18 Settembre 2019 -

ATLANTIS (2019)
di Valentyn Vasyanovych

La ridiscussione degli effetti di qualsiasi passato possibile è sempre viva nel futuro. Così è in Ucraina Orientale, pochi anni dopo quello che stiamo vivendo e quello che è successo. La soggettiva è quella di un soldato incapace a ri-vivere dopo il trauma della guerra, distante da quella realtà ormai post-apocalittica di un Paese così desertico nel suo esser dilaniato. Lavora in una fonderia che è ormai in smantellamento, e così si unisce ai volontari che tentano di recuperare i cadaveri, frettolosamente sotterrati e abbandonati come rifiuti invisibili ormai anche alle telecamere termiche, rimasti sul campo di quel conflitto passato. Lì conosce una ragazza, forse l’unica chiave di emancipazione nei confronti di tutto quello che è successo. Quasi come se fosse ancora contaminato dal dramma, quel lembo di terra diventa l’espressione di un impossibilità alla vita, di una dimensione asettica dove il tempo più che fermarsi pare essersi spezzato in un punto di rottura indefinito. La terra, e tutto quello che la circonda, è in uno stato di sospensione apparente che diventa spettro metaforico della mancanza di qualsiasi atto (come della presa di coscienza); ogni frammento è solo mosso da una disperata dialettica materialistica in cui le figure attraversano gli spettri tra la pioggia e la nebbia, vivendo l’illusione della possibilità che in tutto ciò qualcosa sia potuto sopravvivere. In tutta la sua rigorosa deriva Atlantis, vincitore della sezione Orizzonti a Venezia76, è allora un’ode disperata alla speranza della sopravvivenza, non tanto del corpo ma dell’anima, di ciò che non si può più vedere. E dunque, cosa resta a loro da guardare? E cosa a noi? Iniziamo dal buio, pensando che nella struttura di quell’oblio umido e marcio appaia una traccia di luce.

Valentyn Vasyanovych cesella un film che dialoga continuamente con il tentativo di ricostruire la realtà rappresentata, una possibilità di modulare il tempo incapsulato nella deriva di momenti sedimentati attraverso la Storia. Una visione fissa di campi in continuo mutamento con l’amplificarsi di schermi e specchi, ampliando la possibilità dei punti di vista senza comprendere cosa sia il visibile. Atlantis procede attraverso falsi movimenti, impressioni di fissità, forma che trova la propria sostanza nei frammenti che il passato ha lasciato sulla terra. Le scene del recupero dei corpi (e quelle ancora più rigorose della sezione di essi), così come quelle dei bersagli mobili o del bagno nell’acqua ghiacciata, somigliano a immagini di terzietà che giustificano autonomamente la propria esistenza al cospetto di ciò che viene raccontato. Pare essere proprio il cinema a ricostruire – o forse unicamente a salvare quei piccoli germogli di vita rimasti – ciò che la guerra ha spezzato per sempre. La fabbrica in chiusura (dove si intravvedono idealmente, tra Orwell e Lang, frammenti de La Sesta Parte del Mondo di Vertov) e la vicina apocalisse ecologica (l’acqua avvelenata, quella una volta pompata nelle miniere e che ora penetra nei pozzi e nei fiumi provocando nel Donbass la mancanza di acqua potabile e trasformandolo progressivamente in un deserto) paiono lo spettro di un collasso senza fine che nega qualsiasi orizzonte di futuro. Solo l’atto – vitale, prima che sessuale – di un amore, durante la tempesta che si deposita sui vetri mentre la camera li penetra, può invertire per un attimo il disastro. Quando i loro corpi si abbracciano dopo essersi intrecciati, sul retro del furgone, oltre la porta è arrivato il sereno. Nemmeno in quel lembo di Ucraina può piovere per sempre, nemmeno lì si può solo morire. Ogni fine ha il suo inizio.

Lo sfondo di esercizio di questo film, solo apparentemente legato a una sintassi teorica in cui si possono intravedere Deleuze come Peirce, è composto quasi da rivelazioni di ciò che la guerra ha perpetuato, della sua eredità irreversibile, attraverso la presenza umana, verso il rincorrersi degli elementi naturali che traslano le invenzioni pittoriche e visive. Le strutture di cui è composto il pianeta, e così noi stessi, si lambiscono e si incontrano per poi disperdersi in un’esperienza che diventa sempre più sensoriale ed emozionale. Vasyanovych modella il suo incubo simbolico, folle e astratto, e lo definisce attraverso la parabola umana di chi vive in questa landa, ribaltando l’entità di distruzione e mummificazione e di quell’emozione di un’umanità che si possa redimere dalla sua stessa fine. Vasyanovych guarda a un cinema che rincorre la presenza materica e simbolica della realtà, riscrivendo le coordinate di luoghi e durate, forgiando l’impressione di ciò che è stato quasi come eredità fossile di un passaggio. Ed ecco che le sublimi sequenze di apertura e chiusura, filmate con la camera termica, scrutano l’invisibile, il calore dei corpi che diventa luce e quindi immagine (e quindi materia, presenza, vita laddove l’occhio non riuscirebbe a vedere). Nel suo rigore, e al contempo nella sua deformità, Atlantis è un atto filmico che cerca/crea l’atto esistenziale, una densità di frammenti materici che dopo essere stati decomposti ritrovano una loro possibile organicità nel postulare un futuro indefinito. Al di là della politica provvisoria, dell’inchiesta d’indagine, della scienza (più o meno) descrittiva di quella realtà, rimane ciò che va oltre la materia stessa del Donbass nel prossimo decennio; rimane l’espressione dei segni di anime che vanno oltre ai corpi, organizzate in quelle esperienze ai limiti dell’annullamento e pronte ad emanciparsi. Nessuno sa se ci sarà qualcosa da vedere, ma sicuramente è possibile agire, ricostruire nuove formazioni, in attesa che un’altra realtà si riveli come nuovo atto di amore. Pure solitario e disperato che sia.
Erik Negro
“Atlantis” (2019)
106 min | Drama | Ukraine
Regista Valentyn Vasyanovych
Sceneggiatori Valentyn Vasyanovych
Attori principali Vasyl Antoniak, Liudmyla Bileka, Andriy Rymaruk
IMDb Rating 6.3

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