3 Giugno 2018 -

GOSHU IL VIOLONCELLISTA (1982)
di Isao Takahata

Prima di tutto c’è un minuscolo e irresistibilmente tenero cucciolo di tanuki, il cane procione più tradizionale dei boschi giapponesi. Simile a un tasso, si presenta già a impallare logo della produzione, quella Oh Production da quasi mezzo secolo attiva nella serialità degli anime televisivi e ancora oggi impegnata, nelle retrovie, in collaborazioni con Toei, Nippon Animation e lo Studio Ghibli che sarebbe stato fondato solo tre anni più tardi. Il tanuki entra in scena con un paio di bacchette in spalla, il sorriso appena abbozzato con cui salutare il pubblico, l’inchino, giapponesissimo, che apre ai titoli di testa. Prima ancora che il film possa iniziare, Isao Takahata innesta così il primo fremito di quella gemma rara e preziosa che è Goshu il violoncellista. È lo stesso tanuki che, insieme al gatto, al cuculo e alla coppia di topolini spingerà il protagonista a migliorarsi, a vivere intensamente la musica, a trovare quel trasporto emotivo che mancava al suo talento, e al contempo ad aprirsi agli altri, alla natura, alla vita. Al cielo, alle costellazioni fra le quali viaggiare nella trance musicale, o per lo meno a cui tendere la mano cercando di sfiorarle. Che siano realtà o fantasia, che siano paesaggi del Giappone rurale del primo Novecento o buffi animaletti antropomorfi, che siano concreti frammenti di natura o inspiegabile emotività umana. Si apre così Goshu il violoncellista, con i prati, con i fiumi, con i tuffi delle rane, con gli insetti, con il villaggio, con il ponte, con il vento che accarezza la criniera di un cavallo. Fino all’irrompere della musica, quella Pastorale di Beethoven che, nel suo crescendo dell’andante molto mosso da idillio diventa letteralmente tempesta – il gatto costretto a fuggire, i lampi a tempo con le deflagrazioni musicali, gli uomini in fuga come nella più classica stampa giapponese, gli alberi piegati dalle folate, gli animali che si disperdono in ogni direzione, e lo zoom che fra una saetta e l’altra lentamente porta al casolare luogo delle prove. Dove anche l’orchestra finirà per entrare nello stesso sogno musicale, per vibrare e vorticare insieme all’aperto, nei boschi, verso le nubi, fra le saette, in volo. Tutti, tranne uno: Goshu. È per i suoi errori negli attacchi in leggero ritardo che la musica finirà per perdere la sua magia, per riportare tutti alla realtà, e ai duri rimproveri del furibondo direttore d’orchestra la cui scarpa rimane incastrata nel palchetto. Ma in realtà l’errore di Goshu non è un vero e proprio ritardo. Goshu conosce la musica, la legge, la esegue con sufficiente precisione. Alle note del suo violoncello manca però sentimento, manca trasporto, e per questo manca il reale amalgama con il resto dell’orchestra. Un’orchestra di professionisti ma anche di amici, che ridono fra di loro, che si vedono fuori, che si invitano, che si provano a sedurre, mentre Goshu rimane ai margini, solo nella sua casa disadorna che ne tradisce la povertà ben al di là dello strumento occidentale e della passione “borghese”. Si esercita febbrilmente, ma senza reali miglioramenti, senza reale esito, senza costrutto, senza nemmeno imparare ad accordare a dovere il suo strumento, perché non è sugli spartiti che Goshu deve trovare l’anima, il fuoco musicale, ma dentro di sé, nei suoi stimoli, nel suo stomaco e nel suo cuore.

