C’era una volta, e poi non c’era più nulla. È bastata una notte, la notte dell’8 aprile 2000, perché di quelle che erano la vita e la personalità di Mark Hogancamp non restassero che carte, disegni, scritti, indizi, racconti, brandelli di un passato a cui tentare di ridare una forma. Sono bastati pochi minuti, interminabili e atroci, fatti di calci e di pugni, di anfibi sul volto e di odio gratuito, di bullismo e di omofobia, picchiato fino all’incoscienza e fino al coma, fino a disimparare persino a camminare e a (ri)conoscersi. Con o senza tacchi, la sua “colpa” di crossdresser eterosessuale, innamorato delle donne al punto di volerne sentire e vivere l’essenza attraverso le scarpe. Ma Robert Zemeckis, intelligentemente, la notte dell’8 aprile 2000 preferisce lasciarla ai limiti del fuoricampo, fra ciò che va ricostruito con la rappresentazione, con le bambole, con la piccola Marwen installata nel giardino di casa per cercare di capire e di capirsi, o per lo meno di immaginare, mettendo costantemente in scena. Al risveglio dopo un volto ricostruito chirurgicamente e una lunga riabilitazione all’ospedale, Mark Hogancamp non aveva più alcuna memoria, non sapeva nemmeno il proprio nome, non conosceva nulla di se stesso, e quel se stesso, purtroppo o per fortuna, non tornerà mai più. Ce n’è uno nuovo, che non ha mai più toccato l’alcool e nemmeno ne conosce il sapore e gli effetti, ma che soffre del suo passato, dei suoi traumi, dei suoi timori ancestrali, delle ossessioni di chi, costantemente, teme di essere nuovamente aggredito, fra realtà, (non) memoria, immaginazione, sogno e incubo. Mark Hogancamp ha scoperto solo in seguito, ritrovando vecchie fotografie, di essere stato sposato con una donna che in alcun modo riesce a ricordare, e ha desunto solo dai disegni trovati in giro per casa di essere stato, in passato, anche un disegnatore non privo di talento. Ma la sua mano ormai trema per via dei danni permanenti al cervello, e per portare la propria creatività su carta gli è ora necessaria una macchina fotografica puntata verso il paese immaginario di Marwen, la sua Isola che non c’è in scala 1:6 in cui costruire una propria storia e (ri)vivere le proprie avventure come cura verso le proprie paure e incertezze, come una risposta personale, prima ancora che artistica, alle domande esistenziali e alle paranoie (a alle medicine, fra dimenticanze e sovradosaggi da dipendenza) che da quella notte non hanno mai smesso di tormentarlo.
Parte da questa consapevolezza Benvenuti a Marwen, nuovo e (a dispetto di una più che mai inspiegabile, ancor prima che ingenerosa, idiosincrasia da parte della stampa a stelle e strisce) straordinario lavoro con cui Robert Zemeckis continua il suo viaggio nella rimozione e nel sogno, nell’emarginazione e nel dolore, nell’identità e nelle dipendenze, nei traumi e nel doppio, mentre nel mettere in scena una messa in scena ripercorre quasi tutto il (suo) cinema continuando a rinnovare, come sempre nella sua “pionieristica” carriera, la forma e le coesistenze di differenti forme. Parte dalla ricostruzione impossibile, dalla traslazione speculare dell’attacco subìto da Mark Hogancamp in quello che la stessa vittima (ri)mette in scena nei confronti di Hougie, la bambola con le sue fattezze, soldato americano nel Belgio occupato della Seconda Guerra Mondiale «perché almeno lì eravamo i buoni». Mark Hogancamp, per cercare se stesso fra le incertezze e i fantasmi del suo disordine post-traumatico, ha costruito un intero mondo parallelo di doppi, con una bambola diversa a rappresentare chiunque faccia parte della sua vita, compresa la pornostar preferita alla quale non certo per caso capiterà più volte di rimanere a seno (di plastica) scoperto. Cercando se stesso, e continuando – o meglio, ricominciando – a cercare il senso delle donne, l’essenza della «salvezza del mondo», con quella passione che lo porta a possedere e – in privato – indossare oltre ottocento paia di scarpe femminili, nemmeno una comprata ma tutte regalatagli da donne che lo hanno amato o gli sono state amiche. Con geniale intuizione, Zemeckis costruisce sul suo mondo di doppi, già di per sé in bilico fra reale e memoria/fantasia, un altro strato, quello della finzione cinematografica, con il quale meta-osservare attraverso le infinite possibilità dell’animazione la genesi psicologica, a volte sognante e a volte allucinata, delle sue storie e delle sue fotografie, della sua arte e delle sue sofferenze, della sua (auto)emarginazione anche in mezzo alla solidarietà e della sua identità dimenticata. In una messa in scena di specchi che uniscono i piani dell’animazione e dei dialoghi immaginati in ogni scatto fotografico e di doppi narrativi che ulteriormente stratificano quelli fra esseri umani e bambole, fra le dicotomie amore desiderato e frustrato/amore inaspettato e le ambiguità di una strega senza identità reale, come solo gigante cinematografico – e Zemeckis lo è (quasi) sempre stato – può concepire.
