1 Maggio 2017 -

LA TENEREZZA (2017)
di Gianni Amelio

La tenerezza di Gianni Amelio è un film che scava a fondo, che guarda in faccia il dolore dell’assenza, tanto più straziante quanto senza voce e, al suo estremo limite paradossale, senza dolore. Nella separazione dall’altro nessuno sembra provare un vero dolore, o se c’è, è sceso proprio al fondo di se stessi, si è ispessito, si è fatto roccioso, innervando relazioni che col tempo si sono adattate all’assenza di empatia. La tenerezza, invocata dal titolo quasi come un monito umanistico, non c’è, non c’è più, e forse mai c’è stata. L’anziano avvocato Lorenzo e tutti i personaggi che gli gravitano intorno non la conoscono e non la cercano nemmeno più di tanto. Semmai ne incrociano una possibilità sostanzialmente casuale nell’incontro con l’altro, coi vicini di casa venuti da lontano a vivere a Napoli. Tentativi di rapporti umani nati da una terrazza condivisa, nessun vincolo di sangue, ma solo un’immediata consonanza elettiva, fondata più o meno sul nulla, perché di fatto non vi è molto di familiare tra Lorenzo e Michela, la giovane e sorridente nuova dirimpettaia. Chi forse continua a percepire in modo più stringente il dolore, presente e passato (anzi presente provocato dal passato), è Elena, la figlia di Lorenzo che pur conservando una superficie di asprezza nei confronti del padre ogni tanto continua ad avvertire il tormento della distanza affettiva, a interrogarsi sulle cause di una condizione così arida nei legami affettivi della sua famiglia.

La tenerezza è un bel ritorno di Gianni Amelio a 4 anni dalla prova infelice de L’intrepido. Riscoprendo il passo narrativo delle sue opere migliori, Amelio non si mette fretta, si affida a una narrazione lenta e meditata, lascia il tempo ai suoi personaggi (anzi al suo magnifico personaggio centrale) di svelarsi a poco a poco. Nessuna smania di imbastire un intreccio stringente, bensì il desiderio di indagare gli ineffabili spazi dei rapporti umani, del loro manifestarsi stentato eppure improvviso. Di dare voce a un’impossibile radiografia sul senso di colpa, l’espiazione, il desiderio di riscatto. Benché nel passato del protagonista vi risieda una corposa materia melodrammatica, essa è svelata per piccoli tratti, casuali, inessenziali al racconto, depotenziati perché sostanzialmente impossibili da elaborare. Il passato resta tale, e pure i tentativi per riscattarlo sono per lo più fallimentari. E’ troppo tardi per tutto, per chiedere perdono, parlare, capirsi. Non rimane che restarsi vicini, in silenzio, comunicando tramite l’unico strumento umano che non ha bisogno di parole né di elaborazioni: il calore, anche soltanto sedendo vicini sulla stessa panchina. Nella Napoli di oggi l’anziano ex-avvocato Lorenzo, vero protagonista del film incarnato da uno splendido Renato Carpentieri, non è mai stato uno stinco di santo: non è amato dai due figli adulti che non lo sopportano più anche con qualche buona ragione, ha vissuto lavorando con metodi poco onesti e confessa serenamente di non aver mai amato la moglie, morta da qualche anno. Ha pure avuto un’amante alla quale, a suo tempo, aveva promesso di stare con lei. Una coppia di vicini, venuta dal Nord a vivere nel suo palazzo, risveglia la sua curiosità, ravvivata soprattutto dalla giovane Michela, madre e moglie svagata ed entusiasta. Ma una delle chiavi di lettura più intriganti risiede nel lavoro svolto dalla figlia di Lorenzo, Elena, che fa l’interprete giudiziaria e si occupa per lo più di tradurre le deposizioni di imputati di varia nazionalità araba.

Nel bell’incipit del film Elena dichiara di non credere alle storie melodrammatiche che gli imputati raccontano in aula, e poco dopo, in visita in ospedale da suo padre che ha avuto un attacco di cuore, ammette che nelle sue traduzioni manca quel che invece ricoprirebbe un ruolo sostanziale: bisognerebbe tradurre i pensieri degli imputati, i loro stati d’animo, quello che provano. Vi è una frattura universale, insita nell’essere umano, che è la lettura dell’altro, vagamente possibile solo tramite lo strumento dell’empatia. Non tutti ne sono dotati, e in La tenerezza anzi una buona parte dei personaggi ci hanno perso familiarità. Lorenzo è cinico e indurito; Fabio, marito e padre della nuova famiglia dirimpettaia, è del tutto incapace di costruire rapporti umani, e anzi vive l’altro come una minaccia. Michela ci prova, Elena ci soffre. Al fondo quel che viene a legare tutte le figure umane giovani narrate intorno a Lorenzo è un passato d’infanzia negata, alla quale Amelio si cura con ammirevole pudore di non dare un vero e proprio corpo narrativo. Il passato c’è, ma non è elaborabile, al punto da non poterlo nemmeno verbalizzare in modo sicuro e univoco. Si possono solo addurre ipotesi, fare supposizioni, cercare di leggere l’altro nelle loro impensabili azioni; è la sostanza di uno dei momenti più intensi, l’incontro tra Lorenzo e la madre di Fabio (una rediviva Greta Scacchi) intenta a cercare tracce nell’infanzia di Fabio che possano dare un senso alla tragedia del presente. Lo stesso farà in prefinale Elena, in cerca di risposte presso l’antica amante di suo padre. Ma il passato resta là, indecifrabile nei suoi avvenimenti poiché indecifrabili restano i suoi attori.

