10 Marzo 2016 -

ELETTRA AMORE MIO (1974)
di Miklós Jancsó

Quello di Miklós Jancsó è sempre stato un Cinema di spazi, imprescindibile dal moto costante di un punto di vista sempre oggettivo ma al contempo vicino e lontano, fisico eppure impalpabile, così come da quello dei corpi che vengono inquadrati, a loro volta movimento e linguaggio. Ma forse mai quanto in Elettra, amore mio, fra i massimi capolavori (non solo) del regista ungherese e riproposto nel corso della retrospettiva a lui dedicata dal trentaquattresimo Bergamo Film Meeting, la messa in scena è prima di tutto una coreografia, una complessa e straniante danza negli spazi, un fondamentale saggio di regia declinato in pochi quanto lunghi, complessi e splendidamente articolati pianisequenza. Più ancora che in Rapsodia Ungherese, più ancora che ne Il Cuore del Tiranno. Il long take è del resto una cifra stilistica fondamentale per l’intera opera di Miklós Jancsó, riproposta poi con differenze più o meno marcate prima dal suo “allievo” Bela Tarr e ora, in terza generazione, dal giovane László Nemes fresco di premio Oscar per il miglior film straniero con il suo folgorante esordio Il Figlio di Saul. Viene in mente in tal senso, per contrasto, l’attuale utilizzo vacuo, ammiccante e autocelebrativo che si fa troppo spesso nel cinema contemporaneo della ripresa senza stacchi, in testa l’inspiegabilmente amato e puntualmente cinto d’alloro Alejandro Gonzales Iñàrritu, ma questa è (per fortuna) un’altra storia. Nel grande Cinema magiaro, piuttosto, il pianosequenza (ri)vive attraverso la profusione di carrelli, dolly e lentissimi cambi di focale la propria funzione primaria, quella sua piena necessità narrativa, spaziale e temporale di flusso costante, di fiume in piena, di repentino cambio di direzione, di sbigottimento di chi si guarda intorno. Come pure, stilisticamente, è da mettere in luce la mirabile gestione delle musiche sempre diegetiche, fra gli interventi di un menestrello che meticciano il peplum con una strana forma di musical e le continue evoluzioni a passo di danza delle molte comparse, dove il linguaggio del corpo si fonde con quello cinematografico, alla ricerca di spazi e di fisicità come lotta all’oppressione della tirannia.
Elettra, amore mio, rispetto alle altre opere di Jancsó e dei suoi eredi cinematografici, compie in questo senso un ulteriore e miracoloso salto linguistico e tecnico: in ogni sequenza si interlacciano almeno tre o quattro azioni distinte, mentre la macchina da presa e la sceneggiatura guizzano sinuose nella selva di personaggi, passano dolcemente da una situazione all’altra, riescono a modificare con un cambio di fuoco o uno zoom più volte e radicalmente la stessa inquadratura, cambiandone l’azione, il significato e l’emozione. Gli attori, le comparse e gli animali in scena, ma anche e soprattutto la macchina da presa, danzano insieme in un moto continuo e avvolgente che si snoda fra unità aristoteliche perfettamente rispettate e un meticciamento di poesia antica e nuova per sostenere un’allegoria pasoliniana, sognante e di rara efficacia. Con, alla base, una straordinaria lucidità politica protesa a smascherare e rivelare, come molto spesso nella filmografia di Jancsó, ma in questo caso con con una forza forse ancora superiore al solito, tutto il più sordido squallore del potere, la necessità della Rivoluzione, la ricerca di giustizia che passa necessariamente attraverso la violenza. Per farlo, il regista magiaro si affida alla dinastia degli atridi, in testa Elettra e suo fratello Oreste, pronti a vendicare il padre Agamennone contro il tiranno Egisto, che da ormai quindici anni ha ucciso il legittimo sovrano e ne preso il potere. La giustizia contro il male, la rivoluzione contro la tirannia, i figli orfani del buon re contro il suo fratellastro omicida, il quale ha nel frattempo trasformato la libertà del Popolo in una dittatura che nega, nel giubilo delle classi più basse felici di farsi schiacciare pur di non dover pensare, persino il diritto di dire la verità.

