16 Maggio 2018 -

MIRAI (2018)
di Mamoru Hosoda

Non si può prendere al volo un fiocco di neve. Si può allungare la mano, si può saltare verso di lui, si può probabilmente anche afferrarlo, ma solo per un istante, perché poi al contatto con il calore umano finirà inevitabilmente per sciogliersi, per sparire sul palmo della mano, o per lo meno per evolversi in qualcos’altro, per diventare prima acqua e poi evaporare, segnando così la provvisorietà di ogni momento. L’immaginazione dell’infanzia può sognare di inseguirlo, questo fiocco di neve, di coglierlo e farlo proprio, di poterci giocare, ma prima o poi anche la più dolce creatività dei bambini sarà costretta a fare i conti con la realtà, con il fatto di essere (un po’) cresciuti e di dovere ancora crescere fino all’età adulta, con la consapevolezza di dovere non ancora recidere, ma per lo meno sfilacciare, il cordone ombelicale. Kun, pochi anni e una fanciullesca, intima e tenera passione per i trenini che ama far sfrecciare per tutta la casa, è stato sin dal primo giorno il centro assoluto, l’unico pensiero di mamma e papà da sempre pronti a scattare a ogni suo vagito. Ora, però, non è più solo, non è più il figlio unico, non è più “la creatura”. Con l’arrivo della sorellina Mirai, letteralmente “Futuro”, Kun smette improvvisamente di essere l’unico bambino a cui i genitori prestano attenzione, smette improvvisamente di essere l’“oggetto”, il bambolotto iperviziato di casa, e deve fare i conti con la necessità di diventare per la prima volta un “soggetto”, una (piccola) persona (già) con un ruolo e con responsabilità ben precise, il «fratello maggiore». Kun smette improvvisamente di essere “il più piccolo”, il “bebè”, dovendo per la prima volta aprirsi dal focolare domestico al resto del mondo, dalla famiglia alle persone estranee, dal presente al passato e al futuro, nella circolarità delle vite e delle generazioni, nell’appartenenza a una famiglia. È giunto il momento di allargare gli orizzonti, di iniziare a vivere, di togliere le rotelle dalla bicicletta, e non importa quante saranno le cadute prima di trovare il nuovo equilibrio, quello che conta è trovarlo, è crescere, è imparare a pedalare come “i grandi”, a costo di ruzzolare e piangere fino a quando non si cadrà più. È giunta l’ora di capire che non si è il centro del mondo, che bisogna smettere di essere così viziati, e che all’egoismo è decisamente preferibile l’amore e il reciproco supporto di una famiglia – dare e avere, amare e essere amati. È proprio nello sguardo e nell’immaginario di Kun, che attraversano la gelosia per poter finalmente approdare a nuovi e più maturi concetti di amore, di vita e di famiglia, che l’eclettico e straordinario Mamoru Hosoda, probabilmente il maggiore animatore nipponico in attività dopo il ritiro annunciato da Miyazaki e la recente e dolorosa notizia della morte di Isao Takahata, innesta il punto di vista della sua nuova e commovente gemma Mirai, ma petite soeur, presentata a Cannes 2018 in Quinzaine des Réalisateurs, ed è proprio con lo sguardo e con l’immaginario di Kun che guarda la madre, il padre, la nonna, la sorellina, gli avi, il futuro. Fino a scoprire le piccole cose, le fortunate coincidenze e le gioie che hanno reso possibile la sua famiglia, una nuova forma di se stesso, (finalmente) attore al suo primo ruolo nel mondo e nella vita.

