27 Aprile 2017 -

AUTO FOCUS (2002)
di Paul Schrader

Nel 1999, mentre la morte di Kubrick sanciva l’inizio di un nuovo percorso di visioni per il nuovo millennio con il voyeurismo metafilmico e mortuario di Eyes Wide Shut, altri autori del cinema hanno avviato come conclusione del 20esimo secolo svariati discorsi: Lynch ha perforato le aspettative surreali del suo cinema riportandole al primitivo umanismo della campagna americana con Una storia vera, Cronenberg ha ripreso le tematiche e gli orrori dei suoi capolavori più noti per trasportarle in un ultimo vero body-horror applicato al mondo ancora inesplorato dei videogiochi con eXistenZ, Sokurov cominciava la tetralogia del potere partendo da una figura che non dovrebbe abbandonare il ‘900 come Hitler in Moloch, Brakhage cominciava le Persian Series e anche Oshima concludeva la propria carriera con Gohatto. E poi Schrader, contro tutti e contro tutto, produceva Forever Mine, noto in Italia come Le due verità, noir romantico con tratti gangster che gira attorno ad un amore per l’arte della narrazione che si riflette sull’amore proibito e immorale tra il protagonista Joseph Fiennes e la sua amata Gretchen Mol. Tra amplessi passionali alle spalle del marito di lei e una trama che si sdoppia rivelando la propria fallibilità e la propria retorica con una sincerità che ha del tragico, si arriva ad un finale semi-aperto che si conclude con le due parole che compongono il titolo originale del film: ed è così che Alan (Joseph Fiennes) sarà “forever mine” negli occhi di Ella (Gretchen Mol). L’amore per il racconto li unisce, ed è attraverso una trama, un racconto, anche abbastanza assurdo, che si crea l’unione, si forma l’amore. Si forma il film, si forma l’intrigo, si forma l’immagine del luogo, reale nell’inquadratura ma onirico per forma e colore, un albergo rosso che regna su tutto e sovrasta tutto e diventa icona, proiezione del mondo. Se vogliamo provare a teorizzare che anche questo fosse un messaggio di fine secolo, possiamo immaginare che la “morale” sia quella che la bellezza del racconto (all’interno del cinema) influenza la grandezza dell’esterno del cinema, e che il nuovo cinema del nuovo millennio deve fondarsi su questo, sul racconto e sulla sua potenza di esso e su come esso può distruggere le pareti dell’immagine attraverso suddetta potenza. Non è d’obbligo l’esplicitazione del fattore metacinematografico, lo sguardo in macchina, l’abbattimento visuale delle pareti che c’è, ad esempio, in Mishima: basta mischiare i generi, confondere lo spettatore sullo scopo stesso del film, e viaggiare col cinema e nel cinema da uno sguardo all’altro, da un volto all’altro, da uno schermo all’altro.

