C’è chi li accusa di essere un sostanziale spreco di denaro, chi li pensa alla stregua di ghetti per snob, chi li considera una mera passerella per i vip. C’è chi fa affari con il cinema e li utilizza come una sorta di emporio di film, c’è chi fa cinema e giustamente brama che la sua opera giri il più possibile, e c’è chi – come noi – è ormai felicemente intrappolato dal loro rutilare, e quando si sveglia la mattina ci mette trenta secondi a realizzare in quale città nel mondo si trovi e almeno un paio di minuti per ricordare quale sarà il film delle 9. Dall’altra parte, c’è chi non sa nemmeno che esistano, eccezion fatta forse per i tre principali di Cannes, Venezia e Berlino, giusto perché ne parla il telegiornale della sera e accodandosi magari alle imbarazzanti polemiche che nascono in Italia quando il miglior film di Venezia vince Venezia solo perché è filippino, in bianco e nero e dura 3 ore e 46 minuti. Il pomo di questa discordia è, ovviamente, da ricercarsi nei Festival cinematografici, crocevia culturali in un mondo ormai sempre più tecnologico e digitale in cui il cinema ha decine di metodi per arrivare direttamente nelle case, saltando di fatto o quasi una sala che, complici le scelte spesso machiavelliche da parte dei vari distributori, sta sempre più perdendo la sua funzione primaria di “prima visione”. Da parte nostra e nel nostro (molto) piccolo di CineLapsus, cerchiamo al contrario di dimostrare giorno dopo giorno come un Festival cinematografico non sia affatto costituito dai lustrini delle kermesse più famose, dai photocall, dalle conferenze stampa blindate o dal vestito più audace mentre tutti sperano nel colpo di vento malandrino, o quantomeno cerchiamo di dimostrare come un Festival non sia solo quello. Perché la sostanza di un Festival è e deve essere soprattutto quella di insostituibile vetrina per i film, che trovano un palcoscenico impossibile al di fuori da appuntamenti di questo genere. Sono luoghi in cui fermarsi davanti agli schermi per riflettere e informarsi, sono luoghi in cui cercare di capire un punto di vista differente, una cultura diversa, una corrente di pensiero apparentemente incompatibile. Ma sono anche luoghi dove conoscere persone, confrontarsi non solo con gli schermi ma anche con il materiale umano, nutrendosi insieme di immagini, di idee, di visioni. Di dolori, di gioie, e forse anche di noia: di quel costante dialogo e scambio che è il cinema.
Ben al di là dei più ambiti tappeti rossi, c’è tutto un mondo altrimenti sommerso di produzioni indipendenti, di nuovi linguaggi, di cinematografie economicamente più deboli rispetto ai colossi mondiali, di grandi film e autori che senza il lavoro capillare svolto dai consulenti e dai selezionatori dei Festival di ricerca – in testa Locarno e Rotterdam, ma ogni kermesse più o meno piccola e cittadina ha i propri indirizzi ben precisi, che siano geografici, tematici o linguistici – non sarebbe altrimenti possibile vedere e conoscere. I Festival sono prima di tutto l’occasione principale perché i film vengano mostrati e apprezzati, e poco importa in questo discorso se si tratta di primizie presentate dagli autori o di (capo)lavori riscoperti nell’ambito delle più disparate retrospettive. Anzi, proprio per quanto riguarda lo specifico di quelli più piccoli, i Festival sono oasi felici, luoghi di interesse culturale, di reciproco scambio, di costante crescita e accrescimento. Viene in mente in questo senso quel piccolo gioiello che è il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro nella sua ricerca di linguaggi cinematografici e di intercomunicazione fra i vari ruoli che trovano posto fra la macchina da presa e lo schermo, vengono in mente le Giornate del Cinema Muto di Pordenone e l’oceano di meraviglie dimenticate da quasi un secolo che trovano nuovamente la luce in un ambiente appassionato, viene in mente il Mille Occhi di Trieste strutturato come una sorta di cineforum privato con accostamenti impensabili e geniali che viene invece aperto a tutti con tanto di occasioni di