26 Febbraio 2020 -

SIBERIA (2020)
di Abel Ferrara

Risale addirittura al 2014 di Pasolini, il primo embrione di Siberia. Un progetto ambizioso e personalissimo, a metà strada fra le lande (in)esplorate di Jack London e le sedute psicanalitiche di Carl Jung, in cui Abel Ferrara dismette i consueti panni metropolitani per viaggiare fra ghiaccio, caverne e deserto all’interno del proprio subconscio slabbrato e disperatissimo. Un vero e proprio viaggio onirico nel delirio dove non c’è più la Grande Mela con tutte le sue infinite ramificazioni della colpa che è quasi sempre stata centro nevralgico della sua filmografia, e non c’è nemmeno l’attuale vita di difficoltosa rinascita a Roma nel frattempo messa in scena, durante la lunga postproduzione di Siberia, nel basso costo di Tommaso, nato come sostanziale controcampo “quotidiano” dello stesso alter-ego ferrariano interpretato dall’amico feticcio Willem Dafoe e finito invece per essere completato e presentato quasi un anno prima di questo campo “interiore”. Sono semmai la neve e il fuoco delle Dolomiti e del deserto messicano, i nuovi ambienti inariditi della sofferenza e della spiritualità del regista newyorchese, sono la luce e il buio degli interstizi più disturbati e dolorosi di una mente, sono la Fede e la consapevolezza incubale della necessità di prendersi le proprie responsabilità. Senza che ci sia reale possibilità di fuga nemmeno in un autoesilio volontario, senza che ci sia reale possibilità di redenzione, senza che si possa nascondere dal proprio passato. Senza che si possano evitare i propri fantasmi, che fra gli husky che trainano la slitta e i soldatini dell’infanzia, fra le parole che non hanno più significato e i significati non hanno più bisogno di alcuna parola, torneranno inevitabilmente a perseguitare fino all’interno di una caverna luciferina ben più che platonica e poi fra le stelle, in veglia, in sogno, e infine di nuovo all’aperto, schiaffeggiati dal sole bruciante che si riflette sulla sabbia o dalle tormente di neve che come lame tagliano il volto.

Sta tutto nella creazione di una Siberia introspettiva e spirituale in cui tentare in qualche modo di isolarsi per rieducarsi. Una Siberia fatta di simboli e di folli associazioni di idee, di ossessioni e di paure ancestrali, di turbe sessuali che tornano dal passato e del putridume di uno specchio d’acqua che riflette l’ennesima immagine distorta di se stessi. Una Siberia in cui affrontare i propri demoni da sempre irrisolti, quell’amplesso che quasi diventa incesto mentre le giovani e belle viandanti, fra le quali l’immancabile Cristina Chiriac compagna del regista, inevitabilmente mutano il loro aspetto e i loro seni perfetti a sormontare la gravidanza fino a disvelare il corpo anziano e quasi spettrale della madre, oppure quegli occhiali paterni che ridiventano volto, confronto, memoria, forse persino pesce con tutta l’iconografia cristologica che ogni ΙΧΘΥΣ ha sempre portato in dote. Ma soprattutto quella di Abel Ferrara è una Siberia fatta di una libertà cinematografica sconfinata, esasperata ed esasperante, un caleidoscopio di idee e di forme magari a tratti respingente nel suo costante sporgersi sul limitare del kitsch (quando non addirittura del trash), eppure talmente ossessionato e bruciante da diventare puro e sublime magnetismo. Del resto è della stessa sostanza dei sogni che si parla, quella che ogni uomo vive per circa un terzo della propria vita, quella che da sempre compone il Falcone Maltese del cinema: l’unica reale possibilità di catarsi, o per lo meno di aver finalmente compreso e metabolizzato nuove parti di se stessi, sta proprio nel desertico ripercorrere da soli l’oscenità dei propri eccessi e delle proprie incubali percezioni. Ed è qui che Siberia di rivela straordinariamente potente e prezioso. Proprio perché necessariamente “brutto”, slabbrato, delirante, morboso, sbalestrato, tormentato, primordiale, esacerbato, problematico, e quindi così sincero, genuino, intimamente doloroso. Autoriale fino in fondo, senza compromessi né limiti, in un mondo cinematografico sempre più asfittico e standard. Un film prendere-o-lasciare, con il quale Ferrara condivide i propri sogni più angosciati e le proprie paure di inverno e di inferno, mediamente accolto con ingenerosa freddezza, quando non addirittura con aperti e immeritati sberleffi, dalla stampa accreditata alla 70ma Berlinale dove è stato presentato nel concorso principale. Eppure c’è tutto Ferrara, dentro. Ci sono le sue vette e le sue cadute nell’abisso, c’è Dafoe alter ego di sempre più perfetta corrispondenza e ci sono la moglie e la figlia Anna, ci sono le sue voglie e i suoi interessi, ci sono i suoi sogni e la sua alternanza fra stile e non-stile. C’è il suo fare ciò che gli pare per definire fino in fondo se stesso attraverso il suo cinema, senza edulcorazioni né pensiero alcuno alle logiche di mercato.

