10 Luglio 2017 -

TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 9) (2017)
di David Lynch

Due settimane dopo che Lynch ha sconquassato le aspettative di tutti inserendo una specie di assurda “storia d’origine” nucleare nell’ottava puntata della terza stagione di Twin Peaks, la trama continua più linearmente. Poche sorprese, forse anche poco di cui parlare. Alla fine la sfida che Lynch pone allo spettatore è anche quella della pazienza, e a volte sono necessari stacchi in cui la cosa più importante è la narrazione oppure il semplice bisogno di stabilire un umore o un filo conduttore. Per ora, possiamo notare che Twin Peaks: The Return può essere suddivisibile in gruppi di puntate a due a due: le prime due come analisi anti-nostalgica del passaggio del tempo, del Caos e dello sguardo sul surrealismo attraverso la creazione di un nuovo stile comprensivo di tutto ciò che Lynch ha rappresentato dai suoi esordi agli ultimi videoclip; le parti 3 e 4 hanno più manifestato una specie di funzione di approfondimento dei semi lasciati dall’inizio della stagione, con parentesi più passivo-retorica ambientata a Twin Peaks, un prologo completamente delirante in uno strano oceano viola e una conclusione intensissima; le parti 5 e 6 hanno invece messo più in mostra le capacità di Frost e Lynch come narratori della scomposizione, autori di immagini-racconto che possono essere connesse e sconnesse a proprio piacimento all’interno di un puzzle suggestivo in continua evoluzione; la settima e l’ottava puntata hanno più che altro cercato di continuare la narrazione ma in due direzioni diverse, con la settima che è andata molto in avanti con il proseguire della trama e l’ottava che invece è andata indietro, con un epillio che cita in egual misura Kubrick, Virgilio e i Platters capace di creare un misticismo assoluto e imprescindibile che, per molti, poteva essere forse insospettabile, nonostante gli sprazzi di spiritualismo di Fuoco cammina con me (1992). In realtà, questa nona puntata è molto simile alla settima: manda avanti la narrazione, connette i pezzi del puzzle, fornisce indizi. In ciò, potrebbe essere forse l’episodio meno interessante sinora, e anche un episodio che può interrompere la cadenza “a due a due” con cui Lynch e Frost ci hanno abituati fino a questo momento.

L’episodio si apre rispondendo ai dubbi di molti spettatori di fronte all’inizio dell’episodio precedente, dimostrando che il doppelgänger di Cooper non ha perso la propria “essenza” e che i tirapiedi-woodsmen non hanno estratto dal suo corpo l’orbo di BOB ma l’hanno semplicemente mostrato a Ray, per ragioni ancora sconosciute e forse connesse al personaggio di Philip Jeffries o all’esoterismo di Aleister Crowley che sembra permeare la figura di Mother/Experiment (nuova metamorfosi di Babalon, la versione satanica della meretrice di Babilonia?). Part 9 sembra costruire la propria narrazione con una continua costituzione di gruppi di individui in tripartizioni: bad Cooper con Jennifer Jason Leigh e Tim Roth; i tre poliziotti che indagano su Dougie e arrestano Ike; Hawk, Bobby e lo sceriffo Truman; e infine, il gruppo “a quattro” composto da Tammy, Diane, Albert e Gordon, che spesso si divide in diverse combinazioni “a tre” a dipendere da quanto può essere conveniente, che sia per motivi di narrazione, di interazione tra personaggi, di approfondimento psicologico o umoristico. È un tema che ricorre, e che nella sua colonna sonora porta brani che non si sentivano dai tempi di Fuoco cammina con me. Lynch, poi, si diverte col pubblico, come fa Bobby coi suoi colleghi poliziotti, mettendo in primo piano cose che sono di indubbia insignificanza dando l’illusione che possano essere cose importanti, ma, sempre come Bobby, ne rivela subito la vera natura, lasciando poco spazio al sospetto della presa in giro dello spettatore: per la precisione, la “tagline” dell’episodio, ovvero una citazione all’interno di esso stesso rivelata prima dell’uscita come un qualcosa di metà tra un teaser trailer e un titolo, è «This is the chair», frase detta dalla madre di Bobby in uno dei momenti più importanti dell’episodio e forse della stagione fino a ora. Poche scene prima, tuttavia, una sequenza forse leggermente troppo lunga vede Andy e Lucy avere un superficiale e tenero litigio su quale sedia comprare per il loro salotto, una sedia beige o una rossa. In un continuo scambio pseudo-comico di auto-eliminazione nell’architettura circostante, l’apice del delirio si raggiunge con una scena apparentemente priva di importanza ma che sembra essere comunque un prosieguo di una sottotrama umoristica che potrebbe nascondere più di quello che sembra; trattasi di Jerry Horne, il fratello eccentrico di Ben, diventato ufficialmente nella serie corrente un dipendente da marijuana, perso nella foresta con nessuno alla sua ricerca. Il senso di non-appartenenza del suo piede, mostrificato da una vocina in falsetto che ricorda quella che Lynch stesso faceva nel cortometraggio/spot Signature Cup Coffee (2011), mette in discussione la concezione dell’onirico lynchano, distanziandone i ritmi e la visione dalla sfera semantica di ciò che invece è considerabile lisergico. Ed è anche uno studio umorale, come molte altre scelte in questa serie, in cui l’aspetto comico dell’allucinazione e del personaggio di Jerry viene mischiato con un vero e proprio incubo che finisce violentemente, con un immediato e inaspettato stacco su nero.

