2 Settembre 2019 -

THE LAUNDROMAT / PANAMA PAPERS (2019)
di Steven Soderbergh

Tutto nell’economia di novantacinque minuti. Densi, multiformi e stratificati almeno quanto sono lucidi, secchi e sintetici. Per un film rapidissimo e diretto, teoricissimo ed episodico, rapsodico e deflagrante, sprezzante e velenoso, sarcastico e iper-politico. Ma soprattutto, nelle pieghe di un umorismo che a tratti quasi ricorda il tocco di Lubitsch, sagace e profondamente (film) saggio, manifesto anticapitalista – emblematica la locandina con un maiale che prende il sole su una distesa di banconote – che ragiona sull’economia e sulla forma cinematografica, sul camuffamento e sul dissimulare, sulla finzione e sui buchi legislativi, sulle corruzioni insite nel sistema e sulla sostanziale impossibilità di fermare un potere che ne è inevitabilmente colluso. In The Laundromat, nuovo e particolarmente brillante tassello del percorso soderberghiano presentato in concorso alla 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, c’è il film-inchiesta che ricostruisce la storia dietro a quei Panama Papers che nel 2016 hanno svelato al mondo un intero e ramificato sistema di truffe economiche, c’è il metacinema narrato guardando in macchina dagli stessi avvocati “villain” Jurgen Mossack e Ramon Fonseca interpretati da Gary Oldman e Antonio Banderas, c’è il dramma di ingiustizie sociali che colpiscono una straordinaria e doppia (anzi tripla) Meryl Streep che prima parla al telefono con se stessa e poi sfilerà via entrambi i trucchi fino a ridiventare se stessa, e c’è una lezione chiara ed esaustiva di politica economica, che fra società offshore, fondi fiduciari senza nome, scatole cinesi, false acquisizioni, holding, oscure ri-assicurazioni, firme false, titoli al portatore, capitali sociali spostati su altre fasulle compagnie e sedi esotiche di ditte fantasma che mai hanno avuto un ufficio risale il pozzo di oscurità in cui sono finiti quei miliardi e miliardi di ogni valuta evasi ai vari Stati del mondo senza che i relativi possessori commettessero alcun reato riconosciuto e punibile. Mentre sullo schermo si alternano, come in un mosaico di apparentemente opposti linguaggi e fotografie fotografie, la più irresistibile e inviperita commedia caustica, il noir, il thriller, il sogno, il poliziesco, la vendetta, il tradimento, la transazione economica, la frode, la promessa tradita, l’affondamento, l’omicidio, l’appartamento promesso ad altri, il gioco di prestigio, l’espianto d’organi, e ovviamente non poteva mancare il set, blue screen che diventa verde passando per i fondali di cieli arancioni e una prua su cui forse baciarsi fra la privacy e la segretezza, fra il mascherare/mascherarsi e il far perdere le tracce, fra l’illegalità della corruzione e l’altrettanto fraudolenta legalità assoluta dell’elusione fiscale. In cinque episodi, o meglio «segreti», di una progressione narrativa vorticosa e splendidamente digressiva negli aneddoti, nei fatti, nelle informazioni, nei generi cinematografici e nei monologhi che si inseguono e intervengono a spiegare i meccanismi del capitalismo, come fasi progressive oppure indipendenti e autoconclusive di una storia più grande e universale in cui l’unico comune denominatore è il denaro. Quel denaro “in lavatrice” che, dal dollaro all’euro, dallo yuan cinese al franco svizzero, incornicia come un’animazione ogni passaggio da una microstoria all’altra, da un genere all’altro, da un frammento all’altro, da una stoccata all’altra. Il motore di quel sistema che protegge i ricchi e i “furbi” per continuare a vessare i poveri e gli onesti, aiutando in (quasi) piena legalità i pochissimi miliardari a rimanere tali infilandosi in ogni limite legislativo. Un sistema dalle leggi troppo vaghe e allentate nelle reti di prestanome e di truffatori, pieno di paradisi fiscali in cui affittare una casella postale e ulteriormente aggrovigliare i magheggi, fatto di finestre che danno su stanze vuote dall’altra parte del mondo. Un sistema che è parte attiva e fondamentale del problema, espressione della più profonda disonestà insita e inevitabile nel Capitale.

