1 Luglio 2017 -

SECONDO AMORE (1955)
di Douglas Sirk

Nato Hans Detlef Sierck, Douglas Sirk scappa dalla Germania a causa dell’ascesa di Hitler e rivoluziona la Hollywood anni ’50 prima di abbandonare il mondo durante un esilio in Svizzera. È il re del melodramma e della messinscena di esso, e con film come Magnifica Ossessione (1954) e Come le foglie al vento (1956) ha scritto una Storia d’immagini e di movimenti di macchina che supera la storia, la trama, il dialogo, proponendosi come fitta analisi della potenza più sottocutanea e sottintesa dei personaggi delle faccende umane. Tra i suoi film, tuttavia, se ce n’è uno che trascende esplicitamente il lavoro che Sirk fa nel destrutturare le sceneggiature che si trova davanti, questo film è Secondo Amore (1955), titolo originale il molto più poetico All that Heaven allows. Mentre Come le foglie al vento parla di nostalgia d’infanzia e tragedia sessuale attraverso simbolismi velati e subliminali e virtuosismi di regia, montaggio e fotografia (che sovrascrivono per espressività una storia le cui caratterizzazioni psicologiche sono completamente campate in aria), Secondo Amore davvero riesce, sia con la sceneggiatura sia con la regia, a mettere alla berlina certe convenzioni della società statunitense degli anni ’50. La trama ormai archetipale del film, che vede protagonista la ricca vedova Cary interpretata da Jane Wyman in una storia d’amore con il giovane giardiniere Ron Kirby (Rock Hudson) che le amiche e i figli di lei non accettano, è stata rimessa in scena in variazioni su tema soprattutto da Fassbinder con La paura mangia l’anima (1973) ma anche da Haynes in Lontano dal Paradiso (2002), sorta di osmosi moderna dei due film precedenti, come completando una trilogia tematica. La grandezza di Secondo amore sta nella sua capacità di mischiare la natura umana, rappresentata dalla natura stessa, dagli animali e dagli alberi, con gli impedimenti che si scontrano con essa: una società borghese bestiale e spietata, con figli traditori e amiche pettegole, pronte a uccidere l’apparenza.

Sì, l’apparenza. Quando Cary dice ai propri figli che la sua storia con Ron non è mossa da materialismo e pulsioni sessuali ma da vero amore (e l’amore dei film di Sirk è tra i più puri e semplici del cinema, nonostante ci sia una forte sessualità espressa dai dettagli del mondo esterno), il figlio maschio subito dice «well, that’s the way it looks»: l’apparenza, in questo mondo da odiare per la propria ipocrisia passivo-aggressiva, batte l’essenza, la regia batte la storia. O meglio, ci entra, utilizza punti di vista non convenzionali per riempirla di luci calde e fredde, barcollando dall’una all’altra seguendo l’impatto emotivo e il suo mutamento: un’emozione creata attraverso risvolti narrativi crudeli ed eccessivi, ma resi con dialoghi asciuttissimi che semplificano il genere melodrammatico attraverso una brillante e riassuntiva semplicità. Se i personaggi principali sono caratterizzati principalmente dal loro amore che sconfigge ogni barriera, le figure di contorno incarnano dei ben costruiti pseudo-stereotipi che colpiscono per come fungono nella trama, in maniera imprevedibile, ad esempio con il figlio che dall’odio passa alla superficialità o con la figlia che incarna le eccessive letture psicanalitiche nell’Hollywood dell’epoca, e che dunque fluttua in continuazione tra il personaggio positivo e quello negativo, come dicendo che questo tipo di interpretazioni possono essere importanti nella comprensione di un’opera ma possono privarla forse del suo fascino immediato. Alla fine a Sirk interessa tantissimo proprio la soluzione della trama attraverso l’immagine, la luce abbagliante di una finestra o il mondo che si può riscontrare attraverso lo specchio, ma non dimentica le finezze proto-sessuali, con gli animali che sostituiscono la passione e l’amplesso (caso più esplicito: Rock Hudson che dice «hai avuto paura dell’uccello?») – anche se probabilmente ciò è più esplicito in Come le foglie al vento. Quando poi Cary viene lasciata da sola a causa della propria decisione di cui già si pente, il figlio per Natale le regala un televisore, e mentre il venditore dice che esso la lascerà meno sola dopo che i figli la abbandoneranno, la macchina da presa passa dalla sua nuca al suo volto rispecchiato nello schermo: è l’immagine, l’apparenza, sempre quello che conta, e qui l’unica compagnia che il televisore può riflettere nello sguardo di Cary sembra dover essere Cary stessa, con la disperazione e la tristezza con cui non vuole convivere.

La grandezza di Secondo amore è molteplice. La paura mangia l’anima ne esplicita alcuni aspetti: Fassbinder con quest’opera, tra le sue più mature e potenti, mostra come lo schema messo in scena da Sirk sia applicabile a qualsiasi contesto sociale, dimostrando in più maniere la caratterizzazione della società e dei membri dell’umanità – per la precisione, il regista tedesco utilizza il razzismo nei confronti degli afroamericani nella Germania dopo la seconda guerra mondiale. In ogni mondo sociale e in ogni conflitto, Secondo Amore è un grido di libertà verso la violenza psicologica dell’altro, ma senza un pessimismo tragico: l’amore vince sempre, e con esso la luce, e la natura. Il cervo che guarda gli amanti è la natura che si restituisce nell’atto umano, che si rispecchia in esso per dimostrare la sua purezza. Il nichilismo è annientato in un manifesto d’amore purissimo, che sconfigge qualsiasi barriera; come la nostalgia, di un mondo che non c’è più e che non sarà mai pienamente replicabile nel cinema moderno, come la copia d’epoca in 35mm (poco) rovinata e luminosissima proiettata al Cinema Ritrovato 2017. Ma bando alla malinconia, bisogna vivere, tirare avanti in uno pseudo-individualismo che include l’altro, include la natura, include un mondo d’immagini sempiterno.

Nicola Settis

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“All That Heaven Allows” (1955)
89 min | Drama, Romance | USA
Regista Douglas Sirk
Sceneggiatori Peg Fenwick (screenplay), Edna L. Lee (story), Harry Lee (story)
Attori principali Jane Wyman, Rock Hudson, Agnes Moorehead, Conrad Nagel
IMDb Rating 7.7

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