26 Maggio 2022 -

STARS AT NOON (2022)
di Claire Denis

È sul filo teso del confine tra Nicaragua e Costa Rica che Claire Denis ambienta un film che, girato a Panama, striscia fino al concorso principale di Cannes e si avvinghia al pubblico come un serpente misterioso la cui stretta respinge e toglie il fiato (ed è forse questo il reale motivo del massacro critico che sta subendo qui in Croisette), ma allo stesso tempo sa ridare ossigeno.  Così è l’imperscrutabile thriller/love story di Stars At Noon, di una regista che va verso gli ottanta e che in questo 2022 si è già portata a casa l’Orso d’Argento per la Miglior Regia con Avec Amour et Acharnement, storia di un amore maturo e un po’ confuso/amente raccontata con la sincerità che solo la recitazione di Juliette Binoche poteva coadiuvare. Questa volta la protagonista è invece Margaret Qualley, che sta dimostrando un talento non minore a quello della celebre madre Andie McDowell e che anzi nel suo vestire i panni di una supposta giornalista americana rimasta bloccata in Nicaragua senza passaporto né dollari dopo aver firmato un articolo piuttosto scomodo per il governo, tiene di fatto le redini del film. In un ruolo tradizionalmente affidato al maschile, la giovane donna cerca di stare a galla come meglio può – tra un Vice Ministro «that can’t get hard» e un Subtienente «that can get hard» – nella cappa di calore centramericana in cui il vero oro sono i condizionatori e i dollari un miraggio lontano, un obiettivo e un mezzo. Tra pozzanghere, asfalto scottante e sandali infangati, il suo cammino si incrocerà a quello di un enigmatico e affascinante businessman inglese che lavora per una compagnia petrolifera: un «misero lacché», come lo definisce lei stessa quando già si può intuire come rimarranno invischiati insieme in una morsa in cui attrazione e pericolo si confondono. La storia infatti diventa un vortice di dubbi, pedinamenti, minacce, omissioni al centro del quale sta questa coppia di sconosciuti sempre più visceralmente uniti da dopo i cinquanta euro con cui la prima notte lei finge di prostituirsi (a confermare le suggestioni da Amante di Marguerite Duras che per qualche motivo il film ricorda). Lo sfondo sono i disordini e le turbolenze politiche di due paesi in tensione che fanno da specchio alla diffidenza dei protagonisti che non coinvolge solo loro, in questo strano tango della seduzione fatto di non detti e di silenzi sul proprio passato, sul presente, sul non chiedere e non voler sapere. Anche il pubblico infatti non ha punti di riferimento chiari per cui si ritrova avvolto dalle incertezze, a partire dalle sigle che confondono tutto PS, CIA, OIJ: ci sono antagonisti ma non nemici, non schieramenti perché impossibili, non si hanno gli elementi per giudicare, dal Partido Socialista alla Central Intelligence Agency al Organismo de Investigación Judicial. Tutto è un mare – o meglio un fiume – di sospetti che lentamente straripa e avvolge anche quegli altri personaggi come il poliziotto portoricano alle calcagna di Daniel o l’agente segreto che avvicina Trish, centrali nella vicenda ma comunque tenuti in disparte dalla camera che non li indaga e non fornisce elementi per inquadrarli, perché non è nell’interesse di Denis.
Per quanto l’opera sia tenuta in vita da dialoghi brucianti e perennemente iconici tali che ogni scena basterebbe a fare il film, è l’atmosfera ad essere l’unico vero fulcro di Stars at Noon, e in qualche modo il vero motore dell’azione. Che altro non è che un essere intrappolati e cercare di fuggire: dall’hotel, dal motel, dalla porta del retro e dalle proprie verità custodite preziosamente, e concretamente infine verso il confine costaricano nella speranza di un ritorno nell’America che non è mai stata patria per lui e non lo sembra più neanche per lei. Il mondo intorno ai due (e dentro) è una lacerante attesa, l’impasto di una cafard che come l’umidità della foresta tropicale rimane appiccicata addosso per essere alleviata e acuita insieme dai colpi lenti del ventilatore e dal sesso, che è forte, tattile, animalesco, asfissiante e partecipe. Così come lo è la regia si può dire qui jazz della cineasta francese, che quasi sembra improvvisare sulle note di una colonna sonora stregante (di nuovo firmata Tindersticks) che non è solo accompagnamento musicale ma è vero e proprio scheletro emotivo del film, così come lo era la composizione di Carlos D’Alessio per India Song (1971), un ben più sensoriale, ipnotico e confuso racconto di donna in terra straniera, sempre firmato Marguerite Duras. È d’altronde l’infanzia nelle colonie francesi ad accomunare le due autrici e ad informare la loro opera – quella della scrittrice scomparsa nel ‘96 l’Indocina e quella della regista il Camerun – a partire dal rispettivo romanzo Una diga sul pacifico (1950 ) e dal film Chocolat (1988).

