3 Settembre 2019 -

GIANTS BEING LONELY (2019)
di Grear Patterson

«Life is a misery and I do not know when death may come. Play Ball!». Una sentenza, probabilmente. Proprio come è una sentenza il titolo, Giants being lonely, già intriso di tutta l’acre e irreversibile inesorabilità del dolore. L’esordio dell’artista newyorkese Grear Patterson al lungometraggio, presentato a Venezia76 nella sezione Orizzonti, è il ritratto di Hillsborough, borgo della Carolina del Nord, attraverso tre ragazzi all’ultimo anno di liceo e di sport. Un dipinto sfocato e distorto tra ville sperse in prati verdeggianti, strade vuote, pomeriggi di baseball e tanta, tantissima, infinita solitudine. In un film lirico e amaro, proprio come l’anno che ti proietta nei grandi. Il lanciatore, stella della squadra, vive in una stamberga col padre alcolizzato sul divano; il suo alter-ego (terribilmente, e volutamente, simile nei tratti somatici) è figlio del coach – aggressivo al limite della psicopatologia – ma con la mazza è assai negato. Entrambi si contendono una ragazza timida e segreta, le cui derive diventano uno scrigno di piccole visioni illuminanti e solitarie, che preferisce il primo ma pare costretta ad andare al ballo con il secondo. Quando la stella inizia a frequentare la moglie del coach (e madre del giocatore/doppio meno dotato) questo fragile equilibrio instabile inizia a deteriorarsi fino al punto di ebollizione. Un percorso ben definito attorno alla solitudine giovanile, comportamentista nel suo affrontare la superficie e i silenzi, nelle differenze di classe sociale e di prospettive sulla vita, ma soprattutto di quanto possa essere subdolo crescere senza sapere cosa esso significhi.

Il cortocircuito nasce dall’apparente somiglianza fra i due protagonisti (fratelli nella “vita reale” quanto agli antipodi sul set) che vediamo su un campo da baseball, presenza ben più metaforica dell’apparenza narrativa stilizzata – anche nella recitazione quasi astratta – di Giants being lonely. L’apertura possibile al sottotesto è questo senso di comunanza che affligge e disorienta chi si affaccia verso l’età adulta, traballante come lo stesso film alla deriva attraverso sentimenti accennati, negati e spesso sorprendenti. Ed è anche lo spazio così ad essere protagonista, diviso tra campi bucolici e piccole proprietà, gazebi notturni e negozi trasandati; la mappatura di Patterson man mano amplia il raggio d’azione come quello dei suoi ragazzi che scoprono dialetticamente quello che li sta aspettando dopo il liceo. In questo percorso di lirismo (che guarda forse a Malick o a Van Sant, o forse addirittura ai Dardenne ma sempre in un’ottica di apparenze e mai di citazioni) ogni elemento assume un piccolo significato simbolico, sfocato e stratificato (i vizi e le virtù che si confondono come le micro-storie che compongono la narrazione, andando pian piano svanendo), lasciandoci nel pieno dello smarrimento. In un flusso che, fra tozziane Ti amo che esplodono potenti e quasi a sorpresa alla festa e luci rosse e blu delle volanti che squarceranno l’orrore della notte, è sempre più cosparso da sprazzi di irrealtà e continue pulsioni di morte consapevolemente e intelligentemente in netto contrasto con l’epopea classica del coming-of-age, come traiettorie di momenti indelebili e scritti nella memoria di chi ci dovrà convivere ben al di là dell’adolescenza. Una piccola odissea di sopravvivenza, che trova il suo senso nell’estetica di un raggio di sole, uno stelo d’erba, un soffio di vento.

Il lungo finale mostra il senso prospettico dell’apparente deriva cosciente di ciò che si è visto precedentemente. Tutta l’innocenza imbarazzata quasi impressionista e vulnerabile esplode in un climax di luci e suoni, visioni e sensazioni. Ogni elemento corrisponde all’altro in questa composizione drammatica, la macchina si muove vorticosamente a seguire la brezza di una festa da cui nessuno potrà uscir con la leggerezza di un futuro possibile. C’è tensione e disorientamento, mentre guardiamo le foglie di un albero illuminarsi nel caos di una giovinezza che sta deflagrando sotto gli occhi di questi ragazzi. L’atto si consuma fuori-campo, ma quel momento resterà indelebile per tutti coloro che a/in quel frammento di mondo sono legati, indissolubilmente. L’ultima immagine (anche discutibile e/o forse gratuita, nel suo detonare tutta questa sospensione) è quella del sacrificio, quello di un tempo che mai potrà tornare. Straordinaria è la flagranza con cui Patterson filma i corpi attraversare i colori e modularli, sognante e sensuale, iper-reale nella sua vacuità ma allo stesso tempo trasognante della terribile umanità di figli intrappolati e confusi, malinconici e inquieti, trafitti dai loro stessi sogni ineffabili e incerti: l’ansia emotiva e abbozzata dell’adolescenza. L’esistenzialismo più puro che si possa affrontare per la prima volta, proprio in quegli anni. «La vita è infelicità e non so quando può arrivare la morte. Giochiamo a baseball!». Ecco la materializzazione della metafora sportiva, attraverso lo sport di squadra che più di altri è espressione di una solitudine, quella del battitore. Una solitudine a volte insostenibile proprio come quella che ci invita a crescere, anche quando non sembriamo pronti (se mai potremmo esserlo). Forse è proprio così.

Erik Negro

“Giants Being Lonely” (2019)
81 min | Drama, Sport | USA
Regista Grear Patterson
Sceneggiatori Grear Patterson (Screenplay), Grear Patterson, Sam Stillman (screenplay by)
Attori principali Alejandro Castro Arias, Amalia Culp, Gabe Fazio, Lily Gavin
IMDb Rating N/A

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