7 Settembre 2021 -

MOTHER LODE (2021)
di Matteo Tortone

Dopo Shwaili Tales (2012) Matteo Tortone torna a filmare le miniere d’oro, questa volta non più in Tanzania ma sull’altopiano andino, e questa volta mettendo da parte lo sguardo documentaristico, comunque presente come necessario retaggio, per costruire un esordio alla finzione che risulta un esperimento perfettamente riuscito di quel realismo magico al quale il Sudamerica, con i suoi paesaggi e con il suo folklore latino, si è sempre perfettamente prestato. In concorso alla trentaseiesima Settimana Internazionale della Critica, Mother lode è un film che scuote con potenza lo spettatore, a partire da quell’ammonizione che è l’incipit e che si palesa su schermo nero, prima ancora dell’apparizione delle immagini. Le parole fuori campo di Denzel Calle Gonzales recitano il flusso di pensieri e ricordi che sono il rimaneggiamento, operato dal regista insieme a Mathieu Granier, delle cronache riportate dall’attore protagonista José Luis Nazario Campos, con una voce profonda e sicura che prende per mano il pubblico e lo accompagna da questo inizio per tutto il resto della narrazione, affinché non si perda in quel cammino letterale e metaforico che tutti i racconti intrinsecamente sono, questo più di altri. Nel buio, si invita a prestare l’orecchio prima ancora dell’occhio, e ad ascoltare, in un film in cui la componente uditiva talvolta supera per valore estetico e come trigger estatico quella, pur altissima, visiva. Le musiche minimali, quasi da trance, e le parole del voice over che sono lo scheletro intorno a cui si dispiega la vicenda, potenziano quella tensione sacrale e magnetica già conferita dalle immagini, filtrate da un seducente bianco e nero che in qualche modo si riaggancia alla memoria del viaggio degli eroi disgraziati del neorealismo italiano e che è uno dei punti in comune con la ricerca di Lav Diaz, a cui Tortone sembra qui accostarsi per alcune suggestioni e situazioni. La bellezza del paesaggio andino che ne risulta, e in cui l’eroe peruviano quasi si confonde, viene investita di un ben preciso ruolo nel gioco ipnotico in cui quest’ultimo viene invischiato, come se fossero montagne incantate, dotate di personalità e dunque di volontà, capaci davvero di esercitare un potere di attrazione in questa vicenda che si autoproclama universale mentre un’assolvenza dal nero porta gradualmente ad emergere le prime figure.  La voce recita: «non è un racconto, sono molti. Sono storie di nessuno ma possono appartenere a tutti. Parlano di fortuna, dell’amore, dell’oro e della morte». Un’asserzione in fondo valida in senso lato per ogni storia che abbia la dignità di assurgere a narrazione, dal momento che se dovessimo categorizzare l’esperienza umana in quattro macrosettori probabilmente non ne troveremmo di migliori da utilizzare poiché onnicomprensivi, tutto il resto è sottocategoria. Per questo sono storie universali, o meglio «senza nome» perché buone per tutti, e infatti «nascono dalla necessità», perché niente è più utile per l’uomo che osservarsi da lontano. E mentre due galli a una bisca clandestina si beccano con odio, il narratore finalmente restringe il campo: «Parlano del valore del denaro e le sue conseguenze», che come spesso succede portano gli uomini ad avere comportamenti simili a quelli dei pennuti contemporaneamente mostrati. Siamo quasi sempre come i capponi di Renzo, che infatti non fanno una bella fine come dimostra la scena successiva in cui il protagonista Jorge e un amico brindano alla buona e alla cattiva sorte, seduti sul sepolcro improvvisato dell’animale.  Sullo sfondo la Lima notturna, illuminata e vagamente presepiale, che sarà il setting della primissima parte del film fino a quando Jorge non si inerpicherà sempre più in alto nella sua ricerca dell’oro, dopo aver mantenuto la sua famiglia con un taxi-triciclo che arranca con fatica nei saliscendi di quelle strade polverose però così sicure, così certe. Abbandonarle è un rischio, anche se nella speranza di trovare nuove opportunità, ed è per questo che, quando il giovane deve lasciarle per cercare lavoro altrove, il padre affida il suo destino nelle mani del Signore, l’unico che «ci può indicare la strada per tornare a casa sani e salvi». La piega che la narrazione prenderà da questo momento seguirà una traiettoria a metà tra la parabola religiosa e la fiaba antica e spaventosa, principalmente per il ruolo del voice over che costantemente informa, definisce quel punto di visione magico su immagini realistiche e costruisce man mano un’atmosfera di inquietudine ammaliante, fatta di parole.

