4 Settembre 2021 -

FULL TIME – AL CENTO PER CENTO (2021)
di Eric Gravel

È una sorta di ideale punto di sintesi fra i fratelli Dardenne e i Good Time(s) dei fratelli Safdie, À plein temps. O, se si preferisce, fra Ken Loach e Brian De Palma, o ancora fra Stephane Brizé e le musiche elettroniche à la John Carpenter. Un dramma sociale profondamente politico, di proletariato che nelle progressiva elisione della classe media sta sempre più drammaticamente sprofondando nella povertà, che ai pedinamenti e alle dilatazioni del dramma preferisce il potere ansiogeno delle forme frenetiche e martellanti del thriller. Senza bisogno di omicidi o di intrighi internazionali, senza bisogno di inseguimenti o di piani segreti. Le hitchcockiane “coltellate nella doccia” di Eric Gravel, tornato alla regia a quattro anni da Crash Test Aglaé, sono semplicemente i gesti forsennati e stranianti di ogni quotidiano arrivo a Parigi, la metropolitana e il cartellino, i palazzoni e il traffico, l’armadietto e la divisa, i cuscini da mettere in forma e l’aspirapolvere, la radio con cui coordinarsi fra colleghe e la corsa a perdifiato per non perdere l’ultimo treno al ritorno, la tensione che taglia il respiro sperando ci sia ancora abbastanza sul conto ogni volta che si striscia il bancomat. Una settimana di convulsa immersione nell’asfissiante esistenza di una madre single che nient’altro vuole che un’esistenza migliore per i propri figli, fra la campagna e la città, fra troppo anziane baby sitter e scioperi dei mezzi, fra il doversi accontentare di pulire e profumare «la merda dei ricchi» nel lusso sfrenato dell’albergo 5 stelle in cui è cameriera e i colloqui per aspirare a un posto di lavoro meno umiliante. È di Julie il ‘tempo pieno’ del titolo. Un tempo fatto di giornate sempre di corsa fra i bambini e il lavoro, fra il paesino la schiacciante metropoli, fra lo scaldabagno che fa i capricci e le telefonate senza risposta all’ex marito. Un tempo incubale come la follia della quotidianità, nel quale dopo una giornata di lavoro e di viaggi sempre più difficili da portare a termine ancora ritrovarsi a dover mettere i figli a letto, rassettare la casa, lavare, lavarsi, stirare e (ri)studiare, rispolverando le vecchie competenze, per quell’auspicato posto come direttrice marketing. Ma soprattutto un tempo di complicazioni da risolvere, di tunnel che paiono senza via d’uscita, di impossibilità a cui dover trovare lo stesso e per forza una soluzione, durante quello sciopero a oltranza dei mezzi pubblici – un diritto inalienabile che il film non vuole in alcun modo mettere in discussione, ma del quale le ripercussioni sono un perfetto spunto narrativo con cui stringere sempre più il cappio intorno al collo della protagonista – che, con un’auto che non va nemmeno più in moto e un conto in banca che di certo non consente di affittare un mezzo al giorno, rende quasi impraticabile ogni necessario spostamento.

Inizia pochi minuti prima della sveglia, À plein temps (in uscita in Italia con il titolo internazionale Full Time seguito dal discutibile tag Al cento per cento), al termine di quella notte sempre troppo breve. Gli unici momenti di dettagli rilassati, di pelle che si tende a ogni respiro e di capelli che si allungano sul cuscino. Ma non è un sonno realmente tranquillo, quello di Julie. È un sonno iniziato con un qualche incubo nella vasca da bagno, e proseguito per poche ore prima di ricominciare già da molto prima dell’alba a correre. Con i figli da lasciare per forza a qualcuno che possa portarli e andarli a prendere a scuola, con il treno per Parigi, con la metropolitana fino all’albergo, e poi con quelle camere da preparare alla perfezione senza tralasciare di compilare le schede di valutazione delle colleghe che dirige, ma al contempo con la necessità di farsi coprire – se necessario anche in maniera non esattamente legale, quando un cambio turno è impossibile e il permesso non viene concesso – e di trovare un taxi che la possa accompagnare avanti e indietro al momento degli appuntamenti per i colloqui in quella che vorrebbe diventasse la sua nuova azienda. Un posto di lavoro nel quale essere «leale» e sentirsi ben più realizzata per stipendio, orari e competenze, senza più il disgusto e l’idropulitrice quando «abbiamo un Bobby Sands» che vuole fare la rockstar, senza più gli straordinari senza i quali non si arriva a fine mese, senza più quella precarietà assoluta per la quale da un giorno all’altro potrebbe non funzionare più il badge e non aprirsi più la porta. Perché è un’ebollizione progressiva, l’opera seconda che il cineasta dalla doppia cittadinanza francese/canadese porta fra gli Orizzonti di Venezia78 con il montaggio impetuoso di Mathilde Van de Moortel e le travolgenti esplosioni musicali dei sintetizzatori di Irène Drésel. Un’oppressione che cresce inesorabile nel corso di tutti gli ottantacinque minuti, nell’avanzare della quale sarà sempre più difficile (una notte addirittura impossibile, nell’evidente nervosismo dell’anziana ormai troppo stanca per tenerle i figli) riuscire a spostarsi e a organizzarsi nel montare di problemi sempre più grandi, fra la mancanza di qualcuno al proprio fianco e lo sgretolarsi delle poche certezze, che si dipana incalzante in un film sul tempo, quello a disposizione, quello percepito, quello perduto per sempre, quello in cui correre prima che sia troppo tardi. Quello in cui ritrovarsi a piangere. Cederà il lavoro, fra le incomprensioni e qualche ritardo in albergo, con la collega vista e licenziata mentre le timbra il cartellino, cederà l’illusione, con l’imbarazzo di quel fugace bacio al poliziotto e con quella telefonata promessa che non arriva, e cederà in un piccolo braccio ingessato persino il tappeto elastico che Julie, in mezzo alle sue giornate caleidoscopiche, riesce a trovare il tempo di comprare, portare a casa in furgone e regalare al figlioletto per il suo compleanno. Fino a ritrovarsi senza più nulla in mano, a truccarsi nascondendo le lacrime di fronte allo specchio, a sentirsi dire in faccia «forse per Natale» anche da quel negozietto di alimentari locale nel quale mai avrebbe voluto lavorare. Ma a portare ancora i figli al parco, da madre che non manca mai. Tanto che non può esserci che la quiete, al termine di ogni tempesta. Non può esserci che la redenzione, al termine di ogni parabola di sofferenza e quotidiana resistenza. Non può esserci che un nuovo inizio, con un cellulare che suona e un sorriso che finalmente si dipinge sul volto, ad annunciare il lieto fine di nuovo contratto da firmare.

Marco Romagna

“À plein temps” (2021)
85 min | Drama | France
Regista Eric Gravel
Sceneggiatori Eric Gravel
Attori principali Laure Calamy, Olivier Faliez, Lucie Gallo
IMDb Rating N/A

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