15 Maggio 2019 -

LOS OLVIDADOS – I FIGLI DELLA VIOLENZA (1950)
di Luis Buñuel

«È assurdo accusare Buñuel di avere un gusto perverso per la crudeltà. È vero che sembra scegliere le situazioni per il loro massimo contenuto orrorifico – cosa potrebbe essere più atroce di un bambino che lancia sassi contro un cieco, se non un cieco che si vendica di un bambino? Analogamente il corpo di Pedro, ucciso da Jaibo, viene gettato su una discarica tra gatti morti e scatolette vuote, e quelli che si liberano di lui in questo modo – una ragazza e suo nonno – sono paradossalmente proprio tra i pochi che gli volevano bene. Ma la crudeltà non è di Buñuel, si limita a rivelarla nel mondo. Se sceglie gli esempi più terrificanti, è perché il vero problema non è sapere che può esistere anche la felicità, ma sapere fino a che punto la condizione umana può andare in disgrazia. Il suo obiettivo è scandagliare la crudeltà della creazione, ma “crudeltà” di Buñuel è interamente oggettiva, non è altro che lucidità, ed è tutt’altro che pessimismo; se la pietà può apparire esclusa dal suo sistema estetico, è perché invece la avvolge ovunque. Almeno questo è vero per Los Olvidados, perché a questo riguardo si rileva uno sviluppo da Las Hurdes. Il documentario su Las Hurdes è tinto sì di un certo cinismo, di una soddisfazione personale nella sua obiettività; il rifiuto della pietà assumeva il colore di una provocazione estetica. Los Olvidados, al contrario, è un film d’amore e che richiede amore. Niente è più contrario al pessimismo “esistenzialista” della crudeltà di Buñuel. Poiché non sfugge nulla, non concede nulla e osa sondare la realtà con l’oscenità chirurgica, può riscoprire l’uomo in tutta la sua grandezza e costringerci, con una sorta di dialettica pascaliana, all’amore e all’ammirazione. Paradossalmente, la sensazione principale che emanano Las Hurdes e Los Olvidados è un rinnovarsi dell’incrollabile dignità dell’umanità. A Las Hurdes, una madre siede immobile, tenendo in ginocchio il cadavere del suo bambino, ma questa faccia contadina, brutalizzata dalla povertà e dal dolore, ha tutta la bellezza di una Pietà spagnola: è sconcertante nella sua nobiltà e armonia. Allo stesso modo, in Los Olvidados, i volti più ripugnanti non cessano mai di essere immagine dell’uomo. Questa presenza di bellezza nel mezzo dell’atrocità (che non è affatto la bellezza dell’atrocità), questa perennità della nobiltà umana nel degrado, trasforma dialetticamente la crudeltà in un atto di carità e amore. Ed è per questo che Los Olvidados non ispira né soddisfazione sadica né indignazione farisaica nel suo pubblico1».
Così scriveva, infinitamente meglio di come potrebbe farlo chiunque di noi, il fondatore André Bazin sugli allora neonati Cahiers du Cinéma poco dopo la proiezione di Los Olvidados all’edizione 1951 del Festival di Cannes, dal quale il terzo film messicano di Buñuel, pochi mesi dopo essere stato massacrato in Centroamerica da chi lo considerava lesivo della dignità del Paese, tornò a casa con il premio per la miglior regia e la meritata considerazione. Una chiosa di poche righe, capace meglio di qualsiasi altro scritto di cristallizzare, partendo da un ragionamento sull’etica granitica che si nasconde nella precisione della scelta estetica, tutto il senso