Nel mondo in miniatura di Marwen quotidianamente Mark Hogancamp vive e rivive, cercando di capire, di trovare le soddisfazioni negate, di vendicarsi senza violenza, o forse semplicemente di dare sfogo alla propria creatività, alla propria fantasia, a quel bagliore che continua a emergere anche dal fondo del subconscio come un’intima essenza che nulla, nemmeno la cancellazione più violenta dell’identità, potrà mai negare. In principio è il cielo, poi entra sullo schermo l’aereo militare pilotato dal personaggio di Mark/Hougie, e poi iniziano a esplodere le bombe che lo abbattono, nella spettacolarità di un incipit folgorante che inizia da subito a mescolare i piani: la realtà e l’immaginazione, la Storia e la fantasia, il trauma e l’eroismo, l’amore e il sogno, e non certo in ultimo, a trent’anni esatti da Chi ha incastrato Roger Rabbit?, il live action e l’animazione, con la motion capture, il rotoscopio e qualche ritocco 3D che entrano quasi in punta di piedi, prima leggeri e poi sempre più percepibili, a trasformare Steve Carell (anche) in una bambola dalla fisicità palpabile e dalla fluidità assolutamente perfetta. C’è il fuoco sul velivolo, c’è l’atterraggio/ammaraggio di emergenza che fa il paio con il paracadute di Allied, ci sono le immancabili scarpe da donna con i tacchi a spillo che Hougie trova e subito indossa, ci sono i soldati nazisti che lasceranno sul suo volto la cicatrice della stessa sofferenza patita da Mark, e ci sono le Barbie che li stermineranno, salvando la vita al personaggio di plastica e accogliendolo, unico uomo fra un esercito di vedove combattenti, nel loro villaggio. Fino a quando la realtà in carne e ossa non ripiomberà nel mondo animato/fotografato di Mark Hogancamp, con una nuova vicina introdotta dal camion dei traslochi (anch’esso marchiato, non certo per caso, Allied) che farà vibrare il piccolo set fotografico fino a far cadere le bambole, rovinando lo scatto.