A partire da un punto preciso («Si racconta che l’oro appartiene al diavolo. Lo scopri a tredici anni, quando per la prima volta sali in miniera») si inizia a percepire l’inserimento di un respiro più ampio all’interno di questa vicenda privata. Il percorso di Jorge è una salita fisica e spirituale che lo porterà verso l’ignoto, verso la scoperta di cosa giace dentro la montagna e di riflesso dentro l’animo umano, e si rivestirà di un’eco quasi luterana (dal celebre «l’oro è lo sterco del diavolo»), che si irradia intorno alla fascinazione folkloristica di una società in cui il fervore religioso, una predominanza cattolica che non ostacola il perdurare di reminiscenze pre-ispaniche e di credenze ancestrali, è ancora molto forte. Questo è il modo in cui Tortone circoscrive all’interno della riflessione universale e sempre valida, ossia quella circa l’avidità umana qui indagata a livello quasi metafisico, un discorso politico più contingente, che riguarda un momento storico preciso come quello attuale. Il film si ricollega infatti alla questione dei  garimpeiros, i cercatori d’oro indipendenti. In Perù e in Brasile sono in molti a mantenere la propria famiglia così, vivendo in condizioni di povertà estrema a fronte di quell’oro purissimo che sono loro a estrarre e che sul mercato vale milioni di dollari. La questione si amplia se si considerano le devastazioni ambientali che l’estrazione illegale causa a livello di deforestazione, contaminazione dei fiumi (si parla di inquinamento da mercurio, ampiamente utilizzato in questi metodi di estrazione), alterazione del microcosmo di alcune zone (come la Foresta Amazzonica, da cui proviene gran parte dell’oro) e la messa in pericolo delle tribù autoctone. Lo schiacciamento dei diritti dell’uomo viene accolto dal silenzio di molte raffinerie internazionali, ed ecco che i compagni della miniera identificano questo diavolo come «un ometto basso, vestito da minatore», che «vaga per la miniera con lampada e piccone» con «una barba bianca e un viso da gringo». Così è a “La Rinconada”: 5000 metri sul livello del mare, centro abitato più alto del mondo, che ospita decine di migliaia di minatori che giungono di anno in anno per inseguire la chimera dell’arricchimento, accettando di vivere laddove i diritti umani non esistono e dove lo Stato peruviano è pressoché assente e sicuramente silente. Tanto che viene permesso il  sistema di lavoro del cachorreo, ventisette giorni di lavoro gratis in favore dei contrattisti, che subaffittano da una concessionaria lo sfruttamento della miniera e sub-contrattano il lavoro al minatore, e tre giorni a favore di quest’ultimo, che può tenere l’oro che trova. Questa è soltanto una delle forme di sfruttamento qui perpetrate, a cui si aggiunge quello minorile così come quello delle donne trafficate esattamente come la droga, che di certo non manca nella frustrazione e nei turni più massacranti. Così, da paradiso incontaminato, “La Rinconada” è in fretta diventato il «Paradiso del diavolo», dove la vita si consuma in baracche improvvisate quando non dentro i cunicoli, in una sorta di discarica tossica a cielo aperto in cui mancano del tutto i servizi essenziali, mentre un’aria ghiacciata e densa di mercurio si deposita nei polmoni e da lì si prepara a intaccare il sistema nervoso con calma, tanto che risulta che la vita media di un minatore sia circa la metà rispetto a quella di un normale lavoratore peruviano.
Questa è la meta del viaggio di Jorge. Un viaggio che si autoproclama di perdizione perché «si sa che il diavolo ha innumerevole forme e nomi», ma soprattutto si sa dove trovarlo: «appare nel punto più buio della miniera. A volte arriva con un alito di vento, ma può anche apparirti in sogno, e offrirti una fortuna». E se è vero che «tutto è nelle mani del diavolo: la dimensione della vena, gli incidenti che capitano, la vita e la morte», e se è vero che a tutti tocca entrare a patti con lui prima o poi, a rallentare l’incontro o meglio a renderlo inerme (o chissà, magari fruttuoso), dall’altra parte resta solo quel misto di cattolicesimo e magia antica. A questo serve il pagacho, quella parte della paga che viene offerta alla Gringa, il nome dato alla vena d’oro («veta principal») che è poi il titolo inglese del film, anche se vi si potrebbe attribuire una seconda valenza, ossia quella dell’invocazione, se la preghiera e il rituale sono l’unico rifugio. Ma il rifugio in realtà lo si cerca dove si può, anche nelle prostitute, che si trovano in abbondanza negli accampamenti dei minatori perché «tutti sanno che al diavolo piacciono le donne», e che diventano uno sfogo più spirituale che carnale nel loro accogliere i racconti e le paure. Di nuovo, attraverso il misticismo della voce fuori campo, il regista informa sulla questione: si parla di ragazze che lavorano per mandare i soldi alla famiglia, e che spesso vengono uccise senza che si faccia gran storia di ciò. E allora le tue paure non le puoi più raccontare a nessuno, «ti sforzi solo di distinguere il falso dal vero», ma è sempre più difficile perché «l’alcool e l’oro ti intorbidano i pensieri. Ti divorano a poco a poco». Così rischia di essere per il protagonista, che pure non arriva mai ad un punto di rottura ma resta sempre al di qua: un Rosso Malpelo mai incattivito eppure già vittima, un Ciaula non impaurito e in fondo sempre salvo, forse perché consapevole.

