29 Agosto 2018 -

FIRST MAN – IL PRIMO UOMO (2018)
di Damien Chazelle

L’autore Damien Chazelle, fresco della conquista dell’Academy per la regia del musical nostalgico La La Land (2016), dopo aver raccontato il mondo del jazz nei suoi primi tre lungometraggi si trova a cimentarsi con la biografia di Armstrong. Peccato solo che non sia Louis, probabilmente il più grande trombettista di sempre, ma l’eroe americano Neil, Il primo uomo sulla Luna.
L’apertura della 75esima mostra internazionale del cinema di Venezia, in una selezione di gran lunga più ricca e interessante rispetto alle precedenti edizioni, è la proiezione di First Man e sfortunatamente è un ingresso al Lido con cui è difficile empatizzare. Il titolo già è indicativo dell’errore di direzione dell’intera operazione: come nei precedenti successi, Whiplash e La La Land, Chazelle cade nella problematica dell’antropocentrismo forsennato e sconsiderato, in cui l’universo intero dell’opera creata gira attorno al dilemma interno dei protagonisti, ma qui per la prima volta diventa il nucleo portante del pensiero e dell’approccio dell’opera. Neil Armstrong, primo essere umano a mettere piede sulla superficie lunare, è mostrato come un uomo freddo ma soprattutto come un uomo spaventato, che ha problemi con la famiglia perché teme i loro rapporti. Non riesce a comunicare con i figli verbalmente, e anche con la moglie la relazione è basata quasi solo su sguardi, rari sorrisi, rarissime effusioni. Non c’è dialogo, o Neil parla del lavoro o riceve i commenti degli altri, non reagisce, rimane passivo. Molti accusano la recitazione di Ryan Gosling di essere spenta e priva di sentimento e spirito, ma a noi non pare solitamente vero, e di solito apprezziamo il suo metodo per come trova un equilibrio anche con un certo senso del ridicolo. È questa possibilità di costanza che dà a Gosling la potenzialità di essere uno dei divi più interessanti dell’ambiente hollywoodiano, sempre a metà tra l’indie e il blockbuster. Tuttavia mai come in First Man è facile capire chi disprezza l’inespressività dell’attore di Drive, perché davvero coincide con la passività di un personaggio che dovrebbe rappresentare un eroe. E forse è anche un errore considerare Neil Armstrong un eroe, anche se per costruire un profilo del personaggio bisognerebbe analizzare i movimenti hippie contro la NASA; cosa che Chazelle fa, ma con un montage semi-documentaristico che dura 3 minuti rispetto ai 135 della durata del film, annullando completamente qualsivoglia percorso critico o perlomeno cosciente. Siamo in un mondo in cui gli eroi del cinema sono sempre eroi fuori dal mondo, fuori dal reale, supereroi, gli eroi patriottici smettono di esistere, e perciò bisogna resuscitarli, ma nel caso con una motivazione. Il metodo narrativo per la costruzione del carattere di Neil Armstrong si basa su un profilo unilaterale e piatto, in cui l’unico conflitto presente è quello tra la paura del mondo reale e il desiderio di sognare con l’ausilio del mondo dell’aeronautica spaziale.

