderà forse qualcosa a livello logistico, ma sarà solo questione di calcolo, di incastrare le visioni tenendo conto dei tempi di spostamento, e di affidarsi a uno dei sistemi di trasporto pubblico più efficienti e collaudati al mondo, sempre con una fermata della metropolitana nel giro di poche decine di metri. L’ennesima tappa di adeguamento da parte di una FilmFestSpiele già da almeno due anni sempre meno concentrata su una Potsdamerplatz in evidente agonia, nata dalle ceneri del Muro come simbolo stesso della potenza capitalista e ora invece emblema del suo declino – una piazza in cui delle circa quaranta affollatissime sale di un tempo rimangono oramai a pieno regime solo il Palast, i due piccoli teatri dello storico cinema Arsenal organizzatore di Forum e un Cinemaxx non più per tutti, e per il resto semi-abbandonata da una città che, nonostante i tentativi di rilancio con la riapertura completa (a prezzi quadrupli) di tutti gli street food dell’ex Arkaden, semplicemente non la vive più. Ma nel frattempo sempre più (ri)consegnata (a costo di marginalizzarne il quartier generale) a Berlino e alle sue numerosissime e magnifiche strutture, fra il Cubix di Alexanderplatz e lo Zoo Palast del giardino zoologico, fra il Delphi Filmpalast e la Verti Music Hall che già dallo scorso anno sostituisce il Friedriechstadt per le repliche di concorso e Berlinale Special, fra l’Akademie der Künste e la Haus der Berliner Festspiele con le loro abnormi platee, e con almeno una tappa quasi obbligata nel cinema forse più bello del mondo, il Kino International sulla Karl-Marx-Allee, con la sua sempre meravigliosa architettura DDR. Semmai a lasciare basiti, memori delle tante edizioni letteralmente glaciali del passato, sono i 10° abbondanti trovati arrivando (in auto: è sempre un viaggio bellissimo) a Berlino a metà febbraio in serata, ma questa è davvero un’altra (lunga) storia…

Il resto sarà, come si diceva, l’edizione numero 74, l’ultima sotto l’egida di Carlo Chatrian e del suo sensazionale gruppo di lavoro prima del passaggio di consegne a Tricia Tuttle, già comunicato e invero, a giudicare dal lavoro a detta più o meno di tutti non irresistibile fatto dalla direttrice in pectore di Berlino nella sua precedente esperienza al BFI, pure un po’ preoccupante. Una Berlinale che ancora una volta, forse più ancora del solito – lavorare da sostanziali sfiduciati sicuramente non è bello e può forse portare problemi di varia natura nel dialogo con produzioni e venditori internazionali, ma dall’altra parte permette di premere ancor di più sul pedale dell’acceleratore e di osare nella selezione – mette al centro i film e gli autori, alla costante e programmatica ricerca di uno sguardo, di un rigore, di una novità, di un cinema che non dimentica il passato ma al contempo guarda al futuro, cercando di scartare dall’accademia e dal mainstream per emergere ed autodeterminarsi in forme inedite. Con un programma che, a vederlo e a voler leggere fra le sue righe, ha tutta l’aria di un vero e proprio canto del cigno da parte dell’uscente direzione artistica, fatto di nomi ancora più importanti del consueto e di scelte linguistiche e geografiche il più possibile aperte e lontane dalla prassi, come assi da calare per ribadire con un colpo di coda che preannuncia una qualità media elevatissima quale sia stato – nonostante la clamorosa sfortuna di due edizioni (più strascichi sulle produzioni e sulla mobilità) pandemiche, una online e una enormemente ridotta nei giorni e nelle limitazioni – il sentiero intrapreso in questi cinque anni da Chatrian e dal suo staff, e su quale rotta sarebbe auspicabile che la Berlinale continuasse a tenere la barra anche dopo la loro – non del tutto motivata e per lo meno ingenerosa, per non voler usare termini più forti – sostituzione. A partire dall’opera fatta per convincere Bruno Dumont e Olivier Assayas, autori nettamente fra i più importanti e talentuosi della contemporaneità generalmente legati al concorso di Cannes, a scegliere invece questa volta di competere con i loro rispettivi L’Empire e Hors du temp proprio nella capitale tedesca, in gara fra gli altri con(tro) Abderrahmane Sissako, Hong Sang-soo, Mati Diop, Alonso Ruizpalacios, ma pure Viktor Kossakovsky, la nuova co-regia di Veronika Franz e Severin Fiala, e gli italiani Piero Messina e Margherita Vicario. Fino ad aprire con Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias e Shambhala di Min Bahadur Bham le porte della sezione principale alla Repubblica Dominicana e al Nepal, mettendo insieme quello che, insieme al mirabolante 2020 della prima gestione Chatrian, è sulla carta il concorso berlinese più vario e interessante da decenni, ampiamente in linea con se non addirittura superiore alle ultime – e più che buone – omologhe edizioni di Venezia, e senza dubbio con orizzonti ben più ampi.

