16 Febbraio 2024 -

LA COCINA (2024)
di Alonso Ruizpalacios

«Raccontaci un tuo sogno», si chiedono fra loro i tanti lavoratori invisibili della brigata protagonista corale de La Cocina nell’unico momento di pausa e (più o meno) serenità, ma non di gioco in un ambiente che ha bisogno di scherzare e di divertirsi per alleggerire lo stress, fra i due turni di servizio dell’ennesima giornata massacrante interamente passata fra la sala e, appunto, la cucina in cui il loro sogno principale, quello di una nuova vita legalmente riconosciuta negli Stati Uniti e non più da clandestini sfruttati con la promessa forse solo lontana o forse proprio falsa di un documento, lo condividono giorno dopo giorno. Un mediocre ristorante acchiappaturisti che il regista messicano Alonso Ruizpalacios, ispirandosi molto liberamente alla piéce teatrale The Kitchen di Arnold Wesker già portata sullo schermo nel 1961 da James Hill, re-immagina da zero oggi e a Times Square, nel cuore di Manhattan, facendone la location principale del suo quarto lungometraggio e primo (sostanziale, per ambientazione, lingua principale e co-produzione) approdo negli Stati Uniti in cui non è assolutamente un caso che i rapporti umani fra i molti protagonisti si intreccino questa volta con la realtà contemporanea dei flussi migratori e della difficoltà di essere regolarizzati, ma anche con le sacrosante rivendicazioni femministe sull’esclusiva discrezione sul proprio corpo, con i rapporti uomo-donna fra cuochi quasi esclusivamente maschi (di cui almeno un guardone) e cameriere esclusivamente femmine, con i vari livelli di un razzismo che arriva dall’esterno ma che serpeggia pure interno alle singole minoranze etniche che condividono i fornelli, con i dilemmi morali (o meno) sull’aborto, con i costi esorbitanti della sanità made in USA, con la disperazione quotidiana del sottoproletariato. Una vera e propria abbuffata, tanto per rimanere in termini culinari o per lo meno nutritivi, di (fin troppe, va detto, così come probabilmente è un po’ eccessivo il minutaggio di 139’ che le tesse insieme) tematiche attualissime e brucianti, che Ruizpalacios utilizza come pennellate sull’affresco del retrobottega del ristorante senza riuscire (ma forse senza nemmeno volerlo fare) a maneggiarle fino ad arrivare proprio sempre a una conclusione, ma sapendo far emergere dal loro programmatico caos uno spaccato sociale netto e chiarissimo, perfettamente conscio della spiccata vis politica che si nasconde (nemmeno troppo) fra le pieghe di una regia che sarà forse alla lunga anche un po’ fredda nella sua ricerca estetica, così maniacale da lambire pericolosamente in più occasioni il puro esercizio di stile, ma che è senza dubbio affascinante nelle sue grandi ambizioni e nella spiccata personalità del suo sguardo.

Del resto è forse proprio il continuo convivere di (necessario) ordine e (inevitabile) caos, il motore principale de La Cocina, rigorosissimo nel suo bianco e nero 4/3 che solo nei brevi momenti fuori dalla soffocante cucina potrà allargare i suoi orizzonti fino all’1.85:1 e che solo con un paio di viraggi al blu e al verde aprirà parzialmente al colore, ma al contempo indistinto e disorientante nei due momenti di massima concitazione in cui lo shutter della macchina da presa rallenta e fa singhiozzare la fluidità dell’immagine. Da una parte la necessità di preparare a dovere la cucina e di tenere perfettamente organizzato e a portata di mano tutto ciò che servirà per i rush da centinaia di ordini del pranzo e della cena, e dall’altra la babele di lingue (inglese e spagnolo, ma anche arabo e francese) e di nazionalità (personaggi e attori statunitensi, messicani, colombiani, marocchini, albanesi…) che si alternano, si sovrappongono e magari (scherzosamente o meno) si insultano, o cantano insieme allo chef, o magari si amano da prospettive e a velocità non sempre necessariamente coincidenti. Da una parte il sogno di tornare visibili in una nuova vita con una nuova cittadinanza e un nuovo passaporto proprio di quel Paese che erge muri pur di bloccare l’accesso ai messicani, e dall’altra la completa incertezza di chissà quanti (altri) anni da clandestini, chiusi in una cucina a impanare petti di pollo e a grigliare migliaia di hamburger in attesa che qualcuno si decida a sbloccare le pratiche per farli ridiventare esseri umani legali. Da una parte l’attesa di quel figlio che darebbe finalmente un senso alla vita di un futuro padre, e dall’altra l’aborto che è l’unico modo per non toglierlo a quella della madre. Elementi messi in scena fra qualche ipertrofia e non poche intuizioni linguistiche brillanti (la famiglia a casa “visualizzata” attraverso la cornetta del telefono in una semi-chiusura a iride, il già citato viraggio a blu e nero nella cella frigorifera, la lenta discesa delle aragoste vive nell’acquario che adorna la sala, e in generale l’ottima gestione di più d’un pianosequenza che rimane negli occhi), con cui Ruizpalacios, dopo l’ottimo Museo e l’interessante A cop movie, giunge per la terza volta consecutiva in concorso alla Berlinale. Portando un lavoro costantemente sospeso fra la commedia e il (melo)dramma ma capace anche di strizzare l’occhio alla pressione del thriller psicologico (la velocità e l’efficienza richieste quando si sommano gli ordini, ma soprattutto le modalità ricattatorie degli interrogatori agli impiegati per estorcere una mezza o addirittura falsa confessione quando non si trova più l’incasso della giornata precedente, non a caso messi in scena carrellando avanti e indietro verso il labirinto mobile in CGI videoludica che fa da screensaver al pc del direttore), al musical e perfino all’erotismo, fra la battuta fulminante e l’incubo, fra Roma (citato espressamente non solo nell’impostazione generale, ma anche esplicitamente con il riflesso sul pavimento bagnato da lavare) e La Passion de Dodin Bouffant, fra Ida (per lo meno per l’aria lasciata in alto in parte delle inquadrature) e Pane e cioccolata, fra L’Événement (seppur legale) e Masterchef, fino a quel prefinale di totale iconoclastia culinaria che blocca la catena produttiva e che ricorda per molti versi Gassman e Tognazzi nell’Hostaria! de I nuovi mostri.