Ci sono forse solo due sequenze su cui è giusto soffermarsi un po’ di più, senza dimenticare comunque gli svariati momenti in cui il montaggio ricongiunge i punti salienti nella narrazione e la grande intensità e costruzione del dialogo e della luce soprattutto nelle sequenze ambientate a Twin Peaks: la scena di Cooper, ancora in stato confusionale e catatonico nei dintorni di Las Vegas, che vede la bandiera degli Stati Uniti; e l’interrogatorio di William Hastings. La prima è l’ennesima ri-messa in discussione dei preconcetti del campo-controcampo da parte di Lynch, ma è anche un’analisi del sonoro e un recupero in pompa magna di una certa nostalgia insita nell’autore a causa o per colpa del cinema di un tempo, il cinema ad esempio di Ford e Hughes, che continua a riverberare sulle influenze estetiche della sua intera filmografia. La bandiera rimane immobile, l’inno statunitense si sente in sottofondo, passano due scarpe coi tacchi rosse e lo sguardo di Cooper, silenzioso, intenso, si blocca su una presa elettrica: riconnettendolo alla sua origine, cioè al suo lavoro nell’FBI e al suo patriottismo implicito, ma soprattutto all’elettricità, al motore della forza spirituale che lo ha sconnesso, diviso, reso assurdo. È uno sguardo perso e uno sguardo in cui ci si perde, attraverso il quale si può percepire una grandezza immaginifica di purezza e di ricerca di origine. L’interrogatorio di Hastings, tuttavia, è una scena di un’importanza ben maggiore. Si può partire dal fatto che l’approfondimento del personaggio parte da una sua caratteristica nominata in quest’episodio per la prima volta, ovvero il suo aver curato dal 1997 al 2015 un blog sul paranormale non dissimile dai forum creati dai fan di Twin Peaks nel corso di 25 anni sui tentativi di interpretazione della serie, e che questo blog è stato creato apposta or ora nella nostra realtà (lo si può raggiungere qui, in tutta la sua ingenuità in Comic Sans MS) per creare nuovi suggerimenti per questa stagione e per approfondire una mitologia, appunto, in continua evoluzione. Ma il blog è chiave anche nel comprendere il conflitto tra la logica vecchia degli anni ’90 della serie e questa nuova logica digitale, sempre anacronistica o ucronica nel trattarne i mondi interiori; ed è anche chiave per un’importante distacco di Lynch nei confronti dell’onirico, attraverso l’epico, tragico, lacrimevole e magico racconto dell’esperienza di Hastings con una visione del maggiore Briggs (“we’ve met the major” tradotto nei sottotitoli italiani di Sky Atlantic come “abbiamo incontrato il sindaco”; ci vuole tanto a capire che “major” e “mayor” sono due parole diverse, soprattutto considerando che “maggiore” è il rango dell’esercito a cui appartiene storicamente Garland Briggs sin dalle prime stagioni a inizio anni ’90?). Insomma, è il racconto a far vivere il sogno e non la manifestazione di esso in immagini, in un definitivo stacco dal surrealismo in un’ottica più vicina a un semi-tradizionale sguardo sul dialogo, sul volto, sull’attore, in maniera teatrale e drammaturgica. Gli eventi di sottofondo continuano a svolgersi ma vengono narrati quasi superficialmente, in maniera talmente veloce da evocare reazione immediata da parte del sempre sarcastico Albert – «Cosa succede nella seconda stagione?» chiede, per rompere le scatole, rimandando forse all’inizio della seconda stagione effettiva della serie, in cui Lucy dice a Cooper una serie di informazioni di cose accadute proprio nelle ultimissime ore. Hastings piange, urla, ricorda tempi di un qualcosa che non potrà più vivere a causa del crimine che non ha commesso di cui è stato incolpato, è in una crisi psicologica ed esistenziale unica, e la cosa che più lo sconvolge è proprio il ricordo di questo sogno che si fa reale, più o meno come le favole folkloristiche di Oidhche Sheanchais (1935) di Flaherty.