Come abbiamo detto nel primo pezzo di questo approfondimento su Schrader (ovvero trattando Hardcore), Schrader è un iconocloasta che destruttura le immagini cinematografiche, un figlio un po’ sfortunato delle meraviglie della New Hollywood con i suoi capolavori dimenticati. È uno sceneggiatore dai mille riferimenti, che prende la struttura dei film classici e li traspone nel moderno, rendendo ad esempio Sentieri selvaggi (1956) di John Ford una storia di depressione noir newyorchese o di pornografia minorile in Taxi Driver (1976) o nel succitato Hardcore, o applicando una mano neorealista nel descrivere la lotta di classe in Tute Blu (1978) ma con una regia che si confà al thriller americano anni ’70 e svariati momenti comici per far esplodere l’eccentricità di Richard Pryor, o ancora inserendo Bresson in storie puramente americane di redenzione e distruzione. In questo inizio di terzo millennio colmo di sensibilità diverse e rinascite/rinascimenti del cinema dei singoli autori, Schrader è tra i vari a far parte o a collaborare con il mondo della New Hollywood ad essere ancora in piedi, ancora in attività, ancora pronto a rivoluzionarsi e a rivisitare i propri fantasmi e i propri mondi in continuo collasso. Per non prendere in considerazione film appartenenti forse ad un suo (sotto-)cinema nel suo cinema da ancora rivalutare e ripensare, ad esempio film come The Walker, possiamo buttarci in Auto Focus, forse primo film di una serie concettuale ancora non conclusa da Schrader piena di alti e bassi: una serie sull’impossibilità di determinare e limitare certi stilemi del cinema di genere, mostrata attraverso i dogmi di tali generi con abbastanza movimenti di macchina e discussioni interne da distruggere quel genere e dimostrarne l’inattualità e nel contempo la potenza. Adam Resurrected può far parte di questa serie con il suo smascheramento schizofrenico e pagliaccesco dei ritmi depressi del cinema sull’Olocausto, anche The Canyons con la sua fredda pornografia anti-cinematografica e i suoi stolti burattini in mondo thriller, anche Dog Eat Dog con la sua nostalgia, il suo nichilismo, la sua carica autodistruttiva e ironica che si ciba del pulp e tenta invano di dargli un’umanità che forse non merita. In tutto ciò, Auto Focus è un film biografico, che racconta con molte libertà la storia di Bob Crane (1928-1978), batterista in strip club e stazioni radio e attore noto soprattutto per essere stato il protagonista in una longeva serie TV satirica in un campo di prigionia nazista, Gli eroi di Hogan (1965-1971), una serie di successo che col tempo è stata rivalutata e descritta come una delle peggiori serie di sempre. La vita drammatica di Bob Crane include due matrimoni e 5 figli, ma ricava la maggior parte delle proprie potenzialità filmiche da una costante dipendenza da sesso legata alla sua amicizia con un tecnico video, ingegnere del suono e venditore Sony chiamato John Carpenter (nessuna relazione con il regista di Halloween), con il quale abbordava donne e faceva orge sotto l’occhio attento di una macchina da presa tenuta in mano tendenzialmente dall’amico. Bob Crane è morto per un colpo di pistola in testa ricevuto nel sonno, e il mistero permane. Auto Focus, pur non essendo stato scritto da Schrader ed essendo stato sceneggiato dalle mani di Michael Gerbosi alla presa con il suo primo e unico sforzo cinematografico, contiene sin dalla parola scritta molte tematiche coerenti con il mondo degli schermi del suo cinema. Il regista, qui più che in molti altri suoi film anche più belli, fa di tutto per trasformare la sceneggiatura per renderla multiforme e complessa a livello formale, modificando via via i toni del film e mostrando in superficie, ma non senza una sua profondità, lo sguardo di Bob Crane. Il film comincia classico, distaccato, coerentemente intrattenente e divertente nel mostrare da lontano le vicende umane frenetiche di un uomo americano dal volto dolce e pseudo-eroico, un volto, quello dell’attore Greg Kinnear, puramente anni ’60. Sprazzi di umorismo, montaggi quasi pubblicitari che elogiano il seno femminile, un fremere classico e quadrato che respira da ogni inquadratura grazie ad un’essenzialità formale che non avvicina quasi mai gli esseri umani troppo alla macchina da presa.

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Possiamo prendere come esempio una frase di Charlie Chaplin: “La tragedia è la vita in primi piani; la commedia è la vita in campi totali”. Se prendiamo questa frase, dalla quale Jean-Luc Godard ha tratto le basi per il suo capolavoro del 1961 La donna è donna (che parte dalla teorizzazione di un suo opposto: “farò una commedia in primi piani, così il film sarà tragicomico”), come spiegazione del cambiamento climatico del film che giunge con la lenta penetrazione, sessuale e non, del grottesco Carpenter di Willem Dafoe nella vita di Bob Crane, si può aprire una lettura per il film: un commento stilistico sul genere biografico, un genere con cui Schrader ha sempre giocato (v. Mishima e Patty Hearst) ma con cui dice di avere molti problemi, e sul come e perché trasformare la vita in cinema. Il film è dall’inizio alla fine girato in 35mm e quindi su carta (anzi, su pellicola…) il cambiamento sembra non esserci, ma a livello visivo si nota un graduale presentarsi di primi piani e di scene fotografate con un approccio meno classico e più chirurgico, meno anni ’70 e più anni ’00, come manifestando “ufficialmente” l’approdo del regista di American Gigolò al nuovo millennio attraverso una storia che comunque guarda al passato con uno sguardo moderno: che destruttura, che rivisita, che resuscita i demoni della corruzione di uno sguardo. E si può notare anche dalle immagini qui sopra, con il totale distaccato e solare degli anni ’60 pre-turbine di sesso e corruzione e il primo piano decadente, rugoso, sudaticcio, triste e oscuro che attanaglia Crane verso la parte conclusiva del film. Anche la vita umana, se filtrata attraverso il cinema di Schrader può di-mostrarsi come un flusso di immagini, di set televisivi che diventano incubi erotici, di schermi che si rincorrono e voyeurismi che diventano regie, di film che non sono film ma che diventano film negli occhi degli uomini che si distraggono dal cinema e degli uomini che giungono all’odio per il cinema attraverso l’amore per la sua perversa fallibilità: ovvero, i porno, gli schermi che si devono spegnere in Hardcore, le videocassette di Auto Focus che diventano cellulari in The Canyons. È in quell’incubo sul set televisivo che si dimostra maggiormente l’ansiogena influenza dell’immagine filmica, l’incrociarsi tra realtà e l’importanza di questa osservazione costante, oscena e pervertita nella vita dell’uomo. Un uomo/Crane, un uomo/Kinnear, un uomo/Schrader che sperimenta e dirige e vive di cinema e di pornografia, di depressione e di alcolismo, di emozioni più o meno finte e di sesso, compreso un morboso, implicato, triste omoerotismo represso dall’uomo stesso. Solo nel finale, con la fredda e misteriosa morte, la vita (o meglio: il suo annullamento, e comunque la realtà stessa) sembra vincere sull’influenza dell’immagine, bloccando la storia nell’istante del freddo ed enigmatico omicidio irrisolto, concludendo con la semplicità della Storia e della vita di Crane, con l’attimo della morte, con la discesa negli Inferi del nulla, con l’effimerità, la caducità.

