25 Maggio 2017 -

120 BATTITI AL MINUTO (2017)
di Robin Campillo

Ha un indiscutibile pregio, il terzo film da regista di Robin Campillo, storico montatore (non solo) di Cantet. Che è poi lo stesso pregio che, nel Concorso di Cannes 70 con Almodòvar presidente di giuria, molto probabilmente lo manderà a premio. Si tratta di un merito politico e tematico, ben più che cinematografico, che si riassume nella frase che una ragazza, all’uscita da scuola, spara in faccia agli attivisti impegnati nel quotidiano volantinaggio: “Io non sono omosessuale, non mi interessa la vostra merda sull’AIDS”. Riceverà in cambio un provocatorio bacio passionale fra due di loro, esseri umani, amanti, (ingiustamente) emarginati sociali con una ben precisa missione. Erano i primi anni Novanta parigini, e la piaga sociale del virus HIV era ancora vista come una sorta di malattia “dei maledetti”, quando non come giusta punizione per chi, in sostanza, se l’era andata a cercare con comportamenti lubrichi come il sesso, ancor peggio se omosessuale, o come la droga. Se infatti la società di oggi, fra separatismi, razzismi e omofobie ancora serpeggianti, non può certo definirsi di larghe vedute, basta fare un balzo indietro di pochi anni, appena venti o trenta, per rendersi conto di quanto il mondo del tempo fosse ancora bacchettone e censorio, troppo impegnato a dare un’immagine pulita e inattaccabile di sé per impegnarsi seriamente nello sviluppo dei farmaci inibitori, per consentire il ricambio di siringhe, o anche solo per parlare apertamente nelle scuole e via media – e quindi a tutti – di sesso, omosessualità, modalità di contagio e precauzioni da prendere per evitarlo.
Se oggi l’AIDS è più o meno tenuto sotto controllo, con le necessarie campagne di informazione e con gli adeguati farmaci, lo si deve principalmente alle associazioni come Act Up, che dalla fine degli anni Ottanta fino a tutti i Novanta hanno progressivamente, un atto dimostrativo dopo l’altro, portato il problema all’attenzione di tutti e lo hanno in un certo senso sdoganato facendo cadere – se necessario anche agendo in maniera aggressiva – quei veli di pudore che paradossalmente nient’altro facevano che alimentare il dilagare dell’epidemia. In questo senso 120 Battements par minute non è tanto un film “sull’AIDS”, e forse nemmeno su chi ne è affetto e cerca di fare in modo, tramite decisioni assembleari e collettive sulla linea da tenere, che la sua esperienza eviti ad altri di incappare nella stessa infezione. 120 BPM è un film sulle gabbie sociali che, questo virus destinato a distruggere il sistema immunitario fino alla morte, l’hanno in un certo senso protetto e fatto dilagare. Quelle gabbie da cospargere di sangue finto, di poster e di volantini, quelle gabbie nelle quali entrare per spiegare per la prima volta come anche una fellatio possa essere pericolosa, o come i profilattici, ben al di là delle gravidanze indesiderate, vogliano dire prevenzione e sopravvivenza.