Per quanto stratificati, profondi e profondamente umani, non sono tanto gli assunti il perno centrale di Mirai, per quanto ritmata e avvincente non è la sua narrazione, e per quanto impeccabile nella tecnica quanto perfettamente calibrata in ogni colorazione e in ogni saturo frame, inventiva nei sogni quanto elegante nella “vita” reale, non è neppure la spettacolarità grafica dell’animazione il punto del film. Anzi, il percorso di Kun dall’infantilismo all’infanzia narrato in Mirai è un lavoro dalla scrittura e dalla struttura tutto sommato semplici, con una narrazione il più possibile “piccola”, intima, concentrata in pochi giorni di piccoli stravolgimenti del quotidiano (memorabile per poetica e sensibilità la sequenza in cui Kun, geloso e incattivito come solo un bambino sa essere cattivo nei confronti della neonata «arrivata dal nulla» a portargli via le attenzioni dei genitori, farà piangere la sorellina, verrà sgridato e scoppierà egli stesso in un ininterrotto pianto, con i genitori quasi sperduti fra i due fuochi urlanti da provare a calmare, oppure le sequenze in cui impara ad andare in bicicletta a costo di cadere e rialzarsi fino al tramonto), e con un’animazione che, nel filone narrativo principale, sceglie di concentrarsi su un’introspezione rigorosa e trattenuta, domestica, minimale, in un certo senso spiazzante tre anni dopo quell’esplosivo congegno narrativo, creativo e incalzante nelle sue forme d’avventura che era The Boy and the Beast. Questa volta Hosoda sceglie una forma narrativa per lo più piana, totalmente realistica anche quando mette su tavole la più pura immaginazione, fatta di un’essenzialità che quasi pare anelare alla poetica di Ozu e di Mizoguchi, e che solo nelle fantasie del bambino lascerà deflagrare nei disegni tutto l’immaginario di Hosoda fra forme e colori, animali antropomorfi e viaggi nel tempo, mostri delle fiabe e treni da (non) prendere. Quello che conta, nella traiettoria tracciata con sublime tenerezza e con sensibilità ancestrale dal regista, non è tanto il “cosa”, la verità a cui si arriva, ma è il “come” Kun ci arriva, fra incomprensioni, gelosie, capricci, immaginazione, creatività, traumi, inusitata tenerezza e piccoli atti di eroismo dell’infanzia. E soprattutto incontri, di ieri, di oggi, di domani, quasi come fosse un nuovo bambino (dopo La ragazza) che saltava nel tempo, e che nel tempo troverà Mirai ormai adolescente, la madre da giovane, e soprattutto un bisnonno aviatore e motociclista che inizialmente crederà essere il padre, rendendosi così conto di come ogni generazione abbia ciclicamente vissuto – magari con in mezzo una guerra – la necessità delle sue stesse prese di coscienza, dei rapporti di causa ed effetto nella casualità della vita, e più in generale di come il senso di famiglia, la bontà d’animo, l’amore incondizionato per i figli, il senso di condivisione e cooperazione, la gentilezza, la comprensione, l’affetto, il reciproco supportarsi e proteggersi, siano un qualcosa di ciclico, che si tramanda di generazione in generazione, e che fa le caratteristiche più profonde e radicate di un patronimico. Ed è qui che Mirai, miyazakiano fino al midollo con tanto di aeroplani negli hangar e corse in moto verso l’orizzonte e l’infinito della vita con il bisnonno, e con tanto di incontri e legami amorosi nati settant’anni prima dal dolore di un infortunio senza i quali oggi né Kun né la sua famiglia potrebbero esistere, trova le sue stratificazioni, trova il suo eccezionale trasporto nell’altezza bambino, trova la sua massima profondità poetica e filosofica, trova il suo maggiore acume nelle riflessioni e la sua più sublime intensità emotiva. Perché i sogni e i traumi di Kun sono i sogni e i traumi di ogni neonato che diventa bambino, e ora finalmente sa anche lui che nel prosieguo della sua vita ci saranno quelli di ogni bambino che diventa adolescente e poi quelli di ogni adolescente che diventa adulto, in un’assoluta universalità dei rapporti umani sui quali da sempre Hosoda lavora con acume, perizia tecnica e un cuore inarrivabile, di fronte al quale è più volte difficile trattenere gli occhi lucidi e le lacrime di commozione. Che poi sono le stesse lacrime che in passato era già capitato più volte di versare “per colpa” di Mamoru Hosoda, autore sempre più importante nel panorama non solo di animazione, autore sempre più ambizioso, autore sempre più ancestrale.