Basterebbero i campi lunghi notturni di Isao Takahata, il ritorno di spalle di un avvilito Goshu verso casa con il suo violoncello sotto braccio quasi come fosse l’arma di un samurai, il vecchio mulino, gli animali che quasi lo scortano prima di entrare nella sua casupola di legno a fornirgli quegli stimoli di cui ha bisogno per crescere, da bambino a uomo (anzi, «soldato») nei 10 giorni che lo separano dal concerto. Basterebbero i riferimenti culturali, fra l’orientalissimo tanuki – che non certo per caso dodici anni dopo verrà scelto da Takahata anche come simbolo della rivolta popolare di Pom Poko contro l’avanzare dell’urbanizzazione capitalista che distrugge la tradizione – inserito nei paesaggi dell’Ottocento (pittorico) nipponico e l’occidente musicale di Beethoven, pronto a campeggiare in effigie nella casa di Goshu affisso come un altare ma anche come un monito di sopracciglia ispide e bocca appena accennata, che quasi anticipa i tratti larghi e sottili dei personaggi animati di Tim Burton (in particolare il padre de La sposa cadavere) e al quale Takahata si avvicina con una serie di raccordi sull’asse che quasi ricordano in animazione il Kubrick verso l’occhio di HAL in 2001 – oppure, non per tecnica ma per la suggestione tematica e musicale «del Ludovico Van», la “danza dei Cristi” di Arancia Meccanica. Del resto, già nella scelta di far musicare all’orchestra con le note del can-can il muto del ’21 Jiraiya the Hero di Shōzō Makino, scatenando un irresistibile doppio inseguimento sullo e sotto lo schermo, si riassumono sia l’intento cinefilo e artistico sia la consueta acuta e dolente riflessione di Takahata riguardo l’occidentalizzazione del Giappone, e di certo Goshu il violoncellista non manca degli afflati (in sostanza comunisti) che si sono sempre rincorsi come un vento che fischia in ogni prodotto Ghibli. Così come basterebbero le dissolvenze incrociate, basterebbero le sostanziali scariche elettriche che la musica scatena sul gatto, basterebbe l’irrompere della Pastorale nel paesaggio come tempesta e occasione per abbandonare ogni realismo ben oltre e con profondità di senso ben maggiore rispetto a quello che era stato l’utilizzo dello stesso brano nel disneyano Fantasia, basterebbe la tenerezza infinita del microscopico tanuki che suona insieme a Goshu battendo le sue bacchette sul legno del violoncello, basterebbe il topolino guarito dalle note che finalmente hanno l’anima di chi le suona. Goshu il violoncellista, film (probabilmente per la natura pre-Ghibli e per la breve durata che si spinge solo di un paio di minuti oltre l’ora) fra i meno noti di Isao Takahata, è l’ennesimo punto di rottura, è l’ennesima piccola rivoluzione, è l’ennesimo capolavoro di uno dei maggiori geni che si siano mai confrontati con le immagini. Non solo animate, e non solo in Giappone. Fra le migliori opere del regista, Goshu è un gioiellino per la perfezione tecnica già puramente ghibliana, con il suo tratto ora spigoloso e ora tondeggiante, con le sue colorazioni soffuse, sfumate e dai cromatismi dolci, con i movimenti straordinariamente fluidi dei suoi personaggi. È un gioiellino per le scelte radicali, dall’incipit folgorante ai movimenti di macchina simulati dall’animazione che salgono come dolly insieme alla musica, dai fondali asimmetrici e profondi fino alla deformazione psichedelica e lisergica nella soggettiva del gatto. È un gioiellino per la sua lucidità concettuale, per i suoi continui rimandi alle due culture che si intersecano, per i suoi simbolismi, per i paesaggi che visualizzano i movimenti musicali, per il processo di crescita di Goshu attraverso le sue esperienze. Ed è un gioiellino per la sua poesia, per l’importanza dell’insignificante, per la comunione con la natura e le stratificazioni che porta in dote, e per l’umanità profondissima, molto più vera del vero, che ogni personaggio – anche se piccolo e peloso – esprime.

