12 Marzo 2017 -

LA SOLITUDINE MAGNIFICA (2016)
di Sharif Meghdoud

Con I racconti dell’orso (2015) e Guida al (LENTO/VIOLENTO) lavoro (2016) ci siamo trovati di fronte all’arduo compito di scrivere di film di amici, e con La solitudine magnifica la situazione, forse, si complica anche di più: perché è un film di un autore ancora più giovane e con meno esperienza (e che conosciamo, in media, di meno), perché nella “cricca” della cinefilia il film è stato molto visto e apprezzato, perché i pregi e i difetti dell’operazione sono senza dubbio da discutere. O forse anche perché chi scrive appare, pur brevemente, nell’inquadratura finale del film, che ritrae una cena tra amici in una nota trattoria romana durante la Festa del Cinema di Roma 2016 che a sua volta occupa buona parte dell’ultima sezione di quest’opera seconda del suo regista — e non sono neanche l’unico della redazione di questo sito a fare una breve apparizione. Meghdoud è al suo secondo lungometraggio ed è da poco maggiorenne, e il suo esordio assoluto A Torinòi Sharif (visibile qui) pure presentava, per qualche minuto, brevi dialoghi con noi all’interno di scene di cazzeggio cinematografico prima e dopo proiezioni di Tarkovskij al Cinema Massimo di Torino. È difficile capire quanto fosse ironico questo suo primo lungometraggio, sin dal titolo che è nel contempo parodia e tributo all’ultimo film di Béla Tarr e sin dalla schermata iniziale che recita “visione sconsigliata ad un pubblico dalla mentalità chiusa” – se sia una provocazione o un divertissement, o ancora una vera e propria convinzione. In ogni caso, Meghdoud era anche più giovane di ora, e il fatto di essere riuscito a comporre un film così lungo, coerente, divertente e ben costruito nonostante questa giovane età, riuscendo a delineare storie nel nulla, è probabilmente da premiare, anche perché il film, pur non essendo particolarmente innovativo, è dolce, intimo, sincero, vero, e soprattutto è un esperimento con uno scopo ben preciso: trovare una poesia nella Torino degli occhi di Sharif, trovare un senso nella sua quotidianità attraverso il cinema o attraverso il montaggio. E Torino è un personaggio, sia in A Torinòi Sharif sia in La solitudine magnifica, né più né meno di quanto lo può essere Sharif stesso, che si guarda attorno e diventa macchina da presa umana dipingendo una generazione, un paesaggio, una passione. Niente di trascendentale, anzi, il risultato è profondamente terreno e realistico, ma si riesce davvero a percepire una specie di amore nostalgico in mezzo alla necessaria e inevitabile alienazione di fronte ad un prodotto del genere.

All’epoca della sua pubblicazione su YouTube, abbiamo deciso di non recensire A Torinòi Sharif perché, appunto, era un “film di un amico” – ed era comunque difficile dare un giudizio a tutto tondo su un’opera così, al contempo acerba nella forma ma (già) matura nell’intimo di Meghdoud. La solitudine magnifica, invece, necessita di uno spazio qui su CineLapsus, se non altro perché il film è stato proiettato in prima assoluta al Cinema Massimo di Torino in occasione della Panoramica Doc del gLocal Film Festival, quest’anno alla sua terza edizione. Sharif è il regista in gara più giovane, e anche solo per questo non possiamo che essere fieri di lui; ma forse una ragione di fierezza più grande risiede proprio nel luogo nel quale il film è stato proiettato, il meraviglioso Cinema Massimo dove, anche con lui, abbiamo speso così tante lacrime ad esempio durante i vari TFF (come vedendo due volte Tag di Sion Sono, con seguenti abbracci di commozione). In mezzo a questi ovvi motivi d’orgoglio, ci sembra d’obbligo spendere qualche parola su La solitudine magnifica, cercando il più possibile di essere un minimo oggettivi nonostante l’inevitabile coinvolgimento personale.