La macchina da presa, più che accompagnarlo, lo segue con insistenza, standogli addosso con una serie di long take e piani sequenza che sembrano camminare con lui, facendosi precedere in quel percorso che è un viaggio ipnotico nelle tenebre della miniera e di se stessi, e che certamente si inserisce sul filone degli innumerevoli viaggi cinematografici nel cuore di tenebra a partire da Apocalypse Now. Solo che qui il viaggio non inizia nelle acque del Mekong, quanto nel freddo umido delle alture del Perù e a partire da un punto preciso, da quel cartello che recita «Bienvenidos a La Rinconada». L’orrore non si trova al centro della jungla cambogiana e neanche in realtà al centro della montagna, che diventa solo uno specchio o un pretesto simbolico, ma si impregna tutto intorno in quell’aria velenosa che fa brillare gli occhi come le torce nel buio di alcune scene, nella speranza che in quell’oscurità possa brillare il minerale più agognato della terra. La sua estrazione non è facile, può toccarti vedere un compagno morire schiacciato da una roccia, altri scomparire un giorno, in quel tempo sospeso e dilatato che è la quotidianità della miniera a cui ci si deve abituare gradualmente, perché sopportare il freddo del meteo e della perdita di importanza della vita umana non è immediato. Per questo «ogni giorno ti ubriachi e sali in miniera», perché in fondo tocca sempre agli altri, fino a quando non tocca a te. E in miniera sale anche la camera, che segue senza traballare le schiene curve dei ragazzi negli interstizi polverosi e soffocanti ripresi con lentezza e sincerità, le loro mani ruvide che caricano pezzi di montagna, le carriole che salgono a fatica, i sacchi pesanti, le torce sul casco che si riflettono come stelle nei punti acquosi del pavimento. E poi la macchina esce, a mostrare di nuovo lo spazio bello e arioso che è la baraccopoli in cui vive il protagonista, in cui non succede «nada malo y nada bueno» ma in realtà dentro di lui succede tutto, perché il diavolo è «volubile e capriccioso». Quando assottiglia la vena, per esempio, e la terra allora richiede un pagacho che non sempre è un’offerta alimentare, o meglio, non sempre è un’offerta alimentare inanimata. Tocca a te o a lei, e allora prendi una prostituta, la fai ubriacare fino a quando non sviene e la fai esplodere nella miniera, come regalo. Così racconta la voce, senza bisogno di mostrare nulla. «Il diavolo ringrazia» dello scambio equo, sangue in cambio di oro, e tu continui a bere, di nuovo solo, e a tornare in miniera così come Jorge. Ogni mattina si alza, tossisce, dà un colpo infreddolito sugli stivali per pulirli e infilandoli riprende la sua quotidianità, talvolta accompagnato da una donna ma in fondo sempre solo anche in mezzo ai compagni, come quando è mostrato per l’ultima volta nella miniera, a bere in mezzo a foglie di coca, fumo di sigarette e di nuovo quella luce stellare delle torce che compone giochi di artificio nel buio, che avvolgono lo spettatore in una nebbia luminescente.