Con, a latere, una non competitiva Berlinale Special che a fianco del vincitore dello scorso anno Nicholas Philibert presenterà le nuove opere di Kiyoshi Kurosawa, di Tsai Ming-liang, di Gakuryū Ishii, di Amos Gitai, di Atom Egoyan e di Abel Ferrara, fino al nuovo Filmstunde 23 con cui, undici anni dopo Die Andere Heimat e il magnifico corto realizzato per Venezia70, torna a firmare una regia il grandissimo Edgar Reitz al quale il Festival tributerà il Premio alla Carriera; con una Panorama che nel suo consueto sguardo queer cercherà un bilanciamento fra le emozioni “classiche” di André Téchiné e l’ambizione rischiosissima e provocatoria, spesso ai limiti della sperimentazione, di Bruce LaBruce che questa volta con The Visitor rilegge in chiave porno gay (non si sa ancora se soft o hard) il Teorema di Pasolini; e poi ancora con Encounters e Forum, che oltre agli habitué Ben Russell, Matías Piñeiro, Travis Wilkerson, Kazuhiro Soda e René Frölke (ma pure Costanza Quatriglio) punteranno alla solita scoperta di giovani sorprese assolute che sanno ancora ragionare sul senso e sui linguaggi del cinema, sul come e non solo sul mero cosa. Senza dimenticare la retrospettiva, An Alternate Cinema – From the Deutsche Kinemathek Archives, quest’anno focalizzata sul cinema delle due Germanie fra il 1960 e il 2000 conservato nell’archivio di Stato tedesco, i restauri di Berlinale Classics, l’omaggio a Martin Scorsese con The Departed, o ancora i film per/sui ragazzi di ogni età di Generation, lo sperimentale puro di Forum Expanded, la sottosezione Panorama Dokumente, i corti, perfino due serie TV. Fra opere prime, grandi maestri e traiettorie autoriali in formazione, sempre con un ben preciso sguardo, con una ben precisa volontà di indagare a fondo nelle forme e nelle possibilità del cinema senza limitarsi alla loro superficie. A costo di presentare una mole di film enorme, ipertrofica, nella quale è obbligatorio fare scelte anche dolorose. Ma in realtà basta imparare a leggere un programma, a evidenziare (o meglio, a segnalare con una stellina sul comodo e funzionale sistema online di gestione preferiti) le cose giuste. Il resto, a patto di riuscire a svegliarsi alle 7 e mezzo del mattino per assicurarsi in tempo i biglietti in uscita giorno per giorno, lo farà una macchina organizzativa con talmente tante sale e repliche a disposizione da rendere possibile quasi ogni incastro. Mancherà qualche sala in cui accogliere anche il pubblico al Cinemaxx, è vero. Di conseguenza non ci saranno più tutto e tutti a Potsdamerplatz, è vero. Ci sarà qualche metropolitana in più da prendere per visioni e incontri, è vero. Ma i film ci saranno, eccome se ci saranno. Come sempre, più di sempre. Sperando che qualche altro Lido, termine non casuale e anche se è difficile sperare non costa nulla, passata la lunga sbornia di Barbera accumulata dopo aver (in)spiegabilmente deciso di ostracizzare Marco Müller probabilmente più grande direttore della sua lunga storia, abbia la lungimiranza di fare tutto ciò che può per tentare di ricreare prima possibile questa stessa alchimia di sguardi e contatti scialacquata da Berlino, questa stessa idea di programmazione e di ricerca, questa stessa fame di girare senza alcun pregiudizio gli schermi di TUTTO il pianeta fino a scoprire un’immagine nuova, un’intuizione formale, la purezza sentimentale di un’inquadratura, uno stacco di montaggio mai visto, un’idea diversa di cinema. Una bellezza di cui mettersi umilmente al servizio, facendole dono della meritata vetrina per mostrarla finalmente al mondo lungo dieci giorni di sogni e di meraviglia.

Marco Romagna

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