C’è chi accusa Schrader di essere prevalentemente un freddo teorico di immagine cinematografica, ma sinceramente, anche considerando i film più concettuali e intellettuali del regista come Mishima, Cortesie per gli ospiti e gli stessi Auto Focus e The Canyons, ci pare difficile davvero capire chi non vede nel cinema del nostro un’enorme e drammatica umanità, che a volte si manifesta con enfasi tragica, a volte con eleganza e studio del conflitto morale, e a volte, come in Auto Focus, semplicemente mettendo in scena i mostri dell’uomo e creando una necessaria immedesimazione tra lo sguardo disumano dell’uomo cinematografico (Crane/lo schermo) e lo spettatore. In tutto ciò, vive fantasmatica un’America bifronte come Giano, tanto presa dal conflitto spettacolo/privato quanto la Nashville di Altman è presa dal conflitto spettacolo/politico, suddivisa in sogno e reale ma immersa nell’ipocrisia di una decostruzione basata sulla costruzione: di un set, di una parete per bloccare il set stesso e per rendere dunque l’assenza di via di fuga del sogno-messinscena, di un personaggio, di un’immagine – nel senso di icona, di simbolo permanente. E si ritorna al decadimento delle pareti del cinema e della necessità del fittizio, alla resa mostruosa del mondo-teatro goldoniano sotto la forma di vita e morte del sogno americano, si ritorna dunque alle ossessioni decedute della New Hollywood, quelle che portarono alla morte commerciale di Coppola quando fece Un sogno lungo un giorno (1982). Un’America cinematografica, Stati Uniti dal sangue e dalla speranza in un volto, o sempre in una resa iconografica di esso, un sorriso. Che poteva essere quello di Bob Crane o di Greg Kinnear, e che non poteva essere quello di John Henry Carpenter o di Willem Dafoe, ma non è stato nessuno dei due; nelle loro maschere tragiche rimane viva solo la perversione pornografica e non la vita, l’espansione verso il futuro del paese o dell’America vista come istituzione. E poi il mistero, la morte, di un sogno che non c’era, di un mondo che non c’era, di un cinema, di una corrente rivoluzionaria vissuta sin troppo poco, per la quale Schrader è sin troppo importante, rivitalizzatore, eretico, algido manipolatore di contenuti. E con questo svelamento anche onirico delle paure, delle impotenze e delle ipocrisie dei volti uccisi dal cinema, il regista ha firmato l’ennesimo capolavoro e il perfetto inizio per un nuovo percorso, quello di un nuovo millennio, con il suo sguardo, la sua follia, il suo sbattimento di palpebre e i suoi corpi stuprati dalla macchina da presa, come Eyes Wide Shut ha forse teorizzato. E tra un occhio e l’altro ci siamo noi spettatori, perversi cinefili, crudeli divoratori di quelle stesse immagini, di quegli stessi sogni e incubi, di quella stessa sovversione e blasfemia, vivi, effimeri, neo-Carpenter, neo-Crane.

Nicola Settis

“Auto Focus” (2002)
105 min | Biography, Crime, Drama | USA
Regista Paul Schrader
Sceneggiatori Robert Graysmith (book), Michael Gerbosi
Attori principali Greg Kinnear, Willem Dafoe, Rita Wilson, Maria Bello
IMDb Rating 6.6

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