del cinema passato e futuro di Luis Buñuel, tutto il senso politico e umano del suo approccio all’avanguardia, alla realtà e al Surrealismo. Cos’è del resto il Surrealismo se non un partire dalla realtà per andare oltre, per superare il reale liberandolo dal reale con l’apertura allo spazio dell’inconscio, dell’onirico, del creativo e del metaforico fino a giungere, passando per l’astrazione e per Freud, a una visione della realtà dell’uomo ancora più lucida, ancora più impietosa e(ppure) ancora più straziata? Non può esistere surreale senza reale, perché non avrebbe senso sconvolgere la realtà senza ragionare sulla realtà, senza metaforizzarla, senza liberarla dalle convenzioni sociali e dai paletti (auto)censori. Coerentemente, in Un chien Andalou come ne Il fascino discreto della borghesia, in Simon del desierto come ne La via lattea, in L’age d’or come in Estasi di un delitto, in Bella di giorno come ne L’angelo sterminatore.
In questo senso Los Olvidados, inarrivabile capolavoro tornato per l’edizione 2019 sulla Croisette di Cannes nello splendore del restauro che restituisce tutti i contrasti di quei bianchi e neri ruvidi, taglienti, dolorosi e lancinanti del grande DOP Gabriel Figueroa, parte dall’allora recentissimo Neorealismo italiano (non solo i bambini di Sciuscià, ma anche la citazione esplicita di Roma città aperta quando Pedro inseguirà invano il bus sul quale Jaibo sta fuggendo con i soldi da restituire al direttore del collegio) per delineare la traiettoria (sur)reale di una discesa agli inferi, di un’immersione nella povertà più estrema, e quindi nella più abietta degradazione umana che della miseria è inevitabile e incolpevole figlia, intrisa di un realismo impietoso che mai vuole giudicare o moraleggiare, ma esattamente all’opposto vuole dipingere un affresco doloroso e annichilente, al contempo lucido, politicissimo e profondamente umano. Con una pennellata che, come quella degli uomini-mostri sporchi, grassi e sdentati di Goya, nient’altro è che la più pura (orrida) quotidianità vista, raccolta e, come un paradigma dell'(in)concio degrado umano, drammatizzata. Una realtà in cui praticamente nessuno si salva, eppure nessuno è realmente colpevole delle proprie cattive azioni, del proprio cinismo, della propria freddezza, imposti semmai dalla cecità borghese, dalla superficialità e dal nuovo classismo dei ceti più elevati, da quei palazzoni di Parigi, Londra, Madrid e Città del Messico che, come già nelle Terre senza pane di Las Hurdes, quasi sembrano un muro dietro al quale nascondere la realtà “vera”, quella del disagio sociale, quella della disperazione, quella dell’iniquità, quella della solitudine. Quella realtà di chi non ha mai ricevuto amore, né fiducia, né speranza. Quella realtà da cui tentare di liberarsi con il sogno, con una gallina che scorrazza per la strada dopo l’ennesimo sopruso verso il più debole, oppure con un uovo scagliato – ad anticipare di dieci anni esatti lo sguardo in macchina di Fino all’ultimo respiro con cui Godard e Belmondo hanno cambiato per sempre il cinema – contro la macchina da presa, trovando però un vetro a proteggerla e a rendere il giovanissimo protagonista impotente anche nel tentare di non farsi più guardare. Com’è sottile, a volte, il confine fra sogno e incubo!