Sul filo di un opprimente senso d’impotenza, Amelio evoca la tragedia insita nell’interpretazione, strumento razionale che La tenerezza dimostra pressoché inapplicabile a un oggetto tanto magmatico e contraddittorio come l’essere umano. La tenerezza è di fatto la protagonista assente del film. Chi tenta di recuperarla, magari maneggiando un camioncino dei pompieri come ricordo d’infanzia, spalanca abissi dentro di sé. Chi tenta di riscattare un’intera esistenza con un ultimo afflato senile di umanità per una sconosciuta è destinato al fallimento. Si può essere teneri e affettuosi con i bambini, ma in fin dei conti è anche il compito più facile, e anzi sono i bambini a diventare strumenti forzati per sentirsi meno soli (di fatto Lorenzo costringe suo nipote a bigiare la scuola per colmare il proprio vuoto, con atto quindi egoistico e non certo puramente affettuoso). La tenerezza è dunque un film aspro, a suo modo pure brutale, che almeno fino a tre quarti non lascia grandi spiragli alla fiducia e alla speranza. Tutto suona fuori tempo massimo, nessuno sembra potersi salvare men che meno in età avanzata, quando si pensa di poter espiare se stessi tramite un ultimo atto da piccolo eroe insensato. Per buona parte Amelio sembra comporre un giallo allentato in cui l’oggetto misterioso è l’anima dell’altro, una sfida votata allo scacco poiché le ragioni profonde dell’individuo restano sostanzialmente inaccessibili. Bisognerebbe tradurre i pensieri, gli stati d’animo, ma fin là forse nemmeno il soggetto stesso è capace di arrivare. Solo in prefinale, quando Lorenzo ricompare in tribunale, Elena sembra ricomporre un’esatta lettura, perché si lascia libera di leggere se stessa. Il finale, che sembra il più scontato e prevedibile, è in realtà l’unico possibile. Ci si può riavvicinare, certo, ma tacendo, e lasciando sentire al nostro vicino il calore del proprio corpo, il proprio respiro. Magari anche comunicandosi il passato, assolvendolo, ma senza il filtro razionale e falsificante della parola. Accettare l’altro, con tutto il suo fardello e senza chiederne spiegazioni. Forse l’unica via per accettare e accogliere davvero.

Nel suo complesso La tenerezza alterna momenti altissimi, memori del migliore Amelio (l’apparizione di Greta Scacchi in ospedale ricorda l’asprezza dell’insostenibile monologo in primo piano di Charlotte Rampling in Le chiavi di casa, 2004) a qualche dissonanza nella direzione degli attori, non tutti sempre intonati. Non si capisce la necessità di convocare Elio Germano per un ruolo con accento triestino confinato sì e no a quattro apparizioni sullo schermo, se non quella di riempire il cartellone (e gli si riserva addirittura il primo nome nei credits). D’altro canto, sempre nel comparto-giovani Micaela Ramazzotti somiglia come al solito un po’ troppo a se stessa, mentre Giovanna Mezzogiorno mette stavolta la sordina cercando l’intensità della voce bassa e profonda con qualche eccesso di compiacimento. In sostanza il film si regge tutto intero su Renato Carpentieri, al quale Amelio regala un personaggio di rara intensità e intelligenza. Finché sta lui in scena, gira tutto a meraviglia, sostenuto da un ottimo lavoro di sceneggiatura. E siam felici di ritrovare un Gianni Amelio così fiero e gagliardo, che parla pure del nostro presente senza evidenze o didascalismi. L’essere umano rischia di andare alla deriva verso un egotistico individualismo. C’è quindi urgenza di tenerezza. Buon per chi riesce a ritrovarla.

Massimiliano Schiavoni

“La tentazione di essere felice” (2016)
Drama | Italy
Regista Gianni Amelio
Sceneggiatori Lorenzo Marone (novel), Gianni Amelio (screenplay), Alberto Taraglio (adaptation), Alberto Taraglio (screenplay)
Attori principali Greta Scacchi, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Elio Germano
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

LA PARANZA DEI BAMBINI (2019), di Claudio Giovannesi di Marco Romagna
CUORI PURI (2017), di Roberto De Paolis di Marco Romagna
RIDE (2018), di Valerio Mastandrea di Marco Romagna
FAVOLACCE (2020), di Fabio e Damiano D'Innocenzo di Brunella De Cola
GHOST STORIES (2017), di Jeremy Dyson e Andy Nyman di Riccardo Copreni
ESTERNO NOTTE (2022), di Marco Bellocchio di Marco Romagna