Secondo capitolo della già annunciata trilogia sul “Grande Nord”, Yoga Hosers di Kevin Smith, più che essere un vero e proprio seguito del precedente Tusk, ne riprende ambientazioni, suggestioni, (buona parte del) cast, ma cambia tono virando decisamente verso il demenziale, specie nella seconda parte, e finisce per rappresentare un netto passo indietro rispetto alla già non esaltante opera precedente. Che però conteneva un’idea fortissima di messa in scena (il mostruoso tricheco) e aveva in Michael Parks un “villain”carismatico anche se eccessivamente logorroico (Smith vorrebbe tanto essere Tarantino, e Clerks negli anni Novanta ci aveva anche illuso che potesse quantomeno provare a diventarlo). Qui tutto è apparecchiato per esaltare le capacità attoriali della coppia di protagoniste, Harley Quinn Smith (figlia del regista) e Lily-Rose Depp (figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis, entrambi in scena), e l’effetto riunione di famiglia si fa sempre più strada in una seconda parte scombinata e delirante che affastella sequenze senza apparente nesso logico e causale a fare da trait d’union. All’apparenza non un gran difetto per una produzione del genere, ma l’impressione di star guardando qualcosa che diverte molto più i realizzatori che i fruitori è sempre dietro l’angolo. Gran partenza, comunque: le due protagoniste, lo stesso nome, un’amicizia simbiotica e il medesimo impiego come commesse in un minimarket, ci riportano ai tempi di Clerks declinando tutto al femminile. E allora si può chiudere momentaneamente il negozio per andare in bagno o ancor meglio a suonare nel retrobottega con un improbabile batterista trentenne e tatuato, si commentano le fattezze dei vari clienti, ci si fotografa compulsivamente con lo smartphone, e una volta tornate a casa ci si punzecchia con la reciprocamente odiata nuova fiamma del padre fino a interromperne gli amplessi a colpi di canzoni romantiche suonate a tutto volume; è una doppia variazione sul tema, sessuale e generazionale, che c’immerge subito in una sorta di contenitore di tutto il cinema precedente di Smith.
Ecco un’altra imitazione tarantiniana in minore, la creazione di un mondo parallelo che attraversa la filmografia, con caratteristiche precise per far sentire “a casa” i fan e una serie di leit-motiv e di facce attoriali utilizzate e fatte entrare in scena appositamente per scatenare l’effetto nostalgia. Sarebbe stato bello vedere soltanto un aggiornamento di Clerks, una sorta di replica dell’operazione che Ben Stiller ha recentemente fatto con il (poco riuscito) seguito del cult Zoolander, magari con Dante e Randal a sovraintendere le due scatenate sedicenni, ma qui siamo all’interno dell’operazione “Grande Nord”, siamo in Canada, e l’elemento “fantastico” reclama il suo spazio. Dalle folli mutazioni di Tusk, ai salsicciotti nazisti parlanti e semoventi ripieni di crauti di Yoga Hosers il passo (non) è breve. Nei sotterranei del negozio, un pugno di nazisti canadesi (il racconto a scuola della professoressa di storia su questo dimenticato capitolo di storia canadese, protagonista assoluto l’Adrien Arcand del cresciuto Haley Joel Osment, è uno dei momenti più godibili fra i deliranti comizi del fuhrer canadese e le sue marce con quattro-cinque seguaci) ha installato un laboratorio segreto dove far crescere e sviluppare i wurstel, ma un blackout interrompe il processo di crescita: ecco che i Bratzi (tutti interpretati da Smith digitalmente replicato con fattezze che ricordano Adolf Hitler) sono pronti a sterminare chiunque gli capiti a tiro. Si ride tanto, e in più punti, almeno finché arriva in scena il personaggio che affosserebbe qualunque produzione, il disastroso detective Guy Lapointe di Johnny Depp. Il regista crede molto nelle potenzialità di questo simil Clouseau, e ferma la narrazione in più punti per inquadrare in campo medio Depp che fa le faccette e la voce buffa: assolutamente insopportabile, ed è incredibile che Smith non se ne accorga. Per il resto l’appassionato e creatore di fumetti (Smith è anche questo) emerge in più punti, su tutti un gustoso cameo di sua maestà Stan Lee, ormai perennemente impegnato nella dispensazione di comparsate anche al di là dal Marvel Cinematic Universe.
Perché il film, fra un Canada-non-mondo costantemente parodiato e i wurstel nazisti lanciati contro i critici d’arte al grido “Wunderbar”, è anche (e soprattutto) un frullato di cultura pop, che affastella la passione moderna per lo yoga (qui usato un po’ con la funzione del “dai la cera, togli la cera” del Karate Kid di Avildsen) alle onomatopeiche scritte che accompagnano i colpi inferti prese direttamente dal Batman televisivo originale degli anni Sessanta. Un film, quindi, che può piacere anche molto, se si viene intercettati dall’umorismo, a volte raffinato e a volte scatologico, che l’operina dispensa a piene mani, ma può però anche risultare respingente verso chi ha bisogno di un filo conduttore che unisca i vari “sketch” uno all’altro. Le intenzioni sono apprezzabili, i gusti di Smith sono i nostri, Lily-Rose Depp ha un futuro assicurato (e qui è davvero molto brava), ma non possiamo proprio approvare totalmente l’operazione, perché terrificanti cadute di stile raffreddano l’entusiasmo, perché alla risata di gusto segue sempre il basito sconcerto, perché l’anarchica follia non è incanalata in una struttura che ne regga l’urto. Non è solo colpa di Johnny Depp, sia chiaro, ma grandissima parte della colpa è sua e del rispetto quasi deferente che Smith gli riserva: possiamo capirlo, negli anni Novanta era il miglior attore statunitense in circolazione anche e soprattutto per le scelte operate, ma ormai è passato del tempo, e il Nostro non ne azzecca più una. Una breve postilla in chiusura: le imitazioni degli attori americani maggiormente in voga negli anni Ottanta, di un Ralph Garman il cui folle nazista Andronicus Arcane avrebbe probabilmente meritato più spazio, rappresentano un momento spassosissimo, pur nel suo “non sense”. Ecco, il problema è allora forse la scarsa qualità degli “a parte” slegati dal contesto: quando funzionano come nel caso appena citato, il problema della scarsa consequenzialità diventa decisamente meno rilevante.
Donato D’Elia