Sarebbe piuttosto semplice, ma in definitiva profondamente superficiale e limitante, relegare il teoricissimo Nightmare Cinema alla sua prima possibile definizione di nuovo capitolo che porta avanti il filone degli horror antologici. Certo, è innegabile che sia un film a episodi, è innegabile che raccolga cinque cortometraggi realizzati da altrettanti conclamati registi del genere, così come è innegabile che a tenere le redini dell’operazione ci siano la stessa mente e le stesse mani, quelle di Mick Garris, che già fra il 2005 e il 2007 avevano ideato e coordinato la serie Masters of horror, trasmessa dal network americano Showtime e poi più o meno in tutto il mondo. Ma Nighmare Cinema, nel suo porsi come calderone che esplora a dieci occhi e a dieci mani le possibili e versatili forme dei sottogeneri del terrore, emerge sin da subito come una sorta di passo successivo rispetto ai Masters of horror e derivati, come un livello superiore che va ben oltre il divertissement cinefilo, va ben oltre l’omaggio ai grandi maestri più che suggerito nelle narrazioni e poi esplicitato nei titoli di coda dedicati ai grandi assenti Wes Craven, Tobe Hooper e George A. Romero, va ben oltre le singole autorialità di chi lo ha realizzato, e va ben oltre anche i singoli episodi che lo compongono e che vengono di volta in volta meta-proiettati sullo schermo dello stesso cinema, più che brillanti nel loro continuo inanellare trovate e picchi di tensione come pezzi di bravura dei singoli registi, ma soprattutto votati nella loro schematicità di successione e di progressiva stratificazione a un discorso più grande, in cui la teoria (meta)cinematografica procede a braccetto con la psicologia, l’ontologia si mescola alla metafisica e la paura più irrazionale nient’altro è che il manifestarsi di quella esistenziale. Fino a giungere non solo al senso più intimo del cinema horror come viaggio nell’incubo in cui conoscere i nostri lati più nascosti, ma anche al ritorno e al ribaltamento di tutto questo, con i nostri lati (non) più nascosti che proprio dall’incubo horror, e quindi dal cinema, prendono coscienza dell’ineluttabilità di quel futuro che noi stessi, immersi nella continua sovraesposizione alle immagini, abbiamo creato e reso non più suggestione, possibilità e alternativa, ma unica realtà possibile.
Il talentuoso argentino Alejandro Brugués diverte e impressiona mescolando lo slasher classico di Hooper, Carpenter e Cunningham con uno sci-fi dagli echi cronenberghiani, che fra adolescenti, mummie, ragni alieni e improbabili crossover fra Jason Voores e Rick Moranis in maschera da saldatore ribalterà più volte il punto di vista portando alle estreme conseguenze il concetto stesso di plot twist. Joe Dante torna dietro la macchina da presa a quattro anni da Burying the ex con il suo tipico mix di orrore e commedia surreale, mettendo in scena in un atipico thriller psicologico venato di splatter i rischi della chirurgia estetica fra il traffico d’organi e la follia umana in una clinica degli orrori tutta fatta di corridoi depalmiani, vertigini d’anestesia, lamenti nella notte, sogni/incubi e tensione che cresce una cicatrice dopo l’altra, e non è certo un caso che sia proprio in chiusura del suo episodio innestato nell’orrore ospedaliero e nell’invasività delle operazioni il momento in cui entra in scena nel ruolo del misterioso Proiezionista Mickey Rourke, deturpato dai bisturi e ormai da anni irriconoscibile rispetto al belloccio che fu in Nove settimane e mezzo. Che poi nient’altro è che un modo per riflettere sulla bellezza, su quanto possa essere personale il concetto, e come possa facilmente sconfinare nella mostruosità, nell’orrore, nella maschera, magari a tre seni e senza occhi, che si teme di diventare. Il nipponico Ryûhei Kitamura si diverte invece, in quello che è probabilmente l’episodio più anarchicamente folle, a far rimbalzare preti (che si accoppiano selvaggiamente con suore), bambine, possessioni demoniache e il necessario pizzico di blasfemia fra L’esorcista e i samurai, mentre il britannico David Slade si inoltra in una spirale allucinata di fango, mutazioni, paranoia esistenziale in bianco e nero e complottismi che non potranno che condurre al suicidio. Lo statunitense Mick Garris, oltre a mettere in scena una curiosa rivisitazione de Il sesto senso che guarda in più occasioni a Frankenstein e agli eterni e fantasmatici ritorni di killer psicopatici talmente spietati che nemmeno la morte li potrà sconfiggere, si occupa personalmente di dirigere la cornice narrativa che lega e innerva di senso comune tutti gli episodi, con i cinque personaggi principali attirati uno alla volta, rigorosamente da soli e senza alcun tipo di forzato collegamento uno con l’altro, nella sala cinematografica, tutti incantati dal proprio nome sul cartellone o da una forza misteriosa che li sospinge verso la poltrona, verso il ticchettio del proiettore che parte all’improvviso spegnendo le luci, verso il proprio stesso incubo, verso la propria maledizione, verso se stessi sullo schermo, in un futuro di distopie e angoscia senza via di scampo.