Nel 1968, lo scrittore magiaro László Gyurkó aveva preso le mosse dai grandi tragici greci, Euripide e Sofocle più ancora che Eschilo, per scrivere Elettra, amore mio nelle forme della tragedia teatrale. Pochi anni dopo, nel ’74, Jancsó ne affida allo storico sceneggiatore Gyula Hernádi la rielaborazione per il grande schermo, lasciandone inalterato l’impianto teatrale e portando a termine un’opera mirabile per sagacia, poetica e linguaggio filmico. L’Elettra è fatta, come le migliori tragedie della tradizione ellenica, di omicidi, di morte, di inganni, di vendetta, ma prima ancora si rivela una sublime allegoria del potere, una forte presa di posizione politica e metaforica contro l’oppressione della libertà, una chiamata alla Rivoluzione nel nome della giustizia. Una giustizia temuta da Egisto – del resto, viene detto in precedenza, “Per incutere timore ai cittadini, chi governa deve in cambio temerli” – e pronta a presentarsi nella persona di Oreste che, sotto mentite spoglie, giunge per annunciare la propria morte e riuscirà, spinto da Elettra, a sopraffare il tiranno proprio a causa del suo giubilo per la notizia. Ma il ritorno al potere dei fratelli – e del bene – non sarà semplice, fra la necessità di vendetta e, dopo averla perpetrata (memorabile l’inquadratura della mano di Oreste sporca del sangue di Egisto) quella di morire per potere risorgere di nuovo puri dalle proprie ceneri, come una fenice.
Anche il Popolo, del resto, è stato ucciso più volte durante i giochi di potere, schiacciato da quella stessa pietra usata per umiliare e punire il tiranno spodestato, e ha bisogno di risorgere. Un Popolo che è morto perché incapace di reagire, inerte dinanzi alle rivoluzioni anziché parte attiva di una lotta di classe, pedissequo nel seguire il governo di turno pur di non dover pensare e agire. Forse, più ancora che a chi detiene il potere, la critica di Jancsó era (e sembra ancora oggi) rivolta proprio alla popolazione: è lo stesso Egisto a sostenere che Agamennone fosse un pessimo governante perché lasciava troppa libertà a cittadini non in grado di capirne il valore e incapaci di farsene qualcosa, mentre il popolo ben felice di subìre il peso del suo calcagno lo portava in trionfo nell’ascesa al trono. Ma la storia di ieri nient’altro è che quella di oggi e probabilmente di domani, una storia di ingiustizie, di potere logorante, di inganni, di tradimenti, di libertà agognata, di carissimi prezzi da pagare per tentare di raggiungerla. Non devono quindi stupire gli anacronismi del film, dalle pistole per giustiziare il proprio nemico e uccidersi a vicenda fino all’elicottero con il quale Elettra e Oreste vanno via morti e poi tornano, risorti dalle proprie ombre, per portare il bene. Ogni giorno, vuole dirci Jancsó, la fenice deve morire per risorgere ancora più splendente quello successivo, ogni giorno il mondo intero muore fino a che non ci saranno cibo per tutti ed equità, senza più oppressori né oppressi, senza più ricchi né poveri, senza più guerre né sofferenze. Ne è emblema il pavone che si aggira per il cortile, a metà fra la rappresentazione dell’autocelebrazione del tiranno e quella dell’araba fenice che si rialzerà dalle proprie ceneri per un mondo più giusto. C’è poi la nudità, ostentata da diversi personaggi e che passa, a seconda delle situazioni, dall’ellenicissima e quasi casta celebrazione del corpo in quanto bellezza alla morbosa volontà di Elettra di umiliare il proprio nemico costringendolo a ballare totalmente nudo nel cortile, alla mercé di chi fino a poco prima lo temeva e seguiva; c’è il fuoco simbolo al contempo di vita e di morte; c’è l’amore impossibile fra due fratelli che è motore della rivoluzione. Il potere non può prescindere dalla crudeltà, la giustizia non può prescindere dalla lotta, l’uomo non può prescindere dalla ricerca di libertà. Proprio come il Cinema di Jancsó non può prescindere dal suo movimento costante, fluido, avvolgente e ammaliante. Elettra, amore mio è un film estremamente complesso e stratificato, una lucida analisi politica che parte dalla tragedia greca per parlare del potere e di un Popolo che deve ricominciare a lottare, e non certo in ultimo un autentico miracolo tecnico di messa in scena, copertura degli spazi e gestione degli attori. Presentato da Miklós Jancsó a Cannes nel 1974 e andato via dalla Croisette a mani vuote, si impone ancora oggi come una pietra miliare della cinematografia magiara e mondiale, un trattato di regia e sceneggiatura, un assoluto capolavoro da riscoprire e amare. Un film fondamentale, senza tempo nella sua sconvolgente attualità, drammaticamente acuto nella propria lettura sociale e politica, relegato ingiustamente ai margini dell’oblio ma degno più che mai dell’Olimpo.

Marco Romagna

“Electra, My Love” (1974)
70 min | Drama | Hungary
Regista Miklós Jancsó
Sceneggiatori László Gyurkó (play), Gyula Hernádi
Attori principali Mari Töröcsik, György Cserhalmi, József Madaras, Mária Bajcsay
IMDb Rating 7.1

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