Il romanzo di formazione di Goshu il violoncellista è un avanzare nel suo intimo, nel suo umano, nel respiro che muove la musica ben più dello sfregare le corde. Ma, per trovare se stessi, a volte servono consiglieri e magari inganni, ed è necessario passare da errori. Come quello con il quale il permaloso e immaturo Goshu finisce in sostanza per torturare l’impertinente gatto che, dopo avergli portato in dono i pomodori acerbi appena strappati e rubati dal suo giardino, consapevolmente lo titilla dove è più permaloso. Ma la reazione indispettita di Goshu, che suona una nervosa Tiger hunt in India di Michio Mamiya (compositore contemporaneo classe 1929 che sei anni dopo Goshu sarà autore della sublime e straziante sinfonia che accompagna Una tomba per le lucciole) al posto del Träumerei di Schumann, con il procedere degli incontri maturerà prima in un duetto svogliato con l’ipercritico cuculo grazie al quale Goshu capirà che per l’atmosfera musicale, a patto che siano eseguite credendoci fino in fondo e con volontà di migliorarsi, può bastare una scala di due note, poi in quello tenerissimo con il tanuki da cui Goshu imparerà che a dare il vero ritmo è il sentimento, e infine quello con i topini, per il più piccolo dei quali qualche istante nella cassa armonica ad ascoltare Goshu e le sue note è l’unico modo per guarire. Dimostrando come la musica possa diventare emozione, personalità, poesia, soffio vitale. Sono tanti gli animali che si nascondono sotto le assi del pavimento per ascoltare Goshu mentre suona, dice espressamente mamma-topo, ma nemmeno questo sarà sufficiente al giovane violoncellista per capire quanto la natura, attraverso i suoi animali, lo stia aiutando. E non lo capirà nemmeno al momento del concerto, quando l’esecuzione sarà talmente perfetta e sentita da portare alle lacrime il severo direttore d’orchestra e in visibilio il pubblico che pretende un bis. Sarà tutta l’orchestra a prendere quasi di peso Goshu e a spingerlo sul palco per regalargli l’occasione di un assolo, ma ancora una volta si sente preso in giro, e reagisce con rabbia. Quella stessa rabbia musicale del Tiger hunt in India con la quale aveva stanato il gatto, e che ora è invece il silenzio assoluto nel generale respiro mozzato di fronte al suo (ancora inconsapevolmente emozionato) virtuosismo. Lo capirà solo alla fine, con gli applausi a scena aperta, con le congratulazioni di tutti, con la raggiunta consapevolezza che senza il gatto, il cuculo, il tanuki e i topolini non sarebbe mai riuscito a spingersi così in alto nell’esecuzione e nel sentimento musicale. Goshu il violoncellista può così finalmente commuoversi, rendersi conto di avercela fatta, di essere finalmente uomo e musicista. È il momento di vivere la vita, intensamente, fino in fondo. È il momento di essere invitati a bere birre con gli orchestrali/amici, è il momento di scusarsi con gli animali e di ringraziarli dal profondo del cuore con le carezze, ai tassi che incontra sulla strada come alle corde del violoncello sfregate con passione mentre il tanuki e il gatto, fedelmente, lo ascoltano. Fino al suo olimpo musicale, culturale, emotivo. Fino allo sguardo di Goshu fuori dalla finestra che chiude i titoli di coda, a guardare ancora una volta la natura, quella stessa natura in cui Beethoven aveva composto la sua sesta sinfonia. Una natura fatta di animali, di alberi, di terra, di cielo, di stelle. Verso l’infinito.

Marco Romagna

“Gauche the Cellist” (1982)
60 min | Animation, Fantasy, Music | Japan
Regista Isao Takahata
Sceneggiatori Kenji Miyazawa (novel), Isao Takahata
Attori principali Hideki Sasaki, Fuyumi Shiraishi, Masashi Amenomori, Junji Chiba
IMDb Rating 7.0

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