21 Ottobre 2018 -

FUNAN (2018)
di Denis Do

17 aprile 1975, Phnom Penh, Cambogia. Un giorno iniziato come gli altri, in famiglia, a mangiare insieme, a giocare, a fare il bagnetto al piccolo, a vivere la normalità; un giorno concluso con la presa di potere degli khmer rossi di Pol Pot, con le uccisioni, con le deportazioni, con le famiglie separate, con l’inizio di un calvario durato quattro lunghi anni di denutrizione, lavori forzati, dolore, minacce, sofferenze, paura, soprusi, morte. Un giorno per sempre impresso nella Storia, un giorno mai del tutto superato fra fosse comuni e parenti mai più ritrovati, un giorno al quale, per ogni cambogiano e per i figli di ogni cambogiano, ma più in generale per chiunque si interessi alla Cambogia, è ancora oggi impossibile non tornare. Non solo per Rithy Panh, che sulla ricerca di identità di un Paese distrutto da decenni di dominazioni e dal genocidio degli anni ’70 basa da sempre la sua intera vita e il suo intero cinema, non solo per il Kulikar Sotho di The last reel, che nella ri-messa in scena metacinematografica di quegli anni cercava di recuperare l’arte perduta nei deliri del regime, e non solo per Douglas Seok, nato non in Cambogia ma negli Stati Uniti e da anni di base in Sud Corea, che nella Phnom Penh contemporanea, ma con ovvio occhio a quella del tempo, installava pochi anni fa il sostanziale album musicale impressionista Turn Left Turn Right. Come pure viene da lontano anche come origini culturali, nato e cresciuto negli Stati Uniti e residente da tempo a Copenhagen, Joshua Oppenheimer, che con il (per ora) dittico The act of killing / The look of silence ha dettagliatamente raccontato al mondo la natura più atroce e violenta delle torture e delle quasi tre milioni di uccisioni perpetrate durante il genocidio, dei genitali tagliati a colpi di machete, delle rappresaglie su innocenti a casaccio, dello sterminio sistematico di ogni “intellettuale imperialista” secondo cui era sufficiente portare gli occhiali per meritare la morte. Ed è ora giunto anche per Denis Do, animatore parigino classe ’85 all’esordio alla regia dopo essersi fatto le ossa nel reparto layout dell’ottimo Sasha e il Polo Nord ed essersi concentrato sugli sfondi dell’ancor più sorprendente Zombillenium, il momento di tornare alla tragedia politica e umana della Cambogia con Funan, che parte dalle sofferenze patite dalla sua amata madre per concentrarsi non tanto sulle cause e quindi sull’esibizione delle crudeltà, ma sugli effetti, sul dolore familiare, sull’amore di chi non ha mai smesso di cercarsi, sulle sofferenze psicologiche quotidiane, sui litigi e sulle incomprensioni fra chi è esasperato dalla fame e dal lavoro. È una disperata ricerca, a tratti apparentemente impossibile, di una nuova normalità, che si muove fra le inevitabili diffidenze, l’umanità e i sogni negati, i tradimenti, la necessità di adattarsi alla situazione a costo di barattare il proprio corpo per un pugno di riso in più, oppure la vergogna di chi a questo preferisce appendersi per il collo. Nel dolore e nello shock di tutti gli altri, impotenti di fronte all’albero e alla giovane figura che hanno cresciuto insieme sin da bambina, e che ora li sormonta senza più vita.

In Funan, questo il titolo del film vincitore a sorpresa di Annecy e ora presentato alla 13ma Festa del Cinema di Roma, la violenza rimane quasi del tutto fuori campo, relegata a una cicatrice, a una magrezza sempre più denutrita, a un lenzuolo dolorosamente calato sul viso, a uno sparo che risuona fra gli alberi e gli specchi d’acqua, mentre sullo schermo, con un tratto essenziale nei volti in animazione parziale quanto dettagliato nella resa il più possibile realistica (e preziosa) della natura e dei paesaggi, ci sono le separazioni e le mancanze, c’è la (fallimentare) riforma agraria fra sanguisughe e razioni sempre più ridotte, ci sono i soprusi e le continue minacce degli khmer, c’è la rieducazione, ci sono i tentativi di lavaggio del cervello, ci sono i bambini sistematicamente strappati alle madri dal partito per crescerli come “buoni rivoluzionari”. E ci sono, ovviamente, le madri che mai si arrenderanno, che mai smetteranno di cercarli. È quello di Chou il punto di vista che Denis Do, in un’animazione tradizionale che sa farsi forza della relativa penuria di mezzi produttivi con un tratto che richiama agli anni Ottanta e con pigmentazioni che da calde si faranno sempre più fredde accompagnando il procedere della tragedia, sceglie per delineare la vicenda. Quello di una donna a cui verrà strappato il piccolo Sovanh, quello di una donna che vedrà morire intorno a lei tutti gli affetti, quello di una donna che rischierà essa stessa la vita, ma che riuscirà alla fine, con chi la aiuterà fino a fare da esca e sacrificarsi per aprirle la via, a passare finalmente in Thailandia con il suo (non più così) piccolo a fianco. Sin dall’apertura, con la figura di Chou che vaga nel bianco incubale delle nebbie della storia così come I miei vicini Yamada e la Kaguya de La storia della Principessa Splendente emergevano, pur con tutt’altra colorazione e tutt’altro senso, dai tratti abbozzati dei fondali, è evidente come Denis Do guardi apertamente al cinema di Isao Takahata, alla sua capacità di portare il neorealismo e la potenza poetica in animazione, alla sua esplorazione dell’asciuttezza grafica e dell’emozione più ancestrale e sincera. Certo, la poesia non è la stessa del gigante nipponico, non è la stessa l’intensità, non è la stessa la capacità di commuovere – e del resto, se non altro per il (non troppo) lieto (ma pur sempre lieto) fine, è ben differente la parabola delineata da Denis Do rispetto a quella di Takahata nel suo Una tomba per le lucciole, nel quale già dalla primissima sequenza veniva anticipato come entrambi i piccoli protagonisti sarebbero morti. Ma, nel guardare apertamente al capolavoro di Takahata come principale punto di riferimento e principale aspirazione, il regista francese trova un proprio rigore, una propria umanità, una propria piena e accorata sincerità lontana da qualsivoglia ricatto morale. Confezionando così un buonissimo esordio, politico, umano, ancestrale, ulteriore fulgido esempio di un’animazione, quella d’oltralpe, sempre più ai vertici mondiali per tecnica e per versatilità.

