20 Maggio 2017 -

A CIAMBRA (2017)
di Jonas Carpignano

Nell’ormai lontano 1963, Francesco Rosi apriva il suo Le mani sulla città con la didascalia “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Discorso analogo potrebbe perfettamente valere anche per A Ciambra, il secondo lungometraggio del regista italo-americano Jonas Carpignano lungamente applaudito alla Quinzaine des Réalisateurs parallela al Festival di Cannes 2017, nel quale però sono veri anche i personaggi, un’intera famiglia rom residente a Gioia Tauro, e nel quale le vicende messe in scena nella finzione del coming of age del giovanissimo protagonista Pio nient’altro fanno che lambire continuamente i confini del documentario, fondendosi con la realtà e raccontando un sud Italia spartito fra micro e macrocriminalità, centri d’accoglienza, boss, locali, puttane, arresti, famiglie matriarcali e lunghe corse in scooter rigorosamente senza casco.
È un discorso che va avanti ormai dal 2012, quello di Carpignano, prima con i migranti del corto A Chjàna, poi con l’incontro con l’allora bambino Pio Amato e i 16 minuti del primo A Ciambra (2014), e poi con il primo lungometraggio Mediterranea (2015), presentato sempre a Cannes – quella volta fu in Semaine de la Critique – e sempre interpretato da un Pio sempre più grande e da Koudous Seihon, il lavoratore immigrato dal Burkina Faso ormai trasformato in attore. È un discorso profondamente territoriale, che si fonda e vive nella piana di Gioia Tauro dove il regista vive da diversi anni, è un discorso che prosegue con questo nuovo A ciambra e che ancora, probabilmente, andrà avanti nel corso degli anni con i prossimi progetti. È un discorso che abbraccia due diverse realtà di degrado e di disagio sociale – gli “zingari”, per quanto ormai stanziali in una casa, e i profughi africani – costrette a convivere, a confrontarsi, a unirsi per, insieme, cercare la propria autodeterminazione, o per lo meno per sviscerare tutta la propria umanità in un mondo nemmeno troppo velatamente razzista, classista, iniquo, che non capisce e nemmeno ci prova.

Dicono le statistiche che solo il 7% dei rom sia effettivamente dedito a rubare, ma non sono le cifre e nemmeno la retorica ciò che interessa a Carpignano. L’obiettivo finale del regista è quello mostrare l’essenza più intima della terra che ha scelto come casa attraverso il suo materiale umano, con tutte le sue contraddizioni, con tutto il suo disagio, ma anche con tutte le sue regole (non) scritte, secondo le quali se ti sparisce la macchina si va dagli “zingari” e con un piccolo riscatto verrà prontamente restituita senza danni. A differenza del bracciante di colore Ayiva, gli Amato della messinscena non sono “onesti”: rubano la corrente elettrica, rubano automobili, rubano valigie dai treni, rubano nelle case. Eppure, la forza di A ciambra è proprio quella di fare emergere, nonostante tutto, la fulgida vitalità, la tenerezza e l’umanità dei suoi protagonisti.
Fotografato in un 35mm granuloso e splendidamente oscuro fatto di pedinamenti in stile documentaristico che alimentano la credibilità, di dialoghi in un dialetto strettissimo e imbastardito ai limiti dell’incomprensibile – ci dicono – anche per un reggino e di campi lunghi pronti a esplodere nei corridoi e nei tramonti sulla piana, A ciambra è una manciata di giorni (e soprattutto di notti) incentrata su Pio, destinato a confrontare e a volte scontrare il proprio mondo con quelli esterni, costretto a crescere e maturare dalle circostanze e dalle responsabilità.
Pio ha 14 anni, e come tutti i quattordicenni ha una propria visione della realtà. Vive in un mondo “piocentrico”, si sente “grande” senza esserlo e segue, incurante della propria giovane età, le orme del fratello maggiore incenerendo sigarette e svuotando bicchieri, collegando fili e guidando automobili, ma anche scoprendo le prime pulsioni sessuali e la necessità di portare del denaro a casa. La sua è una famiglia numerosa e povera, una famiglia fatta di gerarchie e di doveri, ma anche, in un certo senso, una famiglia di solitudine, dalla quale fuggire nottetempo dalla finestra per andare allo scoperta del mondo e di se stesso. Soprattutto quando, fra ponti elettrici ovviamente illegali e furtarelli assortiti, verranno arrestati sia il padre sia il fratello: “Non vorrai mica comandare tu?”.