dibattito. A volte un Festival cinematografico è “solo” un sogno, è un’utopia, è un piccolo miracolo pronto a rinnovarsi ogni anno in una costante crescita. Il Festival di Salsomaggiore Terme – dai primi Incontri cinematografici di Monticelli Terme, figli diretti dell’esperienza e dell’humus culturale del FilmStudio di Roma negli anni Settanta, fino al Salso Tv & Film Festival – è stato un meraviglioso propagarsi, come le onde che nascono da un sasso lanciato in uno stagno, destinate a turbare la placida tranquillità della provincia e dell’immobilismo culturale in un moto circolare (ir)regolare e a volte esplosivo. Questo racconta Sassi nello stagno, esordio indipendentissimo del documentarista emiliano Luca Gorreri, e lo racconta rispettando lo spirito del Salso Film & TV, la sua innata volontà di ricerca linguistica, la sua profonda umanità nell’ambiente cordiale e affabile così lontano dai ritmi freddi e serrati dei Festival principali, e non in ultimo la sua vena ironica anche scomoda, declinata in accostamenti impietosi fra le dichiarazioni di grandezza del “nuovo” Cinema Art Festival, destinato a durare solo due anni, e la consapevolezza del suo immediato futuro. Oggi, dopo un quarto di secolo, del Festival di Salsomaggiore non c’è quasi nemmeno più memoria, rimosso dalle agende e dagli archivi, come un buco nero sul quale Gorreri cerca – con successo – di fare luce.
È stato quasi deliberatamente ucciso, il Salso Film & TV, stritolato nei primi anni Novanta da una grandeur per la quale non era nato, e anzi contro cui aveva sempre apertamente combattuto a spada tratta. È stato un peccato di presunzione, un atto di tracotanza, una perdita della bussola, e senza più una direzione da seguire può succedere di perdersi e cadere. Dal 1977, il sasso della ricerca del “nuovo cinema” inizia a muovere acqua che muove altra acqua, schizza, scontra, procede in ogni direzione e non tornerà mai più indietro. Sembravano onde destinate a crescere, maturare, muoversi e smuovere ciò che sta loro intorno, quelle di Salsomaggiore. Onde capaci di portare fra il ’77 e il ’91 nella più placida provincia italiana, sotto l’egida di Adriano Aprà coadiuvato dalla famiglia Bertolucci, da Patrizia Pistagnesi e dal compianto Marco Melani che fu fra gli autori di Fuori Orario, nomi del calibro di Jean-Luc Godard, Amos Gitai, Otar Iosselliani, Jean-Marie Straub, Aki Kaurismaki e gli esordienti fratelli Coen, lanciando nel frattempo le carriere degli allora sconosciuti Silvio Soldini, Marco Tullio Giordana e Fiorella Infascelli. Era un contro-festival, che inizialmente rifiutò concorsi e premi, perché l’unica cosa che contava era mostrare i film, cercarli, presentarli: muovere le acque. Questo tipo di Sassi nello stagno, però, questo tipo di onde, questo tipo di utopie, quando il potere si intromette, possono tristemente essere snaturate fino a perdere il loro stesso senso, e poi sarà il tempo a farle sparire progressivamente anche dalla memoria collettiva. Al suo apice zenitale, quando a Roma l’Auditorium doveva ancora essere progettato e Torino stava appena iniziando a muovere i primi passi come Festival Giovani, il Festival di Salsomaggiore era la terza kermesse italiana, ancora lontana dai numeri di Venezia ma pronta a insediare Pesaro, con cui condivideva grossomodo lo stesso spirito di ricerca di “nuovo cinema” e la pari considerazione delle persone e dei film: la necessità di “fare gruppo” e creare occasioni di scambio e dialogo. Ma a Salsomaggiore Terme, consacrata allo spirito eternamente pop di Miss Italia, le istituzioni non vedevano di buon occhio un Festival così smaccatamente “non per tutti”, pronto ad accogliere giovani ma prevalentemente frequentato da addetti ai lavori, e il passaggio a Pesaro del direttore Adriano Aprà fu l’occasione per “rilanciare un Festival che sia in grado di competere con Venezia”, destinato invece con Zavoli, giornalista anche stimabile ma non certo uno stretto cinefilo, a perdere la propria cerchia di interessati e a morire dopo un paio d’anni di anonimato.