The Laundromat, già annunciato per l’uscita italiana con il più didascalico titolo Panama Papers, mette in scena gli effetti più devastanti e corrotti di quel denaro inventato per smettere di barattare «banane con mucche» attribuendo il valore a ciò che spesso nemmeno esiste. Ma in Soderbergh non è mai solo l’esplicito il vero punto. Che sia medicina, follia, politica, guerriglia, il lockout dei giocatori di basket oppure, come in questo caso, l’economia capitalista, il gigantesco autore di Atlanta riflette in realtà sempre sul cinema, sui suoi spazi, sui suoi tempi, sui suoi formati, sulle sue lenti, sulle sue tonalità, sui suoi (meta)significati. Perché è ciò su cui si è sempre interrogato e di cui ha sempre apertamente parlato, l’inguaribile teorico Steven Soderbergh. Lo ha sempre metaforizzato, lo ha sempre reso allegoria e parabola, lo ha sempre fatto emergere dai MacGuffin o, come in questo caso, da un’inestricabile matassa di MacGuffin in cui, in un apparente caos perfettamente organizzato in ogni necessaria (non) sfilacciatura, torna per generi, stili e tematiche tutta la sua filmografia, da Out of Sight a Traffic, dagli Ocean’s a Che, da Effetti collaterali ad Unsane, dal (falso) demenziale di Bubble al crudo realismo di The Knick. E non è quindi difficile vedere nel denaro e nelle creative e legali evasioni quelli delle major cinematografiche con cui Steven Soderbergh ha giurato che non avrà mai più nulla a che fare, o volendo fare i maliziosi anche quel denaro multinazionale di Netflix con cui il regista, alla seconda collaborazione consecutiva dopo High Flying Bird con il colosso dello streaming, continua meticolosamente a distruggere il sistema dall’interno. Compreso se stesso, del resto, accusato in una delle tante vette comiche del film di avere cinque conti all’estero dai suoi stessi attori, narratori e protagonisti, quei Mossack e Fonseca che, nel folgorante pianosequenza con cui si apre The Laudromat, passano senza soluzione di continuità dall’età della pietra ai night per miliardari, dalla nascita dei soldi al loro diffondersi, fino al loro annientare ogni tipo di morale trasformandola in ipocrisia, burla, tragicommedia, profonda ingiustizia. Come quell’ingiustizia che, sin da principio, colpisce la Ellen Martin di Meryl Streep insieme ad altri venti vittime a cui l’assicurazione nega il risarcimento dopo l’incidente in barca che ha affogato i loro cari. Intrappolandola in una rete di compagnie che non esistono, di documenti falsificati o per lo meno predatati, di prestanome arrestati o morti e sostituiti nel giro di cinque minuti, di continue acquisizioni ad allontanare e nascondere sempre di più il denaro, le responsabilità, l’etica umana. Fino a negarle persino quella casa losangelina che le avrebbe ricordato il romantico momento del primo incontro con quel marito che non avrà mai più, quei suoi biglietti in mano per invitarla timidamente a uscire, quel suo infinito amore, negatale dall’agente immobiliare ad accordo già raggiunto per l’inserirsi di un gruppo straniero. Da New York a Miami, da Panama a Nives, «I miti sono fregati», le compagnie «Sono solo gusci» vuoti con cui coprire i segreti fiscali e comprare la privacy mentre si specula persino sui morti, e il confine fra criminali e clienti si fa sempre più labile mentre impera il «Dillo a un amico» a moltiplicare fino a centinaia di migliaia le società offshore. Mentre la «Corruzione 101» fatta di corna, negoziati, transazioni, equivoci e fregature è l’unico modo di trattare (e truffare) anche in famiglia, in attesa de «Il grande colpo» finale, con cui The Laundromat, girato di nuovo in Red dopo gli iPhone delle ultime due sortite, allarga il suo formato a 2,40:1 per travestirsi da thriller e avvelenare quei “guanti bianchi” che iniziavano a ricattare un potere di cui conoscevano troppi segreti poco prima che la giustizia inizi a fare il suo piccolo corso. Perché anche parte del potere ogni tanto cade. Sotto le accuse di omicidio, di riciclaggio, di tangenti, di frode e di abuso di potere. Ma, anche quando l’anonimo John Doe, dopo aver hackerato le mail, consegna agli inquirenti e alla stampa i quasi 3 terabyte di documenti dei Panama Papers che hanno scoperchiato il vaso di Pandora e sconfitto (per ben tre mesi di carcere, mente i poveri sono ovviamente rimasti dentro) la Mossack-Fonseca, il potere continua a rinnovarsi, a sostituirsi, a cambiare nome e maschera ma mai faccia. Quella di Obama, quella di Varela, quella di Meryl Streep cattiva e buona, quella dello scandalo Odebrecht in Brasile, o forse quella di una Statua della Libertà tutta da parodiare, simbolo del Paese più di tutti fondato sul Capitale. Perché se sono altri centinaia gli studi come quell’unico scoperto e chiuso nel suo lavoro sporco e corrotto, sono migliaia, o forse milioni, le ragnatele e le scatole cinesi da loro costruite. Attori – fuori e dentro il teatro di posa – di un male grande come gli Stati Uniti, come la Cina, come il mondo. O forse “solo” come il cinema. Quello grandioso, ampiamente da Leone d’Oro, di un sempre (più) indispensabile Steven Soderbergh.

Marco Romagna

“The Laundromat” (2019)
N/A | USA
Regista Steven Soderbergh
Sceneggiatori Jake Bernstein (book), Scott Z. Burns (screenplay)
Attori principali Gary Oldman, Melissa Rauch, Meryl Streep, Jeffrey Wright
IMDb Rating N/A

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