31 Dicembre 2014 -

THE HOMESMAN (2014)
di Tommy Lee Jones

Confesso.
Quando ho intrapreso la visione di The Homesman, il nuovo film di Tommy Lee Jones presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes (a mani vuote, questa volta, dopo il doppio premio nel 2005 con The Three Burials, su cui si è detto abbastanza, ma mai abbastanza), quando ho intrapreso la visione di The Homesman, dicevo, sentivo di possedere in partenza gli elementi per amarlo: amo la faccia di pietra – rughe tendenti al canyon – dell’attore-autore, indicatissimo pendant di terre riarse percorse dal vento (e se questa stessa faccia è assurta a simbolo di qualcosa di antico, di primordiale, è i Coen che bisogna ringraziare); amo la sua voce roca, impastata, così spoglia di qualsivoglia artificio – ancorché nobile come il prontuario dell’Actors’ Studio – cui pure fanno ricorso suoi esimi colleghi; e del Jones regista amo l’asciuttezza formale, a tutti i livelli, non solo recitativa – che concerne lui e lui solo – ma anche visiva e narrativa (oltretutto, come vedremo, frutto di scelte precisissime ed eclettiche, vòlte a un fine solo, che è il racconto: dimensione cui pure Jones vuole presiedere, figurando tra gli sceneggiatori).
Si è subito immessi nel solco della tradizione con i titoli in apertura, le ventose lande del Nebraska (location in Messico e New Mexico) intessute nell’argento di Rodrigo Prieto (direttore della fotografia messicano delle cui parole ci serviremo spudoratamente in seguito) e il cantabile tema di Marco Beltrami, leitmotiv memorabile.
La sinossi è nota: la risoluta, nubile, timorata di Dio Mary Bee Cuddy (Hilary Swank) deve scortare dal Nebraska all’Iowa – perché un pastore metodista se ne prenda cura – tre donne che hanno perso la ragione e pertanto sono state ripudiate dai mariti (che neppure danno l’impressione di stare benissimo, ma è un discorso che non approfondiremo). La affianca un balordo che dice senza troppa convinzione di chiamarsi George Briggs (Jones), che lei salva da impiccagione equina (!!!) e che per soldi accetta di prendere parte alla spedizione.
Il film assume un’impronta paradossale fin dalla prima scena, l’intimo interno notte con Mary Bee e Bob Geffen, giovane proprietario terriero: è lei che prova a convincere lui della convenienza di un matrimonio, di quanto lei sia adatta a metter su famiglia e a occuparsi della terra e delle bestie, dispiegando, a corredo, pregevoli virtù musicali.
Lui per tutta risposta fugge via. È una storia al contrario.
Abbiamo già gli elementi per spendere qualche parola sul lavoro fotografico alla base del film. Prieto conserva la ratio del Cinemascope nella sua codificazione moderna, che è leggermente più ampia (2.40:1 contro i 2:35.1) rispetto al passato. Il supporto primario è la pellicola, e questa – racconta il direttore della fotografia all’American Cinematographer – è stata una precisa richiesta di Tommy Lee Jones, che con la grana e i colori della celluloide intende stabilire un legame, un terreno di condivisione, tra se stesso, il pubblico e la più antica delle tradizioni cinematografiche statunitensi.
(A margine va detto che Prieto aveva proposto, coraggiosamente, di girare il film in bianco e nero. Jones non lo ha ritenuto opportuno: serviva il colore a tutti i costi, nonostante la luce abbacinante del sole e l’oscurità pesta della notte sbiadiscano e amalgamino i toni in limitate gamme cromatiche).
Eppure, in ausilio al 35mm, Prieto si è servito anche del digitale per le scene notturne, soprattutto in interni.