È proprio nella cornice narrativa affidata a Garris, infatti, che gli autori innestano la chiave di lettura di tutto lo straordinario impianto teorico di Nightmare Cinema, presentato fra le Voices del 48mo Festival di Rotterdam e illuminante tanto nelle sue premesse quanto nei suoi assunti, per molti versi godardiani nel loro legare a doppio filo, e far specchiare, il cinema e noi, l’uomo, la società, la realtà, e poi ancora una volta il cinema. In una sala cinematografica nel quale gli spettatori si trovano rigorosamente da soli di fronte al film della loro vita, proiezione del proprio stesso personaggio impegnato contro gli incubi più reconditi, le paure più radicate, il proprio personalissimo orrore, come se il cinema, che noi stessi abbiamo creato rappresentando la nostra immaginazione e le nostre più inconfessabili paure, fosse ora diventato tanto potente nel suo potere immaginifico e nel suo esplorare e mettere in scena l’irrazionale da sfuggirci di mano e ribaltare la situazione, diventando esso stesso – il cinema, attraverso il deus-ex-machina nascosto nel buio della cabina di proiezione – la nuova forza creatrice, la realtà, fasulla eppure più vera del vero, con la quale costruiamo il nostro quotidiano. È il cinema, nato dalle nostre paure e dai nostri immaginari, a formare le nostre paure e i nostri immaginari; è ciò che ri-vediamo che può ri-crearci, prendere il controllo su di noi, diventare una sorta di creatura – o forse un Dio pagano – che tiene in mano senza alcuna possibilità di scampo il nostro futuro. Un futuro, non certo per caso, stampato su pellicola e quindi sul passato, in un eterno cortocircuito in cui solo il Proiezionista Rourke, misterioso e meticoloso nel conservare i rulli di tutti i nostri incubi, infernale e spietato nel portare avanti la maledizione in celluloide, è a conoscenza di quale sarà la prossima bobina da innestare fra gli ingranaggi della macchina. Come a dire che noi siamo il cinema, noi siamo nel cinema, e che il cinema è in noi, il cinema è noi, in una sovrapposizione che diventa corrispondenza, ossessione, timore, ansia, trepidazione, essenza. Che si tratti di una carrellata, di un’inquadratura dal basso, di una porta per l’inferno in cui il caldo della luce rossa diventerà il freddo dei riflessi bluastri. Che si tratti di una maschera sul volto e di un’arma nelle mani, che si tratti di un fantasma, di un interstizio psicologico, di un sogno destinato a virare in incubo. Che si tratti di una statua sacra che piange sangue, di una pistola nella borsetta che chiede solo di tirare il grilletto, di un animale che vuole prendere il controllo, di un corpo in disfacimento, di una mutazione virale, o di una donna senza più volto. Nel magazzino c’è posto per tutte le scatole, e «non si può sfuggire al futuro», perché nessuno di noi potrà mai sfuggire alle proprie paure, né alle proprie irrazionalità, né tanto meno al proprio rapporto col cinema e con le immagini. Si può solo provare ad affrontarle, a razionalizzarle, a viverle. A sedersi nel buio e guardare il rullo, sperando, forse invano, che al termine dei fotogrammi non ci sia la morte. Del cinema, e quindi di tutti noi.
Marco Romagna