Prima è uno sdentato correre verso la macchina, poi la soggettiva del ‘toro’ sull’improvvisata muleta, e poi il definitivo stacco che non certo a caso chiude il raccordo di montaggio e di linguaggio sul culo del bambino ancora in corsa, mentre bighellona in piazza in attesa che qualcuno rubi un pacchetto e gli porti una sigaretta. Non erano più i tempi francesi, profondi e simbolici eppure ancora per molti versi giocosi, dell’occhio tagliato, delle formiche che escono dalla mano, dell’amour fou fra uomini, animali e statue come unica forza che regola il mondo e dei provocatori accostamenti fra la figura di Cristo e quella del Marchese De Sade. E non erano nemmeno più i tempi, per quanto l’apparentamento nel dipingere la medesima assoluta povertà sia tanto evidente da costituire un sostanziale controcampo, della natia Spagna e della depressione del già citato Las Hurdes, che nelle forme del (falso) documentario surrealista, mentre di fatto inventava il mockumentary, mostrava le zone più misere del Paese durante l’ascesa di quel Francisco Franco contro il quale l’antifascista Buñuel avrebbe di lì a poco abbandonato per sempre la Penisola Iberica. Anzi, in un certo senso Los Olvidados, letteralmente “I dimenticati” ma da sempre noto in Italia come I figli della violenza, è proprio il superamento di ogni tempo: la miseria del contesto sociale nel quale Buñuel estrapola dalla realtà e inserisce i suoi giovanissimi delinquenti per fame è una condizione atemporale, è un costante astrarre il senso di una realtà che da sempre e per sempre si ripresenta ogni giorno e in ogni luogo nella più dura e amara concretezza del presente di ogni zona d’ombra del pianeta, in ogni quotidiana strage degli innocenti che si consuma nella polvere e nel più assordante silenzio.
Poco importa che siano i bassifondi della Mexico City del 1950, perché potrebbe perfettamente essere il Terzo Mondo di oggi, potrebbe essere un qualsiasi luogo al mondo in un qualsiasi momento della costante attualità della Storia. Un (qualsiasi) luogo violento e implacabilmente crudele fatto di archetipici sassi, bastoni e coltelli, in cui i figli vengono scacciati dalle madri che non li amano (sequenza che, nel clima di professionalità ma nullo entusiasmo della troupe, portò proprio un paio di giorni dopo la pubblicazione su tutti i giornali della notizia di un figlio lanciato da madre messicana da un treno in corsa alle dimissioni della parrucchiera di scena convinta che nessuna madre latina si sarebbe mai comportata nel ben meno grave modo messo in scena) e sono costretti a rubare il cibo dalla propria casa. Un luogo in cui i padri abbandonano al mercato i bambini che non possono più sfamare, un luogo in cui “lavoro” vuol dire essere sfruttati come buoi a spingere la giostra su cui far divertire i coetanei borghesi senza nemmeno essere sicuri del salario a fine giornata, un luogo in cui la prostituzione minorile di ogni sesso va a braccetto con la fame e con pochi pesos, un luogo in cui il riformatorio è solo il luogo dal quale fuggire per tornare più violenti di prima a rubare, picchiare e magari uccidere. Un luogo in cui i ragazzini si ammazzano di lavoro e moriranno d’infamia per mantenere l’alcolismo di un padre nullafacente da ritirare ogni sera direttamente al bar, un luogo in cui i giovanissimi criminali disperati senza alcuna remora bastonano, rapinano e umiliano un vecchio cieco ben presto pronto a dimostrarsi ben peggiore di loro, con il suo gusto perverso e sadico di vendetta verso un dodicenne freddato alle spalle dagli agenti di polizia.
Nasce dalla sua immagine finale, Los Olvidados. Un’immagine atroce, amara, impietosa, eppure tanto profondamente dolorosa e commossa da ribaltare – tornando a Bazin – qualsiasi possibile vena sadica o compiaciuta in pura pietà umana. Un’immagine intima e sofferta, nata nella testa di Luis Buñuel, nel suo camuffarsi e girare per i sobborghi più miseri e disagiati del Messico alla ricerca di barlumi di vita, dopo avere sentito del ritrovamento in una discarica abusiva del corpo senza vita di un dodicenne. Un’immagine “vera”, trovata sul campo ed estrapolata di peso dalla realtà più asfissiante, pronta a diventare – ben lontana dal finale