Il problema è che First Man è, appunto, un’opera antropocentrica ma quasi totalmente priva di pathos, in cui l’allunaggio è percepito con uno sguardo estremamente concreto che coincide con lo sguardo di questo Neil Armstrong fittizio, timoroso ma privo di personalità. È un’agiografia priva di nubi, in cui Armstrong si propone come il nuovo volto di una nuove fede nel ricordo del passato, di un sogno che si è materializzato per l’America. Il film tenta disperatamente di non essere patriottico (apprezzabile la scelta di non mostrare la bandiera a stelle e strisce piantata dagli astronauti, probabilmente meno quella di concentrarsi su una figura di self-made man che non ha bisogno di nessuno in anni trumpiani), ma in alcuni momenti esplode nello sguardo di Chazelle la necessità di separarsi dall’uomo, ma non per provare a comprendere la poesia del cosmo, bensì per tornare sul materialismo umanista dello sguardo di Armstrong. C’è un breve momento quasi sublime, un campo-controcampo in cui un Armstrong finalmente tremante e psicosomatizzante osserva silenziosamente la Luna. Ma subito, dopo due inquadrature, entra qualcuno a parlargli, e l’incantesimo della connessione tra Neil e la Luna si spezza subito. L’intimismo diventa un pretesto per creare un personaggio monotono; e Buzz Aldrin, tra i suoi compagni di viaggio decisamente il più interessante, è spesso tratteggiato bidimensionalmente in maniera ingiustificata e gratuita, con anche caratteristiche topiche del personaggio negativo. La regia di Chazelle non aiuta: l’allunaggio è perfettamente anempatico, il finale che replica Pickpocket di Bresson come Blade Runner: 2049 è prevedibile e privo di interesse. Ma nella scena dello sbarco poco viene aggiunto rispetto a ciò che lo spettatore già dovrebbe sapere: non c’è troppo la spettacolarità della scoperta, e l’aggiunta di un McGuffin intimo, il braccialetto della figlia, è una trovata retorica ai limiti dello stomachevole, che riporta a un malsano livello terreno mai profondo una storia che invece dovrebbe avere la potenzialità di trascendere. Non si supera mai la superficie, non si va mai oltre la patina del biopic morale, nonostante questa trovata che nulla ha di filosofico ed è solo una pura esplosione di umanismo senza direzione. L’umanizzazione dell’eroe è compiuta solo e unicamente per creare un momento, ma quello specifico momento, apice filosofico del film, è un momento vuoto, imperdonabilmente lontano dalla sfera celeste, dall’universo.

Non si può fare un film sull’Atman senza prendere in considerazione il Brahman. La regia di Chazelle, inoltre, è per l’ennesima volta violata e resa incoerente. In Whiplash una soggettiva del protagonista si trasformava ingiustificatamente in una carrellata attorno al suo mentore/nemesi, senza che il protagonista si sposti. Lo sguardo si sposta, ma così decide di perdere la sua coerenza. Così ci pare che Whiplash, La La Land e First Man abbiano una simile visione nobile e sublime del montaggio, con trovate anche letteralmente geniali, ma sempre con un approccio alla mdp diverso che dimostra una carenza di personalità e complessità. In Whiplash è prediletta la fissità, per creare col montaggio la musicalità, in La La Land il piano sequenza e in First Man la macchina a mano, destabilizzata. Ma senza una coerenza, solo reiterando un caos interiore che dovrebbe precludere o escludere l’esteriore. La scelta di Chazelle invece appare democraticamente confusa: l’uomo è al centro in maniera talmente assoluta da annullare qualsiasi proposito esistenzialista concreto, e il suo sballottamento all’interno dell’inquadratura si tramuta in incoerente nel momento in cui la macchina da presa non capisce mai se seguirne l’interiorità o l’esteriorità, se penetrare nelle viscere dell’anima di Armstrong o se rimanere sul discorso della superficie, dei fatti. E il problema è che, quando vi entra, è comunque difficilmente credibile. Nel montaggio a volte ipercinetico delle scene “spaziali”, di gran lunga quelle meglio riuscite del film (in particolare l’attracco centrale, unico vero momento di tensione) nonostante certe inesattezze scientifiche (ai limiti dell’imperdonabile, a cinquant’anni esatti da 2001 Odissea nello spazio, fare ancora propagare i suoni nella stratosfera), First Man trova respiro e vitalità anche grazie alla grana della pellicola e a movimenti di macchina folli che riempiono di dinamismo l’organicità del discorso. Al di fuori, diventa cadaverico, spento, un documento per attestare l’esistenza di un uomo che già fa parte della Storia, un’opera senza coraggio e senza sogni.

Nicola Settis

“First Man” (2018)
Biography, Drama, History | USA
Regista Damien Chazelle
Sceneggiatori Josh Singer (screenplay by), James R. Hansen (based on the book by)
Attori principali Claire Foy, Ryan Gosling, Pablo Schreiber, Kyle Chandler
IMDb Rating N/A

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