Nella centralità assoluta di Kun, sono le sue percezioni, sono i suoi pensieri, sono i suoi sogni, sono sue le interpretazioni del suo cammino ciò a cui Hosoda vuole giungere, in un’immersione totale, quasi fanciullesca, nell’infanzia, nella sua dolcezza, nella sua tenerezza, nei suoi eccessi e nella sua sincerità. Nell’immaginazione dell’infanzia vale tutto, vale volare, vale l’annullamento del tempo, vale mescolare passato (remoto) e futuro (prossimo), vale che una sorella neonata diventi più grande di Kun, che sua mamma sia una sua coetanea, e che il bisnonno sia una versione più giovane del padre. E forse vale anche quel fiocco di neve, che nella realtà di scioglie in mano, potrebbe forse diventare il migliore amico. Con Mirai, Mamoru Hosoda si tuffa con anima, intimità e cuore rari nella fantasia di bambino di Kun, nella sua creatività, nella sua percezione giocosa del mondo, quella per cui anche il sonnacchioso cane può diventare un cavaliere senza macchia e senza paura a cui rubare per gioco la coda, quella per cui la madre, quando impegnata con Mirai diventata per Kun una sorta di fastidiosa (e, in quanto neonata, dalle urgenze più pressanti delle sue) concorrente fra poppate e pianti che gli allontanano i genitori, si trasforma nella temibile strega Onibaba incubo di sempre estrapolato da un qualche romanzo illustrato. Ma soprattutto quella per cui Kun, durante il suo viaggio circolare nelle generazioni, inizierà a capire il senso più intimo del focolare domestico e dell’appartenenza a una famiglia. Hosoda ritorna ancora una volta su quelle tematiche – la famiglia e in particolare la figura paterna come guida, l’infanzia, i rapporti umani e affettivi, il tempo che passa, le generazioni, il futuro – su cui si è sempre imperniato il suo lavoro, declinandole questa volta in una fiaba/parabola intima e profondamente poetica, piccolo e sublime romanzo di (prima) formazione, di (primo) ingresso nella vita e nella società. È la stazione ferroviaria, da sempre sogno e ora incubo di Kun, il luogo che il bimbo non può che immaginare come definitiva presa di coscienza. Prima c’è il suo perdersi, poi c’è il rendersi conto che, nel suo non essersi mai allontanato dalla protezione della famiglia nemmeno sa i nomi dei suoi genitori, per lui semplicemente «papà» e «mamma», né il suo cognome, poi c’è il suo avventuroso fuggire all’incubale treno per “Lonely Island”, dove vengono spediti i bambini soli a vivere la propria atterrente solitudine, e infine c’è quello sguardo con la coda dell’occhio verso Mirai, piccola e indifesa, sorella minore da difendere e da proteggere, che sta venendo trascinata sullo stesso treno verso l’oblio. È nel suo scatto per salvare Mirai, nel riparare chi è più debole, nel suo scoprirsi quasi all’improvviso «fratello maggiore», che sta tutta la scoperta della vita da parte di Kun, tutto il superamento dei suoi iniziali traumi, tutto il suo rendersi conto che non era mai stato abbandonato, e che l’amore dei genitori – quello stesso amore che sta scoprendo e vivendo da fratello in tutta la sua più nobile pienezza – non è certo diminuito rispetto a prima. Quello stesso amore bruciante di pura intensità familiare racchiuso nelle fotografie, percorso a ritroso di una madre felice, intersezione fra passato e futuro in un presente durato un istante, dopo il quale ricominciare a cambiare ma nel quale poter continuare a rivedersi. Con un pancione, poi con l’altro, e ora con Kun e Mirai, fratello e sorella ormai indivisibili. Almeno per un po’. Anche del bisnonno c’è ancora una foto da qualche parte. Forse è ingiallita, ma non importa. Il suo volto sarà sempre lì, a ricordare quella passione per il volo, a ricordare gli orrori della guerra, a ricordare il ruolo degli avi, a ricordare come sia stato il caso a diventare famiglia. A ricordare quanto sia prezioso e miracoloso l’amore, e quanta insostenibile tenerezza sappiano raggiungere gli anime quando a farli sono autori di questo sublime livello.

Marco Romagna

“Mirai” (2018)
Animation | Japan
Regista N/A
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

BLUE GIANT (2023), di Yuzuru Tachikawa di Marco Romagna
THE KAMAGASAKI CUALDRON WAR (2018), di Leo Sato di Marco Romagna
UNA TOMBA PER LE LUCCIOLE (1988), di Isao Takahata di Marco Romagna
SOFIA (2018), di Meryem Benm'Barek di Marco Romagna
UN AFFARE DI FAMIGLIA (2018), di Hirokazu Kore-eda di Marco Romagna
L'ISOLA DEI CANI (2018), di Wes Anderson di Nicola Settis