Ore 15:17 – Attacco al treno ha ad oggetto, come si intuisce anche soltanto dal titolo, un attentato terroristico a un treno. E il problema – a suo tempo sollevato più o meno da tutti i commentatori – diventa persino banale: si può costruire (efficacemente) un film da (almeno) un’ora e mezza su un episodio simile? La risposta non può che essere negativa. O almeno: non si può farlo nella maniera scelta da Clint Eastwood. Se Edwin Stanton Porter avesse avuto i mezzi per dilungare il suo Assalto al treno (The Great Train Robbery, 1903), lo avrebbe fatto – almeno vogliamo credere – in maniera dignitosa, perché non mancava quella sostanza che qui Eastwood si sforza di cercare a tutti i costi dove non c’è.
Ma andiamo con ordine, ripartendo proprio dal titolo. Quello in inglese, The 15:17 to Paris, sembrerebbe richiamare il western di Delmer Daves (poi rifatto da James Mangold) 3:10 to Yuma. Non si tratta, tuttavia, di un omaggio meta-cinematografico di Eastwood, dato che il titolo è lo stesso dell’autobiografia su cui è basato il film (The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, a Train, and Three American Heroes) scritta da coloro che furono protagonisti di quelle vicende, i tre ragazzi americani che sventarono l’attentato, Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos (insieme all’immancabile pseudo-ghostwriter Jeffrey E. Stern). Ora. Sembra chiaro come il titolo in italiano e quello in lingua originale abbiano due significati differenti. Quello in inglese significa “il treno delle 15 e 17 per Parigi” e c’è da dire che nelle maggiori lingue straniere è stato tradotto mantenendo questo significato (ad esempio in francese è Le 15h17 pour Paris). Il titolo in italiano, invece, per come è stato formulato, ci dice che “15:17” è l’orario in cui si è verificato l’attacco. Eppure, non è così, essendo l’attentato avvenuto attorno alle 18, poco dopo il superamento della frontiera tra Belgio e Francia. Ma alle mistranslation dei distributori nostrani siamo fin troppo abituati.
Il fatto che i protagonisti siano gente capitata lì per caso e non persone che si sono addestrate per mesi per una determinata azione, ancorché breve, è quello che differenzia un film come questo da uno che potrebbe essere ritenuto (strutturalmente) simile come Zero Dark Thirty (che racconta l’assalto al compound di Bin Laden in Pakistan e la sua cattura e uccisione, in una missione che è durata, anche in quel caso, pochi minuti, ma che aveva alle spalle mesi di preparativi, di operazioni di intelligence e di addestramento). Anche Sully, il film di Eastwood che precedeva questo, raccontava un fatto realmente accaduto che si consumava in pochi minuti (l’ammaraggio di un aereo di linea sul fiume Hudson, dopo alcuni problemi alla partenza). E non è un caso che Sully e The 15:17 to Paris siano le opere più brevi della filmografia del regista californiano (rispettivamente, 96 e 94 minuti di durata). Eppure, in Sully Eastwood aveva svolto un lavoro più che discreto, innestando efficacemente nella stessa pellicola azione e legal thriller. Alla fine, dunque, tutto si riduce ad un grosso problema di fondo: come riempire di contenuti un lungometraggio incentrato su un fatto di durata particolarmente esigua? In Sully Eastwood ha trovato la ricetta giusta. In The 15:17 to Paris, invece, semplicemente non ci è riuscito.
I tre uomini (due dei quali militari in licenza) che hanno – casualmente – bloccato l’attentato del 21 agosto 2015 progettato e messo in atto all’interno del TGV Thalys dal venticinquenne marocchino Ayoub El Khazzani, armato di tutto punto, si trovavano in giro per l’Europa per un viaggio di piacere. Tre ragazzi – e qui sta una delle particolarità più interessanti del film – interpretati da loro stessi, anche grazie alla relativa vicinanza temporale delle vicende ricostruite. Il che ha portato Eastwood a decidere – e in ciò gli va dato atto di aver avuto una buona intuizione – che nessuno meglio di loro avrebbe potuto assumere le parti dei protagonisti. Facile a dirsi, ma di sicuro non a farsi, soprattutto se hai a che fare con attori non professionisti che devono essere guidati passo passo, ancorché nel fare cose che conoscono alla perfezione, dato che le hanno vissute in prima persona. E in questo aspetto sta forse il maggior merito del regista, quello di aver saputo dirigere in maniera efficace tre ragazzi che non avevano mai recitato prima di allora, e che risultano decisamente convincenti nell’interpretare loro stessi (e si usa dire – anche per attori più navigati – che interpretare se stessi sia una delle cose più difficili nel campo della recitazione).
Ma torniamo al tema di come riempire i 90 e rotti minuti di pellicola. Eastwood decide di farlo raccontando l’infanzia dei tre protagonisti, di come sono diventati amici e di come non fossero esattamente dei bambini prodigio (per usare un eufemismo, visto che ovviamente non c’è da fidarsi della ricostruzione, sicuramente edulcorata, propugnata dal film). Venti minuti devastanti, seguiti da un’altra quarantina in cui si raccontano episodi della loro età adulta, dalla decisione di entrare nelle forze armate (per due dei tre), a quella di effettuare tutti assieme un viaggio di piacere in Europa. Viaggio di cui, ovviamente, vengono mostrati tutti i dettagli, dalla sbirciata sotto la gonna dell’addetta alla reception dell’ostello di Roma, alle serate nei club tedeschi. La parte ambientata in Italia (Roma e Venezia, ça va sans dire) è francamente stucchevole: al di là del clima da “Turisti per caso”, è davvero imbarazzante, ai limiti della fremdschämen, assistere ad interi minuti in cui i protagonisti si fanno selfie davanti ai monumenti o a vere e proprie marchette nei confronti di hotel e ristoranti (quelli veneziani, in particolare, pubblicizzati in modo spudorato). Ma le cose non cambiano quando Eastwood prova a dare un tono alla pellicola inserendo la frase ad effetto, messa in bocca al rude Spencer Stone: «Non pensi mai che la vita ti sta spingendo verso qualcosa? Uno scopo più elevato?». E qui, dopo aver toccato il fondo, la credibilità del film inizia a scavare, perché vedere tre sempliciotti come quelli che d’un tratto diventano gli Hegel della situazione non può che lasciare esterrefatti.
Siamo dunque di fronte, largo circa, a settanta minuti di inutilità seguiti da venti di buon cinema. Perché dal momento in cui la pellicola si concentra sull’attacco al treno le cose iniziano a diventare interessanti: la regia si fa intensa e dinamica, tanto da fare perdonare sia il lungo inserto documentaristico del finale (la cerimonia di conferimento della Legion d’Onore da parte dell’ex Presidente francese Hollande, di cui si riportano le immagini d’archivio), sia (anche se un po’ meno) la retorica del minestrone patriottico conclusivo, che in un film di Eastwood non può mancare ma che forse questa volta più che mai lascia in bocca qualche riserva sulla posizione politica. Del resto, The 15:17 to Paris andava ad innestarsi in quella che già molti commentatori considerano una trilogia. In particolare, una trilogia sull’eroismo, sull’American Hero. Una trilogia che sembra già essere diventata una tetralogia con il recente Richard Jewell. Ma di questi quattro lungometraggi, Ore 15:17 – Attacco al treno è probabilmente il peggiore, quello in cui il tema dell’eroe viene affrontato nella maniera meno convincente in assoluto: se Eastwood aveva intenzione di dipingere l’affresco di una moderna teoria del fatalismo, il risultato non è per nulla soddisfacente.
Vincenzo Chieppa