Il progressivo inasprimento delle condizioni di è il deterioramento dei corpi, sempre più smagriti, sempre più affamati, sempre più lontani dalla salute e dalla vita. Uccisi dalla fame, uccisi dalla mancanza di medicine, uccisi dal lavoro, uccisi dalle esecuzioni di massa e dagli abusi. Uccisi dai fiumi minati attraversati per non essere uccisi dalle pallottole. Uccisi dai sensi di colpa per aver dovuto abbandonare un figlio, ma «non si può tornare indietro». Uccisi dal dover «aspettare e obbedire» come unica speranza di poterlo prima o poi rivedere. Uccisi dalla paura di vendette trasversali e rappresaglie, uccisi dall’impotenza di chi non può fare nulla, uccisi dai sensi di colpa quando non si può fermare la condanna sommaria a morte di un’innocente. Nei primi giorni di presa di potere degli khmer rossi nessuno poteva immaginare quale devastante effetto avrebbero avuto sulla popolazione, quanti colpi di pistola sarebbero arrivati dritti in faccia per ogni domanda che osasse mettere in dubbio – con “insolenza antirivoluzionaria, e quindi capitalista e imperialista” – i loro soprusi, le loro diaspore e le loro deportazioni, né quanto sarebbe durato l’incubo. Anche perché, se sulle prime c’era ancora qualche orologio o anello con cui corrompere l’armato e rabbioso khmer di turno, ben presto tutto verrà confiscato e magari distrutto, un po’ perché «è Angkar che si prenderà cura di voi», e un po’ perché essere proprietari di un’auto, magari straniera, non poteva essere tollerato dalla visione totalmente distorta del marxismo portata avanti dalla sanguinaria dittatura della Kampuchea Democratica. Funan sono notti in bianco e razioni insufficienti, sono lacrime pensando al figlioletto e impossibilità di fare qualcosa per non vedere punita tutta la famiglia, sono litigi e sospetti, sono tradimenti e mancanza di fiducia, ma è anche il ritorno inaspettato dell’umanità di Sok, vecchio amico di Chou e del marito Khoun (le cui voci, nella versione originale francofona, lingua coloniale ma al contempo necessaria per produzione e realizzazione) sono affidate a punte di diamante attoriali del calibro di Bérénice Bejo e Louis Garrel), prima convinto khmer che li calpesta ma alfine disposto a farsi uccidere pur di coprirli quando il fratello di lui, che sarà risolutivo nella riunione familiare e nell’eroismo del martire, sta fuggendo e una guardia giace a terra senza vita. Funan è un film di figli strappati alle madri, è un percorso nel quale ci si rende conto che chiunque stava cercando qualcun altro in situazioni analoghe e analogamente drammatiche, mentre i bambini venivano addestrati a odiare, a torturare, a uccidere, a riconoscere come “purezza” quello che era invece una sospensione criminale dei più basilari diritti. Denis Do cerca una propria vis poetica fra i dettagli degli insetti che sfruttano la tensione superficiale degli specchi d’acqua, le piogge, i tramonti e il sudore lacrimato della sua protagonista sempre più sofferente, fino a quando non tornerà il fratello di Khoun a prendersi cura di una Chou ormai scheletrica e quasi moribonda fino a salvarla e a rimetterla in forze per poterla finalmente riunire al figlio, proprio nel momento in cui alle porte della Storia sta bussando il ’79 dell’invasione vietnamita della Cambogia, e con questa la sconfitta del regime degli khmer. La reazione non è certo meno violenta della rivoluzione, con il ritorno a quegli stessi cerchi di cani rabbiosi alla ricerca di una nuova preda da sbranare, questa volta non più capitalista ma rivoluzionaria, ma Chou, con ancora negli occhi l’anziana innocente giustiziata a causa delle sue azioni, riuscirà a salvarla, facendo finalmente e per una volta vincere l’umanità e la comprensione. Perché tutti portano le stesse cicatrici, tutti hanno vissuto le stesse sofferenze, e tutti sono morti un po’ ogni volta ma ancora vivono, fra gli amati persi per sempre e l’orrore di ogni giorno. Rimane giusto il tempo per giungere alla base di quella collina, dall’altra parte una salvezza chiamata Thailandia, da questa gli ultimi khmer rossi ancora pronti a uccidere, con evidente monito per il presente e il futuro, per la cieca e troppo rigida adesione a un ideale. C’è un solo modo per far giungere madre e figlio al sicuro: il sacrificio. Chou e Sovanh giungono dall’altra parte, ma ai lati del loro sorriso felice e soddisfatto, consci di avercela fatta e di poter ricominciare, non possono che spuntare le più amare lacrime. Risuona un ultimo sparo sulla foresta, un altro essere umano cade e sparirà per sempre. A quale prezzo si è tornati alla vita?

Marco Romagna

“Funan” (2018)
Animation | France / Luxembourg / Belgium
Regista Denis Do
Sceneggiatori Denis Do, Magali Pouzol, Elise Trinh
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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