alternativo ritrovato qualche anno fa, ben più ottimista e conciliante con Pedro che sopravvive, si libera di Jaibo e ritorna a scuola, girato su pressioni del produttore Óscar Dancigers evidentemente preoccupato dalla chiosa tragica e convinto solo in seguito della visione del regista – l’unica chiusura possibile di una parabola di dolore e impotenza, in cui per evitare problemi e malagiustizia i proprietari della stalla in cui il giovane ha trovato la morte si ritroveranno a salutare educatamente la madre proprio mentre si stanno sbarazzando del cadavere di suo figlio, coperto di sacchi sul carretto in attesa di essere lanciato giù per la scarpata. Ed è proprio nella morte, non tanto in quella fulminea del “(non) buono” Pedro morto ammazzato proprio nel momento del suo recupero, ma in quella del “(non realmente) cattivo” Jaibo che lo ha da poco ucciso nella lotta nel fienile, che si può nuovamente, e finalmente, liberare la surrealtà amorevole del sogno d’addio di cani randagi, fosse e solitudini, accompagnata dalla voce di quella madre mai conosciuta ma più volte sognata, desiderata, amata anche e soprattutto nella sua mancanza. Come mancano entrambi i genitori a Ojitos abbandonato al mercato, così dolce e innocente contro la durezza della realtà, così disponibile eppure preso a bastonate anche da chi ha trovato il suo aiuto, e così come manca la madre, pur presente, di Pedro, pronta a mandare ripetutamente via quel figlio mai amato, partorito a 16 anni in seguito a uno stupro e per sempre disprezzato per la colpa di un padre del quale nemmeno ha mai potuto immaginare il volto. Una madre con cui sognare una riconciliazione impossibile, che parte dall’incubo in doppia esposizione e ralenti di Pedro, fra galline, colombe e l’uomo morto che ride sotto il letto, per arrivare alla parvenza d’amore che sta nell’orrore, nell’odio, nella vendetta, nel ricatto, nella carne, nel vento e nello scippo della speranza, con quella mano di Jaibo che spunta dal nulla per strappare via il cibo dalla bocca del piccolo antagonista.
Buñuel intreccia, nei due sogni di (illusoria) liberazione e nella realtà asfissiante che li ha plasmati, le vicende dei tre bambini con quelle dei mutilati che pretendono ma non sanno dare carità, con quelle del menestrello cieco che li venderà alla polizia, e soprattutto con quella mancanza delle famiglie che non potrà che farli rimbalzare dentro casa e nel mondo contro un muro di anaffettività, di mancanza di calore e di tristezza. Il muro di una società impermeabile alle loro necessità, ai loro sentimenti e alla loro esistenza; una società in cui nessuno è esente dall’orrore e dall’imbruttirsi quotidiano degli uomini, una società di ignoranza e disperazione, una società di amuleti e di colombe con cui cercare invano di curare i dolori. Una società di omicidi e ricatti per far tacere chi sa e non parla, in cui non ci si possono permettere l’innocenza, il candore, l’ingenuità, ma ci si possono solo sporcare le mani, tentando disperatamente di sopravvivere un altro giorno alla necessità e ai più o meno motivati sensi di colpa. È la società che cresce, soffoca, uccide e nasconde Pedro, accusato a torto di essere un ladro e consegnato dalla madre al tribunale minorile e poi alla scuola, vista come un campo di lavoro quando invece è l’unica istituzione ancora disposta a dare fiducia. Anche di fronte alla ribellione del ragazzo, quando massacra galline e ne rompe le uova, perché il direttore ben sa che è la povertà il vero crimine, e non la sua reazione disperata, affamata, orgogliosa. Surreale, proprio nella sua estrema e terrificante perfetta adesione alla realtà.

Marco Romagna

“The Young and the Damned” (1950)
80 min | Crime, Drama | Mexico
Regista Luis Buñuel
Sceneggiatori Luis Alcoriza, Luis Buñuel
Attori principali Estela Inda, Miguel Inclán, Alfonso Mejía, Roberto Cobo
IMDb Rating 8.3

Articoli correlati

LA COCINA (2024), di Alonso Ruizpalacios di Marco Romagna
EASY RIDER (1969), di Dennis Hopper di Nicola Settis
SELVA TRÁGICA (2020), di Yulene Olaizola di Bianca Montanaro
EL ECO (2023), di Tatiana Huezo di Marco Romagna
SIBERIA (2020), di Abel Ferrara di Marco Romagna
DIEGO MARADONA (2019), di Asif Kapadia di Marco Romagna