Bob Rafelson fa parte di quella schiera di registi – come altri del periodo della New Hollywood – che è riuscita a lasciare il segno in pochi anni e con altrettanti pochi film, per poi perdersi in una seconda parte di carriera priva di grandi guizzi o per lo meno incompresa, con conseguente inevitabile (e ingeneroso) oblio. In ciò è sicuramente più vicino a registi come Monte Hellman, Paul Mazursky, Jerry Schatzberg, che ai suoi più celebrati colleghi facenti parte dei cosiddetti Movie Brats (Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, George Lucas) o a quegli altri che comunque riuscirono ad andare oltre la New Hollywood (Mike Nichols, Arthur Penn, Robert Altman, William Friedkin, Terrence Malick) o che avevano avuto una storia importante precedente al movimento (Don Siegel, John Huston). Con i Movie Brats (e in particolare con Coppola, Lucas e Spielberg) Rafelson condivideva però quella spregiudicatezza imprenditoriale che ha reso il suo apporto al cinema più memorabile per le produzioni che per le regie: sua fu infatti l’intuizione (con Bert Schneider) di finanziare Dennis Hopper per Easy Rider, uno dei più grandi successi finanziari e insieme artistici della New Hollywood, nonché uno dei tre film cui si fa generalmente risalire la genesi del movimento. Alla società di produzione di cui Rafelson faceva parte, la BBS, si deve anche un altro dei capisaldi della New Hollywood, L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich. Quanto invece all’attività da regista, i pochi anni in cui Rafelson lasciò il segno furono quelli tra il 1970 e il 1972, gli anni in cui uscirono Cinque pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin, il primo dei quali viene oggi riproposto nell’ambito della trentanovesima edizione de Il Cinema Ritrovato, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. Prima di Five Easy Pieces Rafelson aveva diretto un solo lungometraggio, l’esperimento pop-psichedelico di Head (Sogni perduti, 1968), in cui continuava la sua missione di (sovra)esposizione mediatica del gruppo The Monkees, la boyband nata come risposta americana ai Beatles (in maniera talmente artificiosa da far parlare di loro come dei “Prefab Four”). Con i Monkees Rafelson aveva già confezionato una di quelle che oggi si chiamano serie tv, di una sessantina di episodi (due stagioni), in cui si cercava di cavalcare gli entusiasmi scatenati dalla beatlesmania. E Head altro non era che la prosecuzione, su grande schermo stavolta, di quell’esperimento televisivo, con una commedia musicale grottesca e surreale, nel pieno stile di quel 1968 in cui usciva.
Dopo Head e dopo la (travagliata) produzione di Easy Rider, arriva dunque Cinque pezzi facili, in cui Rafelson si affida al suo sodale Jack Nicholson (con cui aveva collaborato sia nel primo che nel secondo, seppure con ruoli diversi), per raccontare una storia di inquietudine esistenziale, di turbamento generazionale, di insoddisfazione sociale, di condanna all’infelicità, di angoscia, di tormento, di disillusione, di nichilismo emotivo, come in pochi altri casi il cinema americano aveva osato e saputo fare fino ad allora. Questa volta non serviva avventurarsi nel contesto della controcultura (come avvenuto per Easy Rider), considerato che la storia di Robert Eroica Dupea (Nicholson) è ambientata a cavallo tra il mondo borghese (da cui il protagonista è fuggito una prima volta e fuggirà anche in seguito) e quello del proletariato (nell’accezione americana del termine, sicuramente distante da quella europea), mondo in cui Robert si trova a condividere – per sua scelta – una vita incolore con la giovane compagna Rayette, una straordinaria Karen Black. Rayette è una ragazza svampita e fatua, fa la cameriera in un diner, mentre Robert è operaio in un impianto di estrazione petrolifera. La loro vita di coppia, fatta di banali distrazioni come le serate al bowling, è movimentata più che altro dall’infedeltà di lui, espediente con cui Robert prova a evadere da un quotidiano che percepisce come opprimente e insoddisfacente. Un’inquietudine che è anche (e forse proprio) dovuta alla doppia natura del protagonista, un borghese di nascita che ha voluto abbracciare una vita che non è la propria. Quel disagio sembra parente dello spleen degli intellettuali romantici o bohemien ottocenteschi più che della ribellione contro il sistema tipica delle controculture dell’epoca, una ribellione che si esprimeva anche nell’ambito familiare solo nella misura in cui i genitori erano specchio di quel sistema, erano appendici domestiche dell’establishment, e non per una generale sensazione di soffocamento esistenziale, come quella provata dal protagonista. Semmai quella versione di ribellione è da ricercare nei personaggi delle due ragazze che accompagneranno per un tratto il viaggio di Robert e Rayette, inveendo, tra le altre cose, contro la società dei consumi. A confronto, il protagonista è un personaggio solo inconsapevolmente politico e come tale non incline a manifestazioni di tipo ideologico. Alcuni commentatori hanno ravvisato nel film di Rafelson una rappresentazione del fallimento del Sogno Americano, eppure quelle letture non paiono condivisibili, almeno nei riguardi di Robert, che si allontana dalla famiglia a causa della sua insofferenza e che comincia un’altra vita per mera inerzia, non certamente per tentare di costruirsi un futuro di successo («Continua a raccontarmi della bella vita, perché mi fa vomitare!» dirà Robert a Elton in uno scambio di battute particolarmente significativo). Insomma, il film di Rafelson sembra pura rappresentazione del disagio esistenziale e non del fallimento dell’American Dream, tema che invece sarà centrale nel successivo The King of Marvin Gardens.
