HIGH LIFE (2018), di Claire Denis
All’interno della logica del festival del cinema e di questo 36esimo TFF, High Life è un prodotto sicuramente atteso da molti, un oggetto alieno e un po’ misterioso che mischia la sfera dello show business da cast hollywoodiani con la verve autoriale di una cineasta tra le più attivamente interessanti del panorama contemporaneo da trent’anni. A settant’anni di età, Claire Denis, ex-assistente di Rivette e Wenders, dopo aver composto una sorta di apologia minimale e claustrofobica della ricerca d’affetto della sua generazione di artisti col precedente L’amore secondo Isabelle, torna al crudo percorso entro il mistero della sessualità e dell’inconscio umano con un film che sembra assolutamente appartenere ai nuovi filoni del cinema d’autore di moda dei registi del momento, Refn e Gaspar Noé, Carruth e Cosmatos. È un cinema fatto di corridoi, sguardi persi, piccole scelte coraggiose e quasi sperimentali, lente discese in inferi sensoriali. Ciò riesce a dimostrarci la veridicità di due considerazioni, una positiva e una negativa: la prima è che la Denis è un’autrice straordinariamente capace di adeguarsi alla contemporaneità, inserendosi anticonvenzionalmente nei nuovi dogmi della settima arte e riuscendo ad ampliare e a complicare il proprio discorso cinematografico anche mediante le nuove tecnologie di cui il (post-)cinema digitale si fa vanto; la seconda è che questo film, effettivamente un potenziale ‘istant-cult’ dei circoli indie internazionali oltre che una possibile via d’accesso ai neo-cinefili verso la filmografia precedente di un’autrice che è giusto conoscere e scoprire, assorbe tutti gli eventuali problemi stilistici che quel tipo di cinema può generare. Ci rendiamo conto che accomunare registi come quelli nominati sinora all’interno della medesima tendenza può sembrare forzato ed eccessivo, quindi è giusto approfondire, anche per penetrare più profondamente nei meandri di High Life: Claire Denis, con film come Trouble Every Day, ha sicuramente fomentato gli stilemi tipici di un certo cinema lisergico e provocatorio. Più che partecipare a questa nuova onda, nata tra derive della New French Extremity e tentativi di rinnovare e far evolvere il cinema di genere, la regista figura, come anche per esempio Leos Carax o il primo Luc Besson, tra quegli autori in verità interessantissimi che hanno influenzato, mediante le degenerazioni anni ’80 e ’90 della Nouvelle Vague e della New Hollywood, gli autori di Love, The Neon Demon, Beyond the black rainbow, eccetera. Il problema consiste più concretamente nel fatto che certe ripetitività di questi film hanno cominciato a formare dei paletti basici che rendono le visioni degli ultimi lavori di questi autori sempre più irritanti, componendo una ragnatela di manierismo in cui sfortunatamente ci pare che caschi pure High Life. Il discorso è prevalentemente legato all’immediatezza strisciante dell’immagine ma in realtà è una questione tanto legata alla forma e alla regia quanto al linguaggio stesso del film e alla sua proposizione tematica.
La sceneggiatura di High Life, difatti, presenta una serie di piccole ingenuità e di scelte discutibili che vanno ben oltre l’asciuttezza fredda dei gelidi ma profondissimi dialoghi degli ultimi film di Cronenberg; non finiscono con Robert Pattinson i paragoni con Cosmopolis, l’aura mortifera e solitaria di questo vibrante mondo meccanico richiama la limousine cronenberghiana in molteplici momenti, mascherandosi in una spaventosa incomunicabilità totale. Eppure qualcosa si interrompe, sembra irreale oltre la necessaria alienazione data dall’intreccio, entrando nel triste regno del ridicolo, del calligrafico, dell’esplicito. Il fatto è che è difficile gestire immagine e parola all’interno di una cosmogonia che pone come proprio principale nucleo il legame tra il sesso e la natura distruttiva e autodistruttiva dell’uomo, ed è chiaro che è una cosa di cui la regista è perfettamente conscia nel momento in cui allo spettatore è chiara l’identità contenutistica del film solo a mezz’ora dall’inizio, con una sequenza erotica che è come un attacco terroristico allo sguardo dello spettatore. Il primo atto del film, difatti, vede Monte, il protagonista, solo con una bambina a gestire un’astronave alla deriva in una quotidianità di macchinari e occhiate cupe, in un’atmosfera minacciosa e suggestiva. All’interno della logica puramente immaginifica della prima sezione del film, il mondo distopico immaginato da High Life è estremamente affascinante perché è suggerito e non urlato, è mostrato e non spiegato: con il presente della Terra messo in scena o con scene girate in pellicola o al suo opposto con immagini digitalizzate in glitch perpetuo da una parte, e dall’altra le strane (a dire il vero inspiegabili) omissioni di fotogrammi nel montage iniziale, il futuribile presentato dalla Denis è talmente denso di potenziali fuori campo da dare l’impressione di replicare la frammentarietà logica della prosa di autori come Dick mediante il montaggio, il che è tutto fuorché banale. Dopo l’apparizione del titolo del film, questo anonimo High Life che richiama su un primo livello lo spazio e su un secondo l’essere “sballati”, in un trip acido o in un orgasmo infinito, comincia un flashback (la parte centrale del film) che racconta didascalicamente come siamo arrivati a questo prologo, seguendo una struttura narrativa analettica ormai non inusuale ma che purtroppo qui funziona a metà. Vogliamo davvero scoprire tutto su questa navicella e sui suoi passeggeri? In un incrocio tra la follia orgiastica di Shivers, i colori di Only God Forgives e il senso pervasivo di angoscia nel vuoto fantascientifico di Alien, i momenti più convincenti sono quelli in cui prevale l’ignoto, in cui è difficile capire dove ci si trova. E quando è troppo facile capirlo, l’elemento straniante, sia esso fornito dagli sguardi ambigui di Mia Goth (che praticamente riprende il ruolo che copriva nel Suspiria di Guadagnino) o da stacchi di montaggio sconnessi, non smette di essere presente, ma smette di essere credibile.