È il sogno che si manifesta in una Zona: la “Twilight Zone” di Ai confini della realtà, e dunque un ritorno alle origini del paranormale nell’immaginario mediatico ovvero nel mondo di Mark Frost? Oppure la Zona di Stalker (1979) di Tarkovskij, più vicina al filoeuropeismo di Lynch? Insomma, un luogo reale o coscienziale, un luogo fantascientifico o filosofico, letterario o cinematografico? Quanti di questi tasselli di narrazione continueranno a comporsi e quanti si scomporranno? E soprattutto, come possiamo liberarci di questa violenza, di questa ineffabile sensazione di incompletezza, di questa incapacità di comprensione attraverso i meandri del logico e del simbolico? Johnny Horne riappare e corre contro un muro, presumibilmente morendo; la musica elettronica arriva al Roadhouse; Ben si rivela uomo morale nell’evitare le avance di una segretaria, in un abbraccio dalla composizione visiva potentissima, noir; e c’è Sky Ferreira, cantante pop appassionata da sempre di Lynch e di Twin Peaks, che appare brevemente nel ruolo di Ella al Roadhouse, tossicodipendente, ossessionata da un orribile sfogo sotto l’ascella, in un dialogo con un’amica, nominando zebre e pinguini, insomma, animali in bianco e nero. È quello sfogo, quella necessità di toglierci qualcosa con violenza, che allontana la nostra pazienza, e vorremmo solo grattarci via la carne fino a giungere a una risposta, o a un altro grande climax. Dopo il buio assoluto dell’ottava puntata, già capolavoro rivoluzionario della TV e del cinema, il nono, illuminato episodio può essere deludente, ma è uno stacco necessario, che già col finale “sanguigno” sembra presagire orrori grotteschi la cui portata è, in ogni caso, imprevedibile. E ci si perde con le Au Revoir Simone, già apparse nel quarto episodio, che cantano, dolci, mentre scorrono i titoli di coda, e la verità su Dougie presto giungerà in mano a qualcuno che lo possa riconoscere. Bisogna ritrovare il riconoscimento, ritrovare lo sguardo, e sanguinare sempre di più, in una ricerca di una forza vitale, spirituale – «vida es sangre, sangre es vida».

Nicola Settis

“Part 9” (2017)
60 min | Crime, Drama, Mystery | N/A
Regista David Lynch
Sceneggiatori Mark Frost, David Lynch, David Lynch (creator), Mark Frost (creator)
Attori principali Kyle MacLachlan, Jane Adams, Dana Ashbrook, Chrysta Bell
IMDb Rating 8.6

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