Costruendo un film che per toni rassomiglia non solo a Duras ma, e questo è da prendere con le pinze, ad una sorta di Apocalypse Now all’inverso in cui la protagonista già dall’inizio ha raggiunto il nucleo più buio e ora vuole andarsene («Cosa ti ha portato qui?» «Volevo sapere le dimensioni esatte dell’inferno»), Claire Denis non è qui all’altezza dei due paragoni ma conferma un’atmosfera per certi versi simile, e garantisce quel connubio tra forma e contenuto in cui la forma è contenuto, non perché sia un film formalista o studiatamente estetico ma perché resta fedele alla natura del mezzo audiovisivo e dunque racconta più per immagini e suoni che per la pur densa trama. Il film è sicuramente meno lirico rispetto al modernismo della sceneggiatrice di Hiroshima Mon Amour che infatti bene si era sposata con la Nouvelle Vague, ed è più “coi piedi per terra”. Denis diluisce i momenti quasi da prosa poetica nei dialoghi dei due (o le famose “frasi a effetto”) quando la alterna alla spontaneità del parlare quotidiano (e viceversa innalza le frasi quotidiane ad un timbro di bellezza), riuscendo a creare un vero link emotivo con il pubblico. Per quanto fascinosi al punto da sembrare alieni – la vibe graffiante di un felino ubriaco lei, la voce profonda e che sembra scaturire dalla notte dell’universo lui mentre vengono avvolti dal fumo di sigarette che li cristallizza come un dipinto in movimento – i protagonisti sono in realtà molto vicini alla “normalità”. Non solo nel loro rapporto quasi da ragazzini, ma nella quotidiana naturalezza con cui comunicano, in quello che si dicono. Quante volte si ripete dello shampoo, dei capelli sporchi, del dolore per il ciclo, della stanchezza, del volersi fare una doccia, per non dimenticare i bisogni umani che talvolta il cinema lascia da parte, preso dal mostrare le lotte più grandi dei suoi personaggi senza ricordare che questi sono comunque anche animali con le ovvietà dei loro bisogni, come tutti. Ed allora forse la sua vera poetica è una sintesi estetico-narrativa tra il racconto delle tensioni interculturali, la contemporaneità, e l’indagine della condizione umana, anche attraverso le piccole verità del suo quotidiano. Per questo è oltretutto meno liricamente politico del capolavoro di Coppola citato, che rimane nell’Olimpo e che messo a confronto con qualsiasi opera è destinato a ledere il secondo termine di paragone, tanto più di una che forse non sarà neanche tra le più riuscite del festival, ma forse è utile per comprendere il trattamento l’utilizzo dell’aspetto storico-politico.
Se già in Apocalypse Now questo era un trigger per un’indagine più universalmente umana, è del tutto secondario in Stars At Noon, basato sull’omonimo romanzo di Denis Johnson ambientato durante la Rivoluzione sandinista (1979-1990) che nel 2022 della sua resa cinematografica in pieno covid rimane una ferita ancora pulsante e la tensione mai sopita di una deriva autoritaria riemersa. Quello della politica centramericana è più uno sfondo, che bisogna riconoscere raffazzonato e un po’ alla buona perché l’opera sembra priva di un chiaro contesto, il che talvolta rischia di impattare sulla solidità strutturale del film ma è forse motivato dal fatto che i disordini del paese sono più che altro il pretesto per la costruzione di un percorso kafkiano che sicuramente potrebbe ergersi a metafora di questo periodo drammaticamente instabile, e più in generale del passaggio di ognuno in questa vita spaesata in cui non resta che aggrapparsi disperatamente a chi è senza Paese come noi. Altro non si può fare d’altronde, ed è meglio viaggiare con qualcuno quando ci si addentra nella nuvola irrespirabile delle incertezze. Ecco perché non esistono più gli Stati Uniti, i dollari, la cordoba, la coca cola negata, Panama, le elezioni, gli “yankee”, Costa Rica, Nicaragua e il fiume, ma solo musica, inquietudine, il calore appiccicoso della foresta pluviale e gli abbracci disperati di due amanti destinati a separarsi e a confondersi, inghiottiti dal paesaggio così come il cielo vicino all’equatore inghiotte le stelle del mezzogiorno. Così la giovane le osserva attraverso il finestrino sporco di un auto rubata: fioche ma reali. Questo ultimo lavoro di Claire Denis non è certamente il suo più sorprendente ma conferma la statura della cineasta francese e il suo sguardo autoriale che non abbraccia apertamente i generi ma li prende di traverso, come in questo thriller psicologico mangiato dalla sospensione erotica di una revêrie tropicale, che come stanno dicendo più o meno tutti farà anche un po’ acqua da tutte le parti, ma per lo meno disseta.

Bianca Montanaro

“Stars at Noon” (2022)
135 min | Drama, Romance, Thriller | France
Regista Claire Denis
Sceneggiatori Claire Denis, Denis Johnson, Andrew Litvack
Attori principali Joe Alwyn, Margaret Qualley, John C. Reilly
IMDb Rating N/A

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