Questo ci conduce a una considerazione necessaria che riguarda la scenografia, opera di Merideth Boswell. Tutti gli edifici presenti nel film sono costruiti per intero e per intero praticabili, la qual cosa ha messo duramente alla prova il reparto fotografia: in assenza di pareti semoventi, si è dovuto razionalizzare gli spazi ed essere parchi di materiale aggiuntivo: in questo, il sensibilissimo digitale ha permesso a Prieto di illuminare alcuni interni solo con la fiamma di un lume.
La perizia della creazione scenografica si rileva anche nelle dimore delle tre famiglie che beneficiano del servigio di Mary Bee Cuddy: vivono in casupole al limite del primitivo, in bilico su muri di mattoni appiccicati col fango, se non addirittura addossate a pareti naturali, isolate nelle pianure desertiche, sono luoghi che predispongono alla perdita della ragione, alla disumanizzazione, che prefigurano scenari non civilizzati e regressivi. La comunione con la Natura eleva lo spirito, ma la comunione con quella Natura conduce alla pazzia.
Tommy Lee Jones prima di girare aveva ben chiaro il tono visivo del film: è alla ricerca di una messinscena pulita ed essenziale, scarna in tutto, scevra da chincaglierie ottiche. Banditi fuori fuoco e rifrazioni, ha addirittura chiesto a Prieto di evitare il più possibile montagne o depressioni che in qualche modo spezzassero l’orizzontalità asciutta del quadro: i campi lunghi avrebbero dovuto essere solo questione di scelta delle porzioni del fotogramma da dedicare al cielo o alla terra. Non ci sono neanche le strade, non ci sono sentieri da seguire: la via bisogna immaginarla cammin facendo.
Quanto alle fonti iconografiche, c’è un po’ di tutto. L’irruzione di Tommy Lee Jones nella vicenda lo vede in calzamaglia bianca con il volto annerito dalla fuliggine di un’esplosione, in una specie di grottesca riproposizione degli interpreti del teatro Kabuki giapponese. Di tutt’altra provenienza è il riferimento figurativo per le riprese in esterni: il carro con cui Cuddy e Briggs trasportano le donne è imparentato con le “scatole” concettuali di Donald Judd, piazzate nel bel mezzo del deserto texano.
z
Per concludere, merita un approfondimento la recitazione.
Tommy Lee Jones e Hilary Swank impostano le performance su registri stilizzati e caricaturali: lei, solenne, invece che parlare sembra stia predicando, il volto di ghiaccio sempre contratto in una espressione dura e mascolina, dietro la quale si riesce a scorgere anche la malcelata frustrazione del nubilato; lui, sboccato cafone volgare, strascica l’incomprensibile slang del Sud: nell’importante scena dell’accampamento notturno sotto la roccia, Jones conferisce al proprio personaggio una dimensione liminare tra la rettitudine di Cuddy e il raptus folle delle tre donne, cimentandosi in una danza macabra che poi riproporrà nell’amaro, delirante finale (“citazione letterale”, dice Prieto, “del dipinto di George Caleb Bingham The Jolly Flatboatman, anche se la nostra scena, al contrario ambientata di notte, è come se fosse il negativo fotografico”), con tanto di pistolettata alla macchina da presa, per un ideale congiungimento con le origini di un’epica.

zz

Elio Di Pace

zzzzzz

zzz

zzzz

“The Homesman” (2014)
122 min | Drama, Western | USA / France
Regista Tommy Lee Jones
Sceneggiatori Tommy Lee Jones (screenplay), Kieran Fitzgerald (screenplay), Wesley A. Oliver (screenplay), Glendon Swarthout (novel)
Attori principali Tommy Lee Jones, Hilary Swank, Grace Gummer, Miranda Otto
IMDb Rating 6.6

Articoli correlati

BLACK TEA (2024), di Abderrahmane Sissako di Marco Romagna
KOMMUNISTEN (2014), di Jean Marie Straub di Maurizio Marras
RABO DE PEIXE (The Directors' cut) (2015), di Joaquim Pinto e Nuno Leonel di Marco Romagna
NELLA CITTA' L'INFERNO (Director's cut) (1958), di Renato Castellani di Marco Romagna
SHARING (2014), di Makoto Shinozaki di Marco Romagna
AD ASTRA (2019), di James Gray di Marco Romagna