Bastano pochi minuti a Robert Zemeckis per estrapolare e rimettere in scena quasi tutto il senso di Marwencol, documentario di Jeff Malmberg del 2010 che si focalizzava su Hogancamp, la sua vicenda e il suo piccolo mondo da fotografare, conservando tutto ciò che era necessario e prendendosi la licenza di modificare liberamente ciò che aveva necessità di essere virato in poetica. Ecco quindi che il “Col” di Colleen diventerà quello di Nicol, personaggio ben più centrale (e amoroso, e in un certo senso analogo a Mark Hogancamp con il suo dolore passato di un figlio perduto) rispetto alla reale vicina di casa documentata otto anni fa, ecco che la strega belga di Marwen e la sua macchina del tempo cambiano funzione narrativa e concettuale incarnando i fantasmi ignoti e traditori del passato (nuova linfa per quei miti che sovrastavano l’uomo già nella trilogia motion capture Polar Express, La Leggenda di Beowulf e A Christmas Carol) mentre giocano apertamente con l’autocitazione di Ritorno al futuro, ed ecco che sparisce qualche personaggio che sarebbe stato inutile o contraddittorio nei discorsi di Zemeckis, con la madre di Hogancamp in sostanza sostituita da una bizzarra badante russa che non riesce a tenere a bada le dipendenze da psicofarmaci di Mark e con i personaggi maschili che – a differenza dei soldati francesi e americani del documentario – non entrano a far parte del mondo di bambole se non come SS da eliminare giorno dopo giorno. La realtà è la carne, la ripresa dal vero, e la memoria/fantasia è l’animazione, il mondo di bambole, i modellini che prendono vita di fronte all’obiettivo di chi cerca di trovarsi e al contempo di fuggire da se stesso. Passando per il trauma, virato al rosso come il sangue versato, come punto di coincidenza fra immaginazione e realtà in cui declinare, traslare, sdoppiare, specchiare. Perché i diversi mondi, nella costante paura di Mark Hogancamp e nei doppi di cui circonda il suo doppio, non sono del tutto distinti. A volte si mescolano e si confondono, irrefrenabili in una paura ancestrale o in un immotivato senso di colpa, agrodolci in un innamoramento o in un’illusione, devastanti in un tremolio o in una fuga quasi in lacrime nei corridoi del tribunale, e persino il salotto di casa può diventare un allucinatorio campo di battaglia, un volo di proiettili, un momento di terrore magari provvidenzialmente interrotto da chi, all’esterno, non può sapere nulla e amorevolmente bussa sentendo un grido.
Perché in Marwen, memoria e immaginazione di Mark Hogancamp, illusione e lirica di un animo artistico, sfogo e ricostruzione di un’identità cancellata a forza di botte, non possono esistere una sola croce e una sola delizia, non possono esistere una sola fuga e un solo tormento. In quella che nient’altro è che una proiezione fisica degli interstizi della sua mente, realtà e finzione non possono avere ruoli definiti: spesso è l’immaginazione a essere l’àncora di salvezza da una realtà atroce e ostile, la traslazione della propria sofferenza passata in cui ogni giorno essere eroe, soldato e tenero amante, ma altre volte, quando l’immaginazione prende il sopravvento nelle pieghe più oscure del trauma e il sogno diventa incubo, è esattamente all’opposto la realtà, quella stessa realtà che magari pochi minuti dopo ritornerà facciata e disillusione, il mondo in cui Mark Hogancamp deve trovare rifugio dalle tenebre del suo inconscio. Del resto, già dalla frase di lancio della locandina “Based on a inspirational true story”, Benvenuti a Marwen dichiara apertamente ciò che maggiormente interessa Zemeckis di Mark Hogancamp e della sua Marwen: il continuo giocare (nella finzione) con i piani fra “verità” e “ispirazione”, e la continua ambivalenza, se non proprio ambiguità ed equivoco, fra immaginazione, realtà e messa in scena. Basterebbe in tal senso la poetica, lirica e sinceramente commovente fra i baci possibili solo fra mezzanotte e l’una e il continuo e vicendevole proteggersi, della storia d’amore che Mark Hogancamp mette in scena e fotografa fra il suo Dougie e Nicol. Una storia nata quando, nella fantasia di Hogancamp, la sua amata prima moglie Wendy che lo salvò dai nazisti già giace nella scatola delle bambole senza più vita, le SS hanno già ucciso la piccola mugnaia e il piccolo Dougie identifica ormai l’amore con la morte e con la paura di rimanere ancora una volta solo; una storia destinata nel frattempo, nella realtà, a crescere in una sempre maggiore illusione amorosa, fatta di frasi chiave prima immaginate e poi pronunciate dalla Nicol “reale” e una spilla dell’esercito come impossibile anello di fidanzamento. Ma l’incanto di sorrisi e sale da thé, di timidi baci immaginati e di crescente complicità, di gioie e di sguardi emozionati, è suggerito a Mark solo dall’immaginazione e dalla fantasia, ed è destinato a frantumarsi in uno straziato e infinito silenzio. Zemeckis, in una sequenza straziante eppure lontana anni luce da qualsivoglia facile patetismo, grondante sincerità e partecipazione, lascia Mark in ginocchio di fronte a un divano ormai vuoto, dopo che Nicol che di fronte al fraintendimento sceglie la fuga, di fronte a un amore non corrisposto dichiara la propria amicizia e la altrui amara disillusione. Nell’asfissia del protagonista deluso, si sospende la narrazione, si bloccano i movimenti di macchina, si ferma il montaggio, insieme al suo Mark incarnato da Carell immobilizzato dalla realtà e dall’amarezza, impotente di fronte al reale e al suo sentirsi “diverso”, forse “sbagliato”, di certo rifiutato, emarginato, derelitto. Ed è forse in questo silenzio, più ancora che in ogni spunto visivo spettacolare, più ancora che nella corsa di Dougie dalla bella Nicol ferita, più ancora che in ogni sapido uso degli specchi e dei meta-obiettivi per sottolineare le doppiezze, più ancora che in ogni geniale cambio di fuoco che divide lo schermo fra la realtà e la bambola/strega come simbolo dell’allucinazione, che Robert Zemeckis trova il nucleo più intimo e ancestrale del suo film.
