17 Agosto 2019 -

IL VIAGGIO DEL PRINCIPE (2019)
di Jean-François Laguionie e Xavier Picard

Sono passati esattamente vent’anni da quelle Scimmie come noi del titolo italiano di Le château des singes, con cui Jean-François Laguionie aveva innestato in due comunità confinanti di scimmie antropomorfe tutta l’umanissima necessità di superare le credenze e i pregiudizi per fondare insieme una tribù nuova, unita nella tolleranza, nell’intelligenza, nella cultura e nella tecnologia. Vent’anni dopo i quali, forse spinto dalla necessità di opporsi ai venti destrorsi e xenofobi che hanno ricominciato a soffiare in Francia e più o meno ovunque nel mondo, l’animatore transalpino ha sentito la necessità di riprendere in mano la matita e le chine per tornare – questa volta in co-regia con il collega Xavier Picard – a quello stesso universo e a quello stesso immaginario, e soprattutto a quello stesso nobile afflato, per molti versi miyazakiano, che porta sullo schermo e nella fantasia degli animali eretti e parlanti, oltre a un’identica passione per il volo, l’antirazzismo, l’anticapitalismo e l’ecologismo. Senza più bisogno delle tecniche miste fra tradizione e computer di Le tableau, e senza più bisogno della magnifica carta pesante e granulosa che ospitava le esistenziali pennellate ad acquerello di Louise en hiver, giunti nel frattempo in questi anni a ragionare sulle classi sociali e sulla senilità. A Le Voyage du Prince basta e avanza l’animazione più tradizionale, quella fatta di tempo e di pazienza, quella fatta di lucidi disegnati e colorati a mano sugli sfondi precedentemente dipinti, quella fatta di un character design ben definito e di ricchezza di dettagli, di smisurate profondità di campo e di contrasti netti fra i cromatismi uniformi, fra il calore dorato e rosato dei ricordi e la freddezza asettica del presente, fra i grigi seppiati della città e gli accoglienti verdi della foresta, fra il viola del veleno e il rosso deformante dell’incubo, passando magari per il bianco e nero con pianista del cinema muto dove proiettano la versione ribaltata per primati di King Kong. Proprio come, nel nuovo capitolo di ulteriore stratificazione con cui Laguionie rientra in quel mondo scimmiesco lasciato nel 1999 a ripeterne le dinamiche (umane), si sono ribaltati i ruoli.
Vent’anni fa era stato il giovanissimo Kom a cadere dalla sua tribù Woonkos stanziata in cima agli alberi, intelligente ma ancora incolta e superstiziosa nei confronti di quella residente a terra guardata con paura e sospetto, proprio in quella temuta culla di civiltà Lankoo che si stava sviluppando ai piedi delle piante nello studio e nei libri, nella capacità di ergersi bipedi e nella progressiva consapevolezza fino ai mezzi per volare, per entrare a farne parte, compenetrarsi e vicendevolmente arricchirsi. In Le Voyage du Prince, quasi all’opposto, è l’ormai anziano Principe dei Lankoo, miracolosamente sopravvissuto alla tragica traversata del mare ghiacciato in cui ha perso la vita tutto il suo equipaggio, a essere trovato ferito e malandato da Tom, giovane figlio di quella grande città di palazzoni e tranvie strappata alle piante e pronta a studiare veleni per impedire loro di riprendersi il proprio spazio, schiacciata fra la spersonalizzante produzione in serie da rivendere a chi ci ha lavorato e la silente complicità di quella comunità scientifica che anni prima aveva estromesso chi aveva osato sostenere che potessero esserci nel mondo altre «Simia Sapiens», e ora, dai più ridicoli test di intelligenza allo studio – tramite Tom che da sempre parla con gli uccelli – di una lingua con cui comprendersi, ne ha una straniera nel proprio laboratorio, nel proprio museo abbandonato, nella propria casa. Fino a capire l’assurdità dello “studiare” un proprio simile, e a lasciare piuttosto emergere l’emotività.