In occasione di una visita alla sorella Tita, Robert scoprirà che il padre è gravemente malato e deciderà di andarlo a trovare, portandosi dietro Rayette, che però lascerà in un motel pur di non introdurla nella casa di famiglia. I Dupea, come detto, sono una famiglia borghese, ma decisamente sui generis e non a caso la loro dimora si trova su un’isola, come a dimostrare una loro lontananza dagli archetipi, come a raffigurare il loro isolamento sociale sì dalle categorie “inferiori”, ma anche dai loro pari. Sono una famiglia borghese, ma di quelle che si sono votate all’arte e alla cultura più che all’arricchimento e alla vita mondana e agiata. In particolare, come già si evince dai nomi dei tre figli (Robert Eroica, Partita e Carl Fidelio), i Dupea sono una famiglia di musicisti. Tutti e tre i fratelli sanno suonare egregiamente il pianoforte, come aveva dimostrato Robert già a inizio film in una sequenza memorabile non solo della filmografia di Rafelson ma dell’intero cinema americano dei primi anni Settanta: fermo in coda su una highway con il suo amico e collega Elton, Robert dà di testa (anticipando Michael Douglas e il suo giorno di ordinaria follia) iniziando dapprima a girare tra gli automobilisti che si accaniscono sui clacson (a dimostrazione di un’insofferenza che è in realtà collettiva) e poi salendo su un camion che trasporta un pianoforte verticale, che Robert inizierà a suonare confermando la buona conoscenza dello strumento cui aveva accennato Rayette in apertura di film – ma ciò nonostante spiazzando comunque lo spettatore, che fino a quel momento lo aveva visto soltanto nelle vesti di operaio. Il camion imboccherà un’uscita dell’autostrada lì vicina, allontanandosi dal traffico (e dalla massa inquieta, anche metaforicamente) mentre Robert continua imperterrito a suonare il piano nel cassone. Si tratta di uno dei pochi momenti in cui Rafelson si discosta da un approccio per il resto fortemente realista e naturalista, confermato dalla sobria fotografia di László Kovács, che abbandona del tutto lo sperimentalismo di Easy Rider.
Una importante svolta narrativa – in un film che di narrazione ha ben poco, affidandosi, per ravvivare la trama, all’intermezzo on-the-road (come molte altre opere dell’epoca) – è dunque rappresentata dal ritorno di Robert nella casa paterna. Lì si svolge tutta la seconda parte del film, introducendo anche il tema dell’incomunicabilità generazionale (à la Antonioni) per mezzo di un espediente banale ma efficace: il padre, infatti, a seguito di due ictus, non riesce più a parlare ed è pressoché cognitivamente assente. Eppure Robert, nella fondamentale sequenza in cui lo accompagna a passeggio, per poi tentare un dialogo impossibile, riconosce come una comunicazione tra i due sarebbe stata in ogni caso impensabile («Se tu potessi parlare non parleremmo affatto»). In quella casa si consuma anche un episodio che ha, questa volta sì, il sapore della ribellione alla società borghese, ben più di quanto lo potesse avere l’abbandono dell’abitazione paterna da parte di Robert: alcuni amici di famiglia discutono con i fratelli Dupea con atteggiamento particolarmente snob, provocando la reazione, dapprima, di Catherine, la compagna di Carl Fidelio che ha avuto un fugace flirt con Robert, e poi di quest’ultimo, in maniera decisamente più scomposta e volgare. Ma la sconfitta esistenziale, irreversibile, di Robert, un loser a tutto tondo, emerge con chiarezza soltanto nel finale, quando, lasciata la casa paterna, decide di abbandonare anche la sua Rayette, l’unica che – pur con la sua semplicità naïf – gli è sempre stata accanto: in una stazione di servizio Robert chiede un passaggio a un camionista diretto verso il grande Nord, lasciando indietro la sua ragazza, la sua vettura e persino la giacca e il portafogli, a dimostrazione dell’impulsività della propria decisione, ma anche di un’inconscia volontà di liberarsi di ciò che è materiale. E non è un caso che l’allontanamento di Robert sia ripreso in campo lungo, senza alcun accompagnamento musicale, nemmeno negli immediatamente successivi titoli di coda. Una fissità e un silenzio che fotografano al meglio l’inquietudine, di un momento e di tutta una vita.
Vincenzo Chieppa