24 Novembre 2016 -

CHRISTINE (2016)
di Antonio Campos

Quando lo scorso febbraio scoprivamo della triste storia di Christine Chubbuck attraverso Kate plays Christine, il curioso e interessante ibrido fra documentario e finzione diretto da Robert Greene e presentato alla Berlinale, oltre a ragionare, stimolati dal film, sul ruolo dell’attrice, ci chiedevamo se la parte metacinematografica di messa in scena fosse parte di un film di finzione realmente esistente. Senza sapere che solo pochi giorni prima, al Sundance, un film di pura finzione sullo stesso argomento era già stato effettivamente presentato, ma che nulla c’entra con quello di Robert Greene. A rimettere le cose a posto ci ha pensato il Torino Film Festival, che oltre a riproporre il documentario di Greene in Festa Mobile, bissa nel caso Chubbuck con la prima italiana, ospitata nel Concorso principale, di Christine, terzo lungometraggio da regista per il newyorkese Antonio Campos. Dove però Greene sfruttava l’ambito del suicidio in diretta al termine del telegiornale di Christine Chubbuck per introdurre in realtà tutt’altra tematica, Campos “risponde” con un decisamente più classico – troppo classico – biopic sugli ultimi mesi di vita della giornalista, sulle pressioni lavorative, sulle sue scarse gratificazioni, sulle polemiche con il network, sul montare del suo stress, della sua ansia, della sua depressione, fino allo momento dello sparo – lo studio basito e poi commosso, la pubblicità che parte in fretta e furia. Ma dove Kate Lyn Sheil, dismessi i panni di Christine Chubbuck, nel film di Greene si rialza dalla pozza di sangue finto per riprendere la propria identità e la propria vita, la Christine di Rebecca Hall rimane riversa a terra, viene portata via, e rimangono gli altri, soli e attanagliati dai sensi di colpa, a mangiare nervosamente gelato ripensando ai piccoli e grandi tradimenti perpetrati nei suoi confronti.

È curioso notare come un suicidio in diretta alla fine del telegiornale di una giornalista in polemica con il suo network sia stato pressoché dimenticato dai più per oltre 40 anni per poi essere ripescato in due progetti cinematografici profondamente diversi, totalmente indipendenti e pressoché contemporanei. È curioso che sia passato così tanto tempo, perché quella di Christine è una storia forte e drammatica, una storia in grado di tenere praticamente da sola un film, una storia potenzialmente paradigmatica del mobbing, delle derive del quinto potere alla ricerca delle notizie più forzatamente rosa o più forzatamente nere in base ai gusti del pubblico, della depressione più cupa e inarrestabile. Una storia talmente in grado di autosostenersi, però, che Antonio Campos le dà troppa fiducia e troppa centralità, affidando agli occhi, alle labbra e alla voce graffiata di Rebecca Hall il ruolo più importante della carriera senza però saperle costruire attorno un qualche reale guizzo linguistico o narrativo che possa aiutarla a elevare la sceneggiatura e la regia dalla mediocrità televisiva che le attanagliano. L’argomento è forte, l’attrice è perfettamente in parte e ammalia dal suo stato di grazia, gli anni Settanta sono ben ricostruiti fra le scenografie degli studi TV e i Maggioloni gialli, le umiliazioni lavorative e la crisi di nervi di una ventinovenne ancora vergine, sola e segretamente innamorata dell’anchorman che le preferisce la biondina dello sport sono ottimamente narrate, eppure Christine finisce per trascinarsi troppo pigramente nei suoi 125′, ancorato a una forma classica e rigorosa che limita i suoi possibili sbocchi concettuali ed emotivi, troppo stretto nei confini del “tratto da una storia vera” per riuscire ad aggiungere alla ricostruzione dei fatti e all’indiscussa bravura dell’attrice protagonista un qualcosa che sia davvero originale, personale, teorico. Non c’è spazio per l’onirico, non c’è spazio per un sociale che viene sfiorato nelle interviste, nei servizi e nel dialogo con il magnate proprietario del canale televisivo ma del quale mai si parla per davvero, non c’è spazio per un discorso serio su quanto possa essere fagocitante la stampa, e non c’è quasi spazio nemmeno per i sentimenti, in un film che scorre fluido ma che mai si eleva sopra le righe.

Christine vive i propri insuccessi e il proprio crescente stress fra qualche raro lancio dallo studio, troppi servizi che le vengono affibbiati senza che le interessino e lunghi momenti passati alla moviola a visionare e rimontare il materiale rigorosamente in 16mm del tempo. È sola da sempre, con ripetute fitte e una formazione tumorale a un’ovaia che se rimossa le impedirebbe probabilmente di avere bambini. Vive quasi con gelosia la nuova relazione della madre, con cui ancora abita, con un uomo molto più giovane, e ha due soli amici, la (in)fedele operatrice che ben presto la scavalcherà e il collega del meteo, mentre con tutti gli altri non riesce a far scattare la necessaria chimica, chiusa com’è, riservata e depressa. Nemmeno con l’aitante anchorman, interpretato da un Michael C. Hall che dalla freddezza omicida di Dexter passa al ruolo dello sportivo falcidiato dagli infortuni, poi insicuro ex-alcoolista e cocainomane che si è riabilitato e ha trovato una propria carriera che lo condurrà presto a Baltimora in una rete ben più importante di quella per cui lavora con Christine, e che ora vorrebbe aiutare la collega in cui vede speculari quelli che erano i propri dubbi e le proprie incertezze prima di riuscire ad affermarsi, riesce a scattare quella scintilla che Christine sognerebbe. Paradossale la sequenza in cui, nel momento in cui tutti si aspetterebbero il bacio fra i due, lui la accompagna invece a una sorta di seduta comune di rehab, convinto di agire per farle acquisire fiducia in se stessa e invece spingendola ancor di più nel proprio baratro di dissimulazione e devastazione interiore. Christine vede il proprio crepuscolo e si reca in armeria, piomba di notte a casa del proprietario della rete televisiva per implorarlo di trasferirla ma riceverà in cambio una lavata di mani e ulteriori notizie ferali, fino a quando non riuscirà a tornare in video, e in aperta polemica con chi voleva servizi più forti e più crudi compirà il proprio ultimo atto, il colpo di scena, l’uscita in grande stile. Non c’è consolazione, in Christine, c’è solo una donna fragile che sceglie la via più tragica possibile nella ricerca della propria risolutezza. C’è il suo dramma, c’è la sua vita, ci sono le sue passioni negate. Dopo, rimane solo lo spazio per la tristezza, per il rimorso, per le nuove solitudini di chi c’era ma non aveva capito nulla. Christine, in definitiva, non è affatto un brutto film, narrativamente saldo, forte del proprio agomento e della propria interprete, senza particolari sbavature. Ma siamo sicuri che questa buona fiction, di fronte ai mille possibili orizzonti che una storia del genere può aprire nel Cinema, ci basti?

Marco Romagna

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