Il Principe di quella che in Le château des singes era la civiltà avanzata giunge quindi adesso in una civiltà ancor più avanzata, o per lo meno molto più metropolitana, che finirà, con la sua Accademia delle Scienze razzista, incoerente, spersonalizzata, corrotta dalle ragioni del Capitale e troppo impegnata ad autoconvincersi della sua presunta superiorità per aprirsi allo scambio, per abbarbicarsi nella sua convinzione che non possa esistere altra forma oltre a se stessi, per guardarlo rabbiosamente come primitivo, per studiarlo come un (più) animale (fra gli animali), e infine per rinchiuderlo come esemplare di «Simia Erectus» nelle gabbie dello zoo ed esporlo, per la sua sola “colpa” di venire da lontano, sulla pubblica piazza come un “diverso”. Ignari della sua cultura, ignari della sua umanità, ignari della sua leonardesca tecnologia aeronautica e proprio per questo ignari della sua ovvia fuga, ma semplicemente arroganti nella loro convinzione di essere il centro del mondo, spaventati dallo straniero, animali anche al di là del loro aspetto scimmiesco, ma nel modo di pensare, nei costumi, nell’ipocrisia di chi non aspetta altro che calino le tenebre per – come nella magnifica pennellata à la Tim Burton che squarcia nell’onirico «Parco Giochi della Paura» la sortita segreta del Principe e Tom in città – svestire la (non) maschera della falsa e puritana cortesia e indossare quella che svela la propria reale natura. È la sua voce che, da fuori campo, guida a metà strada fra il diario e la lettera di eterno ringraziamento a Tom lo spettatore nel resoconto del suo viaggio di incomunicabilità e avventure, tracciando le coordinate politiche, emotive ed esistenziali di un film che testimonia, una volta di più, lo straordinario stato di salute dell’industria animata francese – questa volta in co-produzione con il quasi insospettabile Lussemburgo.
Presentato fuori concorso al 72mo Locarno Film Festival pochi mesi dopo l’uscita in sala in Francia, Le Voyage du Prince è un viaggio politico e filosofico, ambientato in un’imprecisata Belle Epoque di pionieristici mezzi a rotaia e di bobine mute che girano al cinematografo, in cui l’industrializzazione e il capitalismo più selvaggi hanno ormai fagocitato le vite, gli uomini (scimmia, va da sé) e i luoghi. A nulla sembrano valere i tentativi dei rami di cercare di riportare un po’ di verde nell’avanzare dei palazzoni, delle fabbriche e dei centri commerciali, mentre sprazzi di scimmiesca umanità squarciano il velo del freddo e animalesco calcolo. La (mala)civiltà e la natura si contrappongono come modelli esistenziali e di società, come modelli di pensiero e di azione. Senza che ci sia una parte del tutto “giusta” e una parte del tutto “sbagliata”, ma cercando al contrario l’incontro/scontro, il continuo scambio dentro e fuori da quella piccola sacca di resistenza scientifica “non ufficiale” nella sordità altrui, la ricchezza della diversità fra il Principe straniero e il piccolo Tom, fra gli studi dell’antro(simio)pologo e quelli della ricercatrice botanica costretta a «salvare la città» avvelenando lentamente quelle piante che tanto amava per fermarne la ricrescita. Fra chi produce e chi ama l’arte, fra chi consuma e chi si autodifende nell’illusione di essere il solo, fra chi crepa e chi preferisce costruire le ali, spiegarle e volare. Fra l’incomunicabilità e l’avventura, fra l’evoluzione e la tenerezza, fra il laboratorio e il museo, fra l’Accademia di Scienze e la foresta, fra la città che si illumina e le traiettorie degli aironi. Salendo fino in cima agli alberi, aiutati dalla natura fino alla simbiosi, fino a trovare la stessa libertà degli uccelli, e come loro poter raggiungere il cielo e spiccare il volo.

Marco Romagna

“Le voyage du prince” (2019)
Animation | Luxembourg / France
Regista Jean-François Laguionie
Sceneggiatori Jean-François Laguionie, Anik Leray
Attori principali N/A
IMDb Rating 7.0

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