3 Novembre 2020 -

RELIC (2020)
di Natalie Erika James

La mente, il corpo, la casa, come le tre forme strettamente correlate di uno stesso personale decadimento. È una metafora dolorosa e cristallina, quella che l’australiana Natalie Erika James mette in scena nella sottile e profondissima inquietudine del suo sorprendente esordio Relic. Una trasposizione orrorifica non tanto del terrore della morte e probabilmente nemmeno del morbo di Alzheimer, quanto delle loro più traumatiche conseguenze, con il progressivo incresparsi e sgretolarsi dei rapporti affettivi portati via dalla demenza senile insieme alla memoria e all’identità. Nella casa infestata, sempre più minacciosa e irriconoscibile fra i rumori metallici e le muffe, proprio come nella pelle sempre più morente di un’irreversibile putrefazione, ci sono tanto le afasie, i disorientamenti e i cambi di umore di chi sente la propria memoria andare e venire, quanto la paura e la disperazione di chi assiste impotente al lento deteriorarsi di un proprio caro, e che proprio nel momento del bisogno e della maggiore vicinanza si sente allontanato, rifiutato, violentemente respinto. Un orrore umanissimo e declinato tutto al femminile, con tre generazioni allo specchio costrette a confrontarsi con l’incubo dell’oblio nei corridoi cangianti e sempre più stretti di una novella Casa Usher labirintica e asfissiante, fatta di presenze e di buchi neri, di scale e di cigolii, di oscurità e di inspiegabili ombre che appaiono e scompaiono furtive sotto la porta. Al cedere del conscio e del subconscio equivalgono l’avanzare inesorabile delle macchie putrescenti sul corpo dell’anziana e sui muri della casa, il progressivo perdersi della spazialità nei passaggi segreti e negli infiniti corridoi di un loop terrorizzante, come un tunnel sempre più stretto dal quale è impossibile uscire. È così che si può regalare un anello con tutto l’amore del mondo e poi all’improvviso adirarsi accusando la nipote di averlo rubato, è così che ci si può ritrovare con la casa piena di post-it senza i quali è impossibile ricordarsi persino chi si è e chi sono gli affetti, o a mangiare rabbiosamente un album di foto per tentare di trattenere in qualsiasi modo quei ricordi ormai offuscati. È così che ci si ritrova a scomparire per giorni e poi a tornare all’improvviso senza nemmeno rendersi conto di essere mancate, è così che l’abbandonarsi all’affetto di una figlia vira in diffidenza, ed è così che ci si ritrova nella vasca da bagno a tentare di strapparsi via quella pelle marcia e quella carne ormai nera e putrescente.

Parte dalla scomparsa della matriarca Edna, Relic, e dalla necessità della figlia Kay e della nipote Sam di recarsi nella vecchia casa di famiglia nella speranza di ritrovarla. Una casa che è sin da subito viaggio nell’inquietudine e specchio della sua proprietaria con gli oggetti rovinati dal tempo e con i rumori sinistri che la pervadono, con le macchie che ne decompongono i muri e con le tonalità glaciali che la ingrigiscono. Una casa di dimenticanze e di bigliettini appiccicati ovunque, piena di significanti che stanno perdendo ogni loro significato e quindi il loro senso. Una casa in cui già più volte l’acqua era uscita dalla vasca da bagno allagando i piani inferiori, e in cui il giovane vicino Down già aveva finito per essere segregato per ore, del tutto scordato da Edna. Ma il corpo, così come la lucidità e la memoria minate dalla demenza, improvvisamente sparisce e allo stesso modo improvvisamente ritorna, ed è così che Edna riappare nella sua cucina scalza, sporca e smemorata, del tutto inconsapevole della sua lunga assenza ma apparentemente in salute. Ha solo un misterioso livido sul petto, apparentemente poco preoccupante, e invece primo segno fisico del suo inesorabile dacadimento. Natalie Erika James, fra carrellate e torsioni sghembe, respiri (im)percettibili sotto al letto e pozze di urina che diventa nera, cera da plasmare e vecchi disegni, corridoi oscuri e vecchie finestre, sonnambulismi e crescente isteria, mette in scena nella sua personale rilettura della casa maligna l’orrore del perdere se stessi e gli altri, il traballare dei rapporti di affetto, l’avanzare inesorabile verso un buco nero. Un orrore che è psicologico e per molti versi esistenziale, intelligentemente antispettacolare e non particolarmente esibito, eppure profondissimo nelle sue tensioni costanti e nella sua suspense (dis)attesa, nei suoi dubbi e nelle sue manifestazioni, nei suoi blackout e nelle sue inquietudini.

Tanto che viene da chiedersi cosa ci facesse un gran film per molti versi kubrickiano come Relic, al di là della spinta produttiva e popolare di Jake Gyllenhaal e dei fratelli Russo, in un Sundance per il resto sempre più dedito allo stereotipo del (falso) indie prêt-à-porter. Relic è tutt’altro, per molti versi l’opposto. Un film dolente e stratificato di testa e di pancia, di emozioni e di sguardo, di linguaggi e di sovrapposizioni semiotiche che dalla metafora ragionano in termini filosofici, esistenziali, affettivi e cinematografici. Ed è stata ottima l’intuizione del Trieste Science+Fiction Festival 2020 nell’accaparrarsi per la prima italiana quello che è probabilmente il miglior horror dell’intera annata. Un film sul procedere a braccetto del corpo e della mente verso la progressiva distruzione, e ancora del corpo con quell’anima che non lo riesce a lasciare, fra (non) riconoscimento e distacco, fra lucidità e follia, fra apatia e sofferenza. Un film in cui l’ansia è ancestrale e assoluta così come i momenti di intensità e di danza fra la nonna e la nipote, o ancora fra l’anziana madre che si sente sola e sperduta nel bosco e la figlia che è tornata a tentare di proteggerla, ma che nel frattempo è tentata di chiuderla in una casa di riposo. Del resto, nulla è peggiore che non poter aiutare quella persona amata che non ti riconosce più e ormai ti rifiuta, come un demone in putrefazione che ti insegue ormai irriconoscibile nel suo decadimento, come un perdersi convulso dentro una casa che si credeva di conoscere alla perfezione. Non resta che sfondare i muri, difendersi, fuggire, e quando necessario rispondere pure alla violenza. Ma nemmeno quella che è ormai una madre trasfigurata in mostro si può lasciare sola e agonizzante. Si può solo amare fino all’ultimo respiro. Si può solo toglierle amorevolmente la pelle marcia per tornare a quello che c’è sotto, e poco importa che sia già in putrefazione. È l’unico modo per (lasciar) morire sereni. Fino alla prossima macchia, per lo meno. Fino alla prossima generazione, fino al prossimo destino. Fino alla prossima casa che inizierà a marcire.

Marco Romagna

“Relic” (2020)
89 min | Drama, Horror, Mystery, Thriller | Australia / USA
Regista Natalie Erika James
Sceneggiatori Natalie Erika James, Christian White
Attori principali Emily Mortimer, Robyn Nevin, Bella Heathcote, Steve Rodgers
IMDb Rating 5.9

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