Innanzitutto sono due le cose da notare: la prima è che il film elabora, con una lunghezza inferiore al lavoro precedente, i luoghi semantici mostrati da Meghdoud in maniera specifica solo nell’ultima parte di A Torinòi Sharif, ovvero la discussione sul cinema, sulla passione verso l’immagine, su quest’amore incondizionato verso lo schermo e sulle riflessioni che partono da esso; la seconda è un aspetto tecnico, ovvero il fatto che il film è interamente in bianco e nero, come per dare al tutto una specie di organica aura di romanticismo noir e nostalgico, proiettando la quotidianità sulla vita da Festival e sugli incontri amichevoli attraverso la lente di un dolce e triste “carpe diem” fuori dal tempo. La solitudine magnifica si struttura in più capitoli, ma l’esperienza come totale è meglio riassumibile attraverso i due luoghi geografici che esplora e le due occasioni temporali ad essi legate: Torino, ovvero la città di Sharif, che ospita un incontro ampio e amichevole di gruppo riunito per un incontro tra il grande Gus Van Sant e il pubblico italiano; e poi Roma, teatrino di discussioni sul cinema per la Festa del Cinema edizione 2016. E, urge esplicitarlo, non ci sembra necessario prendere posizione per quanto riguarda questi vari dialoghi, che essendo casuali e veri non sono responsabilità del regista – insomma, le implicazioni etiche/contenutistiche di certe affermazioni necessiterebbero una parentesi a parte, ma probabilmente non ci concerne. Ci sono una serie di volti che noi riconosciamo facilmente, tra facce viste di sfuggita e persone che invece enumeriamo tra i nostri amici più cari: prima di tutto c’è Fabrizio Ciavoni, che riempie sempre lo schermo con la propria esuberanza, in particolare quando cerca di fare uno scherzo a Sharif pianificando di inquadrarsi mentre va in bagno, ma spostando goffamente il treppiede in continuazione fino a quando non viene clamorosamente “sgamato”; poi c’è Dutto, come sempre goliardico ma emozionato perché deve intervistare Gus Van Sant, e c’è Gabri, che suona e canta Creep dei Radiohead all’ukulele insieme a Sharif in maniera impacciata e tenera; ci sono Luca e Bruce che si divertono in discoteca, c’è casa di Arcatteo che diventa luogo di ritrovo collettivo, c’è Mirko che suona la tastiera e c’è Romilda che viene oscurata da Fabrizio che balla e urla; ci sono Dubi e Quagliozzi, Ago e Mattia, Luciano e Bertoncini, Bosco e la famiglia di Fabrizio, Ema e Giacomiti, e poi, per rendere il tutto un po’ più pop, ovviamente Gus Van Sant ma anche un delirante Jovanotti. Ci sono luoghi che riconosciamo, battute a cui non riusciamo a non ridere, e un flusso costante di situazioni in cui sembra di essere lì, di nuovo o per la prima volta, a esperire questa testimonianza di questi momenti, ancora vivi grazie a Sharif.

Ma non può che fuoriuscire un sospetto, a cui è difficile rispondere: la sensibilità mostrata da Meghdoud nel lasciarci entrare nel suo sguardo e nel farci ricordare le personalità dei suoi personaggi (reali) è una sensibilità che riusciamo a percepire solo noi perché conosciamo quello di cui parla e le persone che inquadra? Facendo più o meno parte del suo mondo, capiamo che quando mostra i risultati di ore e ore di riprese e di montaggio lo fa non per girare a vuoto ma per definire uno spazio, un gruppo, un’identità collettiva; eppure, al di fuori dall’esperienza personale, La solitudine magnifica potrebbe risultare per molti sterile, non conoscendo i personaggi e le situazioni, non potendosi magari immedesimare in un determinato senso dell’umorismo o in una determinata ricerca di bellezza a tutto tondo. È quindi un film profondamente personale e accorato, quello di Sharif Meghdoud, un film da difendere a spada tratta, eppure gli elogi sperticati di chi si sente troppo vicino al film potrebbero essere pericolosi, soprattutto per il futuro di Sharif che si potrebbe ipoteticamente fare le idee sbagliate sui propri progetti (animati davvero da sincerità e passione) inserendo all’interno di essi una pretenziosità involontaria che, almeno noi, sappiamo non far parte del suo carattere naturale. In ogni caso, a parlare specificatamente di questa faccenda, non si può fare molto oltre a riferirsi a lui come persona e alla situazione per come l’abbiamo percepita, volendo bene a Sharif e avendo vissuto con lui momenti simili a quelli presenti nel film. E questo forse è un altro limite, perché conoscere il regista per capire meglio il film è una cosa, ma trovarsi costretti a discutere di lui come unica maniera per discutere del film è un altro paio di maniche, che toglie al film (troppa) parte della sua anima e della sua presenza, come se fosse solo un lascito di una personalità e non un reale sbocco per uno sguardo filmico. O forse no, ce lo dirà solo il futuro.

L’esperimento rimane tale, poco cambia rispetto a A Torinòi Sharif a livello di contenuto esplicito, nonostante un’evidente maturazione stilistica, riscontrabile sia nella durata più breve, sia nel succitato bianco e nero, sia nella natura monotematica del film, sia, soprattutto, nell’uso della musica, non più solo sottofondo pseudo-efficace per distorcere la realtà ma ormai soprattutto mezzo per identificare una determinata serie di immagini in un qualcosa di musicalmente preciso. Le luci lampeggianti della discoteca Astoria di Torino, invece che a ritmo di techno, appaiono a noi sotto le note della canzone che dà il titolo al film, “La solitudine magnifica” di Aida Satta Flores, cantante conosciuta da Sharif insieme a Gabriele in un’occasione unica, quasi miracolosa, in un incontro che è sicuramente tra i momenti più riusciti del film anche perché è il più casuale; ed è solo un esempio su vari, che tendenzialmente contorcono l’aspettativa dello spettatore e ricercano un qualcos’altro nello stesso sguardo, nella stessa visione della tecnologia, della luce, del buio, del cinema, della musica, della routine. Quindi, in conclusione, non ci rimane altro che augurare buona fortuna a Sharif per questo Festival e augurargli un ottimo futuro come regista, sperando che riesca a maturare sempre di più fino a riuscire a fare qualcosa di personale e coerente senza essere chiuso in sé stesso. Perché l’amore per le immagini c’è, lo sappiamo, e non vediamo l’ora di poterlo provare in maniera assoluta e senza più dubbi anche noi per le immagini prodotte direttamente dal suo obiettivo, dal suo sguardo, della sua Torino.

Nicola Settis

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