Zemeckis tiene al centro sia l’umanità e l’afflato classico del cinema che, spettacolare e tecnicamente perfetto, emotivo e appassionato, racconta una storia facendo ridere, intenerendo e straziando, sia la più pura teoria cinematografica che, fra (auto)citazioni (post)moderne, una torre campanaria τόπος di ogni thriller da Hitchcock in giù e la stessa (anti)storicità di Inglourios Basterds in cui è possibile uccidere (e appendere a testa in giù) nazisti fino a cambiare la Storia (o per lo meno fino a dichiarare l’impossibilità di fare un film storico), somma temi del doppio e livelli di messa in scena e animazione per ragionare sul senso stesso del rappresentare e sulle sue modalità. Esattamente come nel capolavoro di Tarantino, l’immaginazione si trova a rappresentare, fino a sostituire senza mai tradirla, la memoria, mentre la messa in scena si avvicina al sogno supremo di cambiare a piacimento (e in meglio) la Storia, e il nazismo (di ieri e di oggi) è inciso a doppia mandata nei traumi come un’eterna vendetta impossibile, o forse come un’ancestrale ricerca d’amore (nei confronti di una donna, nei confronti di un uomo, nei confronti di una bambola, o ancora nei confronti della celluloide, meglio ancora se in nobile quanto infiammabile nitrato d’argento) e di se stessi. Ma come già anticipato l’immaginazione, a incombere sull’inquadratura come se fosse un cappio di Sergio Leone o sul sonno di Mark Hogancamp come se fosse un (anti)angelo custode, non è solo fuga e salvezza, ma anche tormento post-traumatico, allucinazione, stress, disordine, vero e proprio demone uscito da chissà dove a resuscitare i nemici e portare via gli affetti, ovvero la memoria precedente. E non è detto che la comprensione e la solidarietà umana, seppure medicine fondamentali per il disagio di Hogancamp, siano sufficienti a contrastare i fantasmi più oscuri che ottenebrano la sua mente, la sua incredulità, i suoi timori, i suoi rimorsi, le sue depressioni, le sue manie: Mark Hogancamp deve trovare la chiave da solo, deve riuscire – come già il Philippe Petit di The Walk e l’eroe triste Denzel Washington di Flight – ad affrontare e combattere i suoi fantasmi, a guardare in faccia (magari “protetto” da Dougie) i suoi aggressori nella realtà, e a spedire per sempre in un futuro lontano la strega che lo attanaglia a Marwen, il mondo della sua fantasia. Continuando nel frattempo a camminare esattamente sulla linea di mezzeria, trascinandosi dietro quella macchinina militare che non è ancora sufficientemente infangata e con le gomme sufficientemente consumate per lo scatto perfetto. Che sia arte o che sia autoanalisi, che sia fantasia o che sia darsi delle risposte, l’importante è riuscire a elaborare il proprio dolore, accettare di presenziare alla propria prima mostra fotografica, ritrovarsi finalmente minuscolo di fronte alle gigantografie delle sue bambole e dei suoi modellini, delle sue pose belliche e amorose, soddisfatto di fronte a un qualcosa che nemmeno si pensava potesse essere così bello. Gigantografie di un immaginario prezioso e dolente, ancora da scoprire. Senza paura di sperimentare e di osare. Come con il sushi, inaspettato come il vero amore. Potrebbe piacere oppure no, ma perché non provarlo?
Marco Romagna