La regista riesce certamente con successo a caratterizzare un mondo sporco e folle che si trova oltre alla comprensione fisica che possiamo avere del nostro spazio umano, e ogni piccolo dettaglio, dalle canottiere sporche di Pattinson ai capelli lerci della Binoche, caratterizza un universo fantascientifico ben compiuto, colmo di proprie regole che a livello letterario/allegorico sarebbe interessante studiare e cogliere. Però, checché se ne dica, non ci troviamo di fronte a un capolavoro tarkovskiano, un qualcosa che trascende e si fa più grande. La Denis torna sui temi a cui è più affezionata portandoli alle conseguenze metafisiche più estreme, tramutando l’ossessione per il desiderio e per le dinamiche di Libido e Destrudo all’interno dell’atto erotico non più in una distruzione cannibalistica bensì nel reame dell’astrofisica, della radiazione che travia il corpo e incapacita al pensiero. E c’è anche il collegamento erotico tra macchina e uomo, uno strumento bestiale che ricava fuori dalle persone le loro necessità animalesche in riti sciamanici, tra (sempre) il Cronenberg di Crash e la possessione allucinogena sul finale de Le streghe di Salem. Ma il conturbante raramente entra in osmosi col sublime. L’uomo smette di auto-eliminarsi tramite le sue fauci ed è contemplato un mondo esterno, sia esso visto come spirituale, allegorico o fisico, che contribuisce a questa eliminazione, ma il nichilismo pregnante del film in fin dei conti finisce per rendere superficiali e piatti i personaggi a livello inconscio, privando alla storia la possibilità di espandersi all’interno delle proprie sagome. La Denis cerca di evitare questo nichilismo dando una speranza all’uomo oltre la propria estinzione, una speranza che nasce dall’amplesso proprio come la distruzione. I lampi di luce non riescono davvero a schiarire un mondo terribilmente buio. Ma la speranza, effettivamente, c’è. Sia essa nella messinscena di alcuni momenti o semplicemente nel modus operandi con cui Claire Denis decostruisce alcuni topoi della cultura fantascientifica, qualcosa appare in High Life. A volte anche una vera intensità, del vero genio. O una vera interessante tesi sul demone interiore del sesso. Eppure l’intera opera sembra un coitus interruptus, in cui ogni cosa poteva essere ma non è. Anche il personaggio di Tcherny, il principale comprimario afroamericano interpretato dal Dio dell’hip hop Andre 3000 degli OutKast, è un’occasione sprecata, un personaggio che poteva dare un tono diverso alla storia ma che rimanendo sempre in sottofondo ogni volta che torna in primo piano crea forzature sgradevoli, anche stereotipate a livello etnico (si può, nel 2018, scherzi a parte, in un film così ambizioso e non in uno Scary Movie, mettere in bocca a un nero la frase «anche nello spazio, sono i neri a morire per prima» come se fosse un’asserzione profonda e non una battuta di cattivo gusto?). Però è difficile attaccare fino in fondo High Life. Permane il sentore che sia più grande di quello che sembra, e che le potenzialità andrebbero capite oltre il fatto che non siano portate fino alla loro conclusione naturale all’interno del film stesso. Ci sono luce e silenzio, oscurità e caos, ascetismo e sessualità. C’è la superficie patinata e c’è la superficie difettosa, c’è il sottotesto filosofico e c’è il sottotesto presuntuoso. E lo sguardo verso lo spazio in ogni caso necessita nuovi cantori. Il problema è che gli scheletri sono sempre pronti ad ascoltare questa storia.
Nicola Settis