Il resto è un film di inseguimenti in interno e depistaggi, che parte con l’arrivo in città e in cucina della giovanissima Estrela (Anna Díaz) appena giunta clandestinamente a New York per poi svelare i due (co-)protagonisti principali Julia e Pedro (Rooney Mara e Raúl Briones, nei ruoli di una cameriera statunitense e di un cuoco messicano “invisibile”) solo dopo mezz’ora, per ultimi, quando la brigata di cucina e la squadra delle cameriere sono già arrivati al completo a presentarsi alla nuova arrivata, e la cui detection si baserà invece sul nulla, su un errore senza delitto, come un puro MacGuffin con il quale ragionare sul sospetto e sulla minaccia, sul razzismo e su un intero sistema di storture e coercizioni. Un film, come anticipato, fatto di forsennato multilinguismo, in cui è proprio nei continui switch, nelle continue traduzioni e nelle difficoltà a capirsi che si simboleggia il percorso emotivo di chi non può più nemmeno «piangere in spagnolo», ma deve farlo in inglese, sempre intento a fare un ulteriore passo verso New York senza che New York sembri mostrare la minima intenzione di farlo verso di lui. Certo, come si diceva non proprio tutto fila alla perfezione, non manca qualche lungaggine e ripetizione, qua e là lo stile non è esente da qualche autocompiacimento di troppo, e il finale lascia forse il retrogusto di un qualcosa di rimasto intentato. Eppure, per quanto meno entusiasti che di fronte ai lavori precedenti di Ruizpalacios, viene istintivo ritrovarsi a difendere La Cocina, anche se realmente fosse un passo un po’ più lungo dell’effettiva gamba. Per le sue alte aspirazioni, per la sua capacità di mescolare registri differenti, per quel momento irresistibilmente spassoso in cui si rompe un erogatore ma il lavoro deve continuare anche in una cucina letteralmente inondata di Cherry Cola, per la passione dolorosissima del rapporto (im)possibile fra i due innamorati. Per la capacità di immaginare e mettere in scena dinamiche umane credibili e paradigmatiche, di prevaricazioni/rivendicazioni fra i sessi e di differenti migrazioni, di ipocrisia di un qualsivoglia potere (fosse anche solo millantato, di una semplice piccola imprenditoria mossa non di certo da spirito umanitario) e di gocce che fanno (letteralmente) traboccare il vaso. Rimangono i sogni, certo, da raccontarsi insieme creando una piccola comunità nella quale conoscersi meglio, capirsi nell’intimo, e insieme tirare avanti fra uno scherzo e una battuta, fra una pacca sulle spalle e un altro bacio nel corridoio, fino a stringersi in difesa di chi per un momento perde la testa. Ma pure ai sogni può bastare pochissimo per virare in incubo, per togliere ulteriore aria anziché restituirla, e magari per dissolversi in uno scatto di nervi e nella disillusione. Mentre quella maledetta stampante, che poi nient’altro è che il capitalismo più feroce, continua imperterrita a sputare i suoi ordini anche da morta, senza guardare in faccia nessuno.

Marco Romagna

“La Cocina” (2024)
139 min | Drama | Mexico / United States
Regista Alonso Ruizpalacios
Sceneggiatori Alonso Ruizpalacios, Arnold Wesker
Attori principali Rooney Mara, Oded Fehr, John Pyper-Ferguson
IMDb Rating N/A

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