Evidentemente il pagacho è andato a buon fine perché fuori il mondo gioisce, “La Rinconada” ride di questa ricchezza che festeggia con una parata in maschera, presentata dal regista con un ralenti accompagnato dalle note di Osi di Mattheis che contribuiscono a costruire l’inquietudine espressionista di una scena dissonante e antinaturalista, che in qualche modo ricorda L’ingresso di Cristo a Bruxelles. Come nella tela di Ensor del 1889, in cui maschere e costumi carnevaleschi accolgono con un’allegria in realtà sinistra l’ingresso di Cristo, unico non mascherato e palesemente ignorato a ribadire la vuotezza della massa, tale è l’atmosfera di questa festa che seppellisce sotto altrettanto sinistra allegria i corpi dei fantocci dei rituali, così come tutto quello di cui il pubblico è stato reso edotto, testimone in realtà indiretto dal momento che è all’udito e non alla vista che è stata presentata la follia. L’informazione è dimenticata, seppellita, perché ciò che conta è ciò che ora viene distribuito tra i sorrisi che è l’oro, adesso metaforico perché è subito carta e non più minerale. La banconota. In fondo nessuno del pubblico ha visto luccicare niente, no? Si è vista solo una scala di grigi, magnetici come una calamita ma che uniformano le diversità. La roccia, le strade, la neve, la carne umana, l’oro: tutto in fondo si mischia ed è di colore simile, anche quando la luce ci batte sopra. Figuriamoci nell’oscurità che tutto inghiotte, laddove «i nomi si perdono e i volti svaniscono», ma qualcosa rimane. Sì, perché la storia continua e tutti continuano a cercare la vena madre. Affinché possa apparire quel minuscolo granello giallo cui l’uomo ha attribuito somma importanza, per poi traslare in un pezzo di carta stropicciata da quella pepita che chiude il film. È lei la protagonista dell’ultima inquadratura, mentre adagiata su un crogiolo accoglie una fiamma e, rilucendo nel buio della sala, si riflette come un luccichio negli occhi di chi guarda. Ed è solo alla fine di questa indagine su quei sottili filamenti che uniscono il sacro al capitale in una trama fitta, paradossale e confusa, che capiamo come questa in fondo, quella della cupidigia, sia “solo” la storia più antica del mondo. La più immortale. «Una storia senza fine».

Bianca Montanaro

“Mother Lode” (2021)
86 min | Documentary | France / Italy / Switzerland
Regista Matteo Tortone
Sceneggiatori Mathieu Granier, Matteo Tortone
Attori principali José Luis Nazario Campos, Damian Segundo Vospey, Maximiliana Campos Guzman
IMDb Rating N/A

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