24 Maggio 2022 -

HOLY SPIDER (2022)
di Ali Abbasi

È una vera e propria «jihad contro il vizio», la motivazione del serial killer di Holy Spider. Un assassino di prostitute convinto di essere in missione per conto di Allah, come una sorta di giustiziere divino inviato per liberare la città dall’empietà e dalla corruzione morale delle professioniste del sesso. Eppure non è tanto nella storia vera di Saeed Hanei e delle sue sedici vittime uccise a cavallo fra il 2000 e il 2001 delle Twin Towers che si annidano i principali spunti di interesse dell’opera terza del regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, che quattro anni dopo la vittoria di Un Certain Regard 2018 con il precedente Border torna a Cannes nella vetrina del concorso principale numero 75. Semmai, Holy Spider sorprende per le piccole differenze e per suoi i punti di equilibrio, per la capacità di sfruttare la vicenda originale come occasione per allargare il discorso, senza mai cadere nella forzatura o nella retorica, alla situazione dell’intera porzione islamica del mondo, alla secolare misoginia in qualche modo intrinseca nella società anche quando non necessariamente integralista (basterebbe in tal senso la madre che dopo l’omicidio nega perfino di avere mai avuto una figlia, pur di non accettare la sua tossicopidendenza e la sua vita da marciapiede), ai veli con cui obbligatoriamente coprire i capelli e alla criminalizzazione ulteriore di chi è già stata vittima innocente di abusi sessuali e, anziché venire compresa e supportata, viene proprio per questo considerata ancora più inferiore. Una serie di piccoli scarti dalla realtà che partono con la scelta di Ali Abbasi di inserire il personaggio di completa finzione della giornalista Rahimi, che di fatto, un po’ come la Clarice Sterling de Il silenzio degli innocenti, condurrà l’indagine mentre agli uomini, compresi cronisti e poliziotti, non sembra poi importare più di tanto di qualche puttana brutalmente uccisa. Una pedina aggiuntiva fondamentale non tanto per il suo portare avanti il filone narrativo principale (da questo punto di vista, a ben vedere, Holy Spider è indubbiamente godibile e ben confezionato, ma anche apertamente derivativo e alla fin fine senza particolari guizzi che lo discostino più di tanto da uno dei tanti “normali” thriller hollywoodiani ai quali è evidente che Abbasi voglia guardare), quanto per le stratificazioni del suo continuo scontrarsi presente e passato con la società patriarcale, che emergono quasi implicite e mai eccessive nel suo lavoro perso in seguito alle ricattatorie proposte indecenti di un editore ancora al suo posto, nella successiva nomea da puttana per averlo denunciato, nella generale disapprovazione degli astanti ogni volta che osa accendersi una sigaretta, e poi perfino nell’agente di polizia che dovrebbe indagare sugli omicidi e che invece finirà per intimidirla a metà strada fra la minaccia e l’aperta molestia: il sesso che può permettersi soprusi contro quello costretto a subirli, i rapporti più ancestrali di dominanza e sottomissione che, per quanto la donna possa essere tenace ed emancipata e l’uomo un tutore della legge e dell’ordine nemmeno fra i più corrotti e malfidati, continuano indefesse a rinnovarsi nelle dinamiche del quotidiano rendendo impossibile ogni rapporto di fiducia.

Basterebbe forse la prima manciata di minuti, con l’anonima donna già piena di lividi che mette a letto quel figlio che non vedrà mai più promettendogli di tornare presto, con la Mashhad sulfurea e notturna in cui si trascina fra un cliente e una stagnola, con chi la scopa più forte possibile sperando di romperla e chi si rifiuta di pagarle la prestazione, con l’arrivo di quella moto e con quella casa in cui salire insieme, con quel foulard che le stringe la gola e con la brutale efferatezza della sua uccisione. Eppure non è in alcun modo il mistero, il punto di Abbasi. Tanto che, tolto giusto l’incipit, l’omicida avrà ben presto un volto e un’identità, una moglie e due figli, una folle motivazione e un’intera psicologia da analizzare fra i deliri di onnipotenza da predicatore e le crisi di nervi, fra l’eccitazione per l’omicidio (specialmente quando la moglie si sta concedendo all’amore e un piede esce per un attimo dal tappeto arrotolato) e la paura di essere scoperto, fra il suo apparente idillio familiare da padre premuroso e il disgusto nei confronti di vittime dalle quali nemmeno vuole essere sfiorato (altra intelligente variazione sul tema di Abbasi per rendere questo assassino cinematografico ancora più coerente e stratificato del vero Saeed Hanei, che invece nella realtà con le sue vittime parrebbe avere sempre fatto sesso di fatto contraddicendo la propria missione moralizzante). Fra l’ossessione con cui porta avanti la sua personale guerra al vizio e la totale assenza di sensi di colpa. Una volontaria rinuncia al whodunit non tanto perché di fatto inutile nella messa in scena, pur ricostruita in Giordania con co-produzione internazionale, di una storia vera e ben nota non solo in Iran, ma come vera e propria dichiarazione programmatica con cui annunciare sin da subito come Holy Spider voglia solo lambire il genere per porsi in realtà come film prettamente politico, nel quale più ancora della vita criminale di Saeed Hanei, la sua religiosità deviata o la sua psicologia in realtà molto più fragile di quanto il suo ruolo di serial killer imponga, il vero oggetto di indagine è per molti versi il suo sfondo, il contesto, il fuoricampo o per lo meno il suo limitare: quella realtà sociale immutabile e dai contorni horror – «Fumo 6 grammi di oppio alla settimana, come potrei mai chiamare la polizia» – che dopo vent’anni ancora non si è spostata di una virgola, e che anzi – come testimoniato dall’inquietante finale sui figli del pluriomicida che, dopo l’esecuzione, provano in casa a replicare le “gesta” del padre in attesa forse di crescere per reiterarle anche in strada e non per gioco – sembra in qualche modo condannata a non poter cambiare mai. Anche quando per una volta la giustizia (sempre che la pena di morte si possa davvero chiamare “giustizia”) ha fatto il suo corso, a finire impiccata è stata solo la parte più pericolosa e incalzante di un problema in realtà molto più grande e radicato, una mentalità misogina e retrograda fatta di emuli (a partire dal diciassettesimo omicidio attribuito a Hanei e unico mai confessato) e di movimenti di piazza per chiedere la liberazione dell’«eroico giustiziere», come un virus ereditato dai padri e già trasmesso ai figli, come un allarme mai sopito e sempre sempre in bilico che potrebbe riesplodere in qualsiasi momento.

Marco Romagna

“Holy Spider” (2022)
116 min | Crime, Drama, Thriller | Denmark / Germany / Sweden / France
Regista Ali Abbasi
Sceneggiatori Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami
Attori principali Zar Amir-Ebrahimi, Mehdi Bajestani, Arash Ashtiani
IMDb Rating N/A

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