Nel pur breve periodo messo in scena nelle due ore di A ciambra succede tanto, di tutto, forse fin troppo. E Pio, inevitabilmente, smette di essere bambino e diventa uomo, fra l’amicizia che lo lega ad Ayiva, le 500 riscattate da restituire, i contatti con la comunità africana mentre il Ghana segna in Coppa d’Africa, gli iPad rubati e rivenduti a prezzi stracciati, i lutti, le spettacolari fughe alla guida dell’auto dei Carabinieri, la prima canna e la prima volta, ma anche un piano che si credeva astuto e che invece fallirà miseramente, con il ritorno in casa del derubato e la consapevolezza di non essere invincibili, di dover imparare a valutare i rischi, ma soprattutto di essere ancora, e sempre, umani. Umani, sì, come l’abbraccio alla madre, come i giochi con i fratelli più piccoli, come la complicità con il fratello più grande, come i cori da stadio per chi porta televisione e fortuna, come i sorrisi che si dipingono sui volti nonostante tutte le difficoltà, come la generosità che fa breccia nell’egoismo adolescenziale, ma anche come un fuoco, come una camera ardente nella quale vegliare il nonno, o come un padre che non può che riaprire la porta di casa al figliol prodigo. Umani, sì, come Ayiva, la sua amicizia disponibile e disinteressata nei confronti del giovane rom, le sue tre mogli in Burkina, i suoi figli da mantenere, il suo sogno di accatastare oggetti, riempirci un container, spedirlo a casa e vendere tutto campandoci a vita.
Forse non è un film perfetto, A ciambra. Non tutte le (tante) fila narrative, che poi sono eventi in sequenza di cui Pio è protagonista o che si abbattono su Pio per formarlo, sono oliate allo stesso modo, e probabilmente qualche minuto in meno avrebbe giovato all’economia di un film estremamente interessante, ma dall’andamento ondivago, a volte riflessivo e a volte sbrigativo, e non privo di qualche piccola forzatura specialmente nella caratterizzazione dei personaggi di contorno, costretti a esprimersi in pochi minuti magari mostrando la loro pericolosità con qualche pippotto steso in macchina. Ma sarebbe folle, più ancora che ingeneroso, impuntarsi sui piccoli limiti del film senza rimanere colpiti dallo stile rigoroso di Carpignano, dalla sua profonda sincerità, dalla capacità di orchestrare un intero cast non professionista, dalla cura nei dialoghi e dalla musicalità della lingua, e non in ultimo dalla profonda credibilità di ciò che è messo in scena. Come una sorta di proiezione gioiataurina della trilogia texana del miglior Roberto Minervini (The passage, Low tide, Stop the Pounding heart) e personalmente benedetto da Martin Scorsese, dispensatore di consigli durante il montaggio al punto di meritare di essere accreditato come primo produttore esecutivo, A ciambra è un qualcosa di raro nel cinema italiano, è pura finzione che si fa documento storico e sociale, è uno sguardo inedito e personalissimo sulla realtà di un paese, Gioia Tauro, dalle anime sempre più multiformi,  a volte ambigue ma sempre profondamente umane. È un film che si spera che faccia scuola, o forse è “solo” il gradito ritorno di un qualcosa d’altro che viene da lontano, quando i personaggi e i fatti narrati erano immaginari, ma la realtà ambientale e sociale che li produceva era – ed è ancora oggi – assolutamente autentica.

Marco Romagna

“A Ciambra” (2017)
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Regista Jonas Carpignano
Sceneggiatori Jonas Carpignano
Attori principali Pio Amato, Koudous Seihon, Damiano Amato, Francesco Pio Amato
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