Sassi nello stagno è di fatto un’inchiesta giornalistica, dalle radici fino alla fine del Festival di Salsomaggiore, che usa come filo conduttore le interviste al direttore Adriano Aprà, alla sua vice Patrizia Pistagnesi, al segretario Luciano Recchia e all’assiduo frequentatore Enrico Ghezzi, passando per le ospiti d’onore Christa Lang e Samantha Fuller. Alterna interviste di oggi alle immagini di repertorio, spezzoni di film presentati nel corso delle varie edizioni a riflessioni sulla natura stessa del Festival e dei Festival, snocciola programmi sorprendenti – dalla personale su Max Ophuls a quella su Wim Wenders con tanto di prima italiana di Nel corso del tempo, passando per proiezioni dei vari lavori di Oshima, Fassbinder, Wajda, Vecchiali, Rivette, Olmi, Chantal Akerman, Hitchcock, Nicholas Ray, Griffith e Fritz Lang –, per poi focalizzarsi sui giochi di potere che ne hanno distrutto l’anima e la stessa esistenza. Eppure, nel rispondere puntualmente ai vari interrogativi che (si e ci) pone, Luca Gorreri rifiuta strenuamente le forme classiche e televisive così come il Festival di Salsomaggiore rifiutò fino alla fine di cedere alle sirene dei volti più noti che avrebbero potuto rendere l’evento più commercializzabile. Le forme di Sassi nello stagno, al contrario, sono assolutamente cinematografiche, pronte a citare la poetica degli autori che a Salsomaggiore hanno trovato le meritate passerelle, a partire da Godard fino a Derek Jarman, con un gusto per una sperimentazione visiva e nel montaggio che non ha paura di affrontare diversi linguaggi, fra incroci audio-video, contrapposizioni, dissolvenze, passaggi in bianco e nero, viraggi nella gamma cromatica, voci narranti fuori campo e incursioni nella finzione, dal vhs al rap. E poco importa, a questo punto, se Gorreri di quando in quando esagera nelle sospensioni e nelle dissolvenze, oppure se pecca qua e là in ineleganza – a partire dalla scelta di un font per i titoli che finisce per ricordare troppo i b-movie. Al di là di qualche veniale sbavatura ancor più perdonabile nella sua natura di esordio autoprodotto, Sassi nello stagno è un film da sostenere, capace di riflettere e suscitare riflessioni sulla funzione stessa dei Festival, capace di omaggiare e ricontestualizzare una direzione di ricerca e le diverse tipologie di cinema e di televisione che in questa ricerca hanno trovato spazio, capace di riportare al centro l’idea stessa che muoveva Salsomaggiore riportandolo alla memoria e in un certo senso facendolo rivivere, ponendosi come un nuovo sasso nello stagno pronto a scuotere ancora una volta le placide acque termali della provincia emiliana. Quello di Luca Gorreri è un esordio estremamente interessante e per molti versi sorprendente, al contempo puntuale e ironico, a tratti acido e pop, coraggioso in forme capaci di coniugare il videoclip con le associazioni godardiane e le giustapposizioni di Straub, acuto nella sostanza cinefila e umana, fino al suo apice che deflagra nel ricordo accorato di Marco Melani, della sua contagiosa passione, delle sue idee rivoluzionarie, della sua figura saggia e dirompente, sempre rispettosa del lavoro altrui ed entusiasta nel proprio. Come ricorda Enrico Ghezzi in uno dei suoi illuminanti sprazzi di genialità, “Il Festival di Salso trattava e amava le immagini come persone e trattava e amava le persone come immagini”, e nella televisione che viene distrutta nel finale non si può che vedere come la mannaia della politica locale abbia snaturato e imbarbarito un gioiello fino a rompere il giocattolo, prenderlo a martellate, farlo esplodere in una pioggia di vetri. Ma, nel frattempo, Salsomaggiore è sempre uguale a com’era 25 anni fa, serena e silenziosa fra le terme e gli stagni, mentre una nebbiolina inizia ad avvolgerla dolcemente scendendo dai dolci pendii poco distanti. Che sia giunto il tempo, cavalcando l’onda di questo nuovo sasso nello stagno, di far ripartire un sogno?
Marco Romagna