Se nello strascicato anglo-italiano di Tommaso Willem Dafoe era il protagonista incompreso, incapace di comunicare e di farsi realmente capire per le strade di Roma, il suo Clint di Siberia si muove all’opposto una babele di lingue (l’inglese, l’inuit, il russo) alle quali nemmeno servono sottotitoli per capire quale sia la bottiglia da cui riempire il bicchiere del viandante che entra nella sua isolata baita di montagna. Forse perché la dialettica è oramai inutile in un percorso che è puramente interiore e metafisico, o forse perché le figure spettrali incontrate prima nel rifugio e poi lungo il suo cammino nemmeno esistono, ma sono solo proiezioni, richiami, sogni, puro cinema. Uomini e animali che lo stesso Clint di Dafoe spesso osserva di quinta, quasi come se fosse uno spettatore dinanzi allo schermo della sua stessa immaginazione e della sua coscienza, pienamente consapevole dell’irrealtà metaforica delle sue interazioni. Hanno sempre vissuto e atteso in profondità dentro di lui, le sue (non) avventure (non) western e i suoi incontri con i genitori o con le donne avute e desiderate nel corso della vita. Sono sempre stati lì quei luoghi mai miti, da qualche parte nel suo subconscio, sempre desertici ed esacerbati nel gelo assoluto e nel caldo più torrido. Come malesseri archiviati e mai del tutto affrontati, come appetiti da sempre inespressi sul loro limitare del timore (il sesso, ma anche la paternità che potrebbe tranquillamente essere assieme desiderio, terrore e rimpianto) che evolvono in ricordo e trauma, come fantasmi pronti a ripresentarsi nella solitudine. Come un attacco di panico che annienta ogni razionalità mentre non sta succedendo nulla. Come un improvviso senso di colpa pronto a cogliere in una baita di montagna come nel deserto, in una grotta come in un giardino che pare incantato e che invece atterrisce, in un campo di sterminio abbandonato come alle porte dell’inferno. Frammentando l’uomo nei mille se stesso che corrono, si sovrappongono e magari si scontrano avanti e indietro per lo spazio, per il tempo e per l’acidità epatica della sua memoria egoista, riportandolo fra isteria e catarsi a ciò che credeva di aver dimenticato. Fino a scoprire, magari dalle impossibili parole di un pesce appena grigliato e mangiato, che l’apparente pace simbiotica faticosamente raggiunta con la natura probabilmente nient’altro era che il nuovo inizio di un altro incubo senza fine. Un brutto sogno condiviso in tutti i suoi repentini cambi di genere, in tutte le sue associazioni di idee, in tutte le sue incoerenze, in tutte le sue cadute, in tutte le sue abiezioni, ed è bellissimo essere ammessi per almeno un’ora e mezza al suo scorrere.

Marco Romagna

“Siberia” (2020)
92 min | Drama | Italy / Germany / Mexico
Regista Abel Ferrara
Sceneggiatori Abel Ferrara, Christ Zois
Attori principali Willem Dafoe, Dounia Sichov, Simon McBurney, Cristina Chiriac
IMDb Rating N/A

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