Quella seguita dal film di Robin Campillo è una linea politica forte, condivisibile. Una linea che, come già detto, in un mondo festivaliero sempre più legato alla tematica e sempre meno alla lingua filmica con cui questa tematica viene messa in scena, porterà con ogni probabilità la giuria a decidere per non rimandarlo a casa a mani vuote. Ma a volte la tematica non basta, o per lo meno non dovrebbe bastare. Campillo mette in scena le manifestazioni, gli adesivi da apporre nelle librerie sui tomi omofobi, i palloncini/bombe di sangue finto con cui tingere di rosso l’indifferenza, le case farmaceutiche che, alla costante ricerca del profitto, mettono in ultimo piano la vita umana, le continue assemblee di un collettivo che, quale che sia la linea, la decide insieme, orizzontalmente e per alzata di mano, così come nel collettivo ognuno rispetta i diversi livelli di malessere di chi presenzia aspettando il proprio turno di parola, non alzando mai la voce, andando a fumare fuori e sostituendo il fragore degli applausi con un più sostenibile, ma altrettanto chiaro nell’esprimere il consenso, schiocco delle dita. Fino a qui tutto bene, ma i problemi di 120 BPM iniziano quando a mancare è quell’asciuttezza cinematografica che sarebbe stata necessaria per portare sullo schermo una simile – e chiara – velleità contenutistica, politica e sociale. Nel corso dei 140′ del film (durata semplicemente inspiegabile nelle sue lungaggini, tanto più da un montatore professionista che sul ritmo dovrebbe necessariamente fondare la propria carriera), è troppa la retorica che emerge dai dialoghi di (scontata) “normalità” dei sieropositivi, è troppo ripetitivo lo schema tripartito assemblea/azione/momento di vita privata di uno dei protagonisti che viene pedissequamente seguito per tutto il film, così come convince poco, a parte la pudicizia sul (questo sì, ottimo) finale di morte e di onori funebri per chi non ce l’ha fatta, la deriva melodrammatica priva di reale sentimento su cui assesta il film la storia d’amore/sesso che occupa molto (troppo?) della seconda parte.
Sono molte le differenze di vedute, in 120BPM. Quelle di chi si sente esterno a tutto questo solo perché, sano, crede di essere superiore ai “viziosi”, quelle di uomini e donne infettati da un male subdolo e oscuro solo per aver vissuto la propria vita e la propria natura. Quelle di chi continua a proporre linee caute e quelle di chi, all’interno della stessa assemblea, preponderebbe invece per azioni dimostrative ancor più aggressive e se necessario violente, perché attendere non serve più a nulla e fa solo espandere il problema. C’è una madre con il figlio malato per via di una trasfusione e del carcere, c’è chi è stato contagiato a 16 anni già alla sua prima volta e ora non riesce a far nulla senza preservativo, c’è un’Adèle Haenel come sempre sontuosa nel lanciare i suoi occhi azzurri e la sua parlantina sempre al di là dell’ostacolo, e poi c’è la necessità di informare su un male (tenuto) oscuro, c’è la necessità di conoscerlo, di capirlo, di controllarlo, di evitarlo – “Knowledge is a weapon”. Ma ci sono anche tante, troppe, battute a vuoto di un film diseguale, che troppo spesso ristagna e si perde, che vuole mettere “troppo” sul piatto senza in definitiva saperlo gestire, che si rifugia nel tema forte per coprire i suoi limiti narrativi e di messinscena. Fino a perdere per strada, nelle reiterazioni e nella retorica, buona parte della sua potenza, buona parte dei suoi spunti di interesse, e forse anche un po’ di sincerità.
120BPM è un film di corpi, corpi di desiderio e di malattia, corpi che soffrono e che quotidianamente lottano, corpi che cercano e che trovano altri corpi, nell’attivismo, nella discussione, nella passione, nella danza. Già, la danza, quella dei 120 BPM della musica house, quella in quattro quarti, quella sulla quale muoversi, quella sulla quale sentirsi vivi nonostante tutto. Come su una spiaggia, in fuga d’amore, come su un letto, quando il corpo che ti dorme vicino diventa improvvisamente freddo e rigido. E se l’uomo che questo corpo lo ha amato e poi lo ha trovato, sempre seguendo la natura, non potrà che combattere il dolore fra le braccia di un altro uomo, questa morte non potrà che essere l’ultimo e definitivo atto dimostrativo, con le ceneri cosparse sul lauto banchetto di chi, impunemente, di fronte al dolore altrui continua a girarsi dall’altra parte. Il che è cuore, il che è politica, il che è una gran bella chiusa. Ma non basta per legittimare fino in fondo un film che troppo spesso esce dal sentiero, manca l’obiettivo, rimane sospeso nei suoi risultati troppo alterni. Per elevarsi dalla mediocrità, nell’ennesima occasione sprecata in Concorso a Cannes 2017, sarebbe servito ben altro, un film più breve, più asciutto, meno diseguale, più sincero. Anche nel caso, nemmeno così remoto, in cui Robin Campillo dovesse vincere, per il tema e non per il film, per le ossessioni di Pedro Almodòvar e non per il reale valore di 120 Battements par minute, una generosissima Palma d’oro.

Marco Romagna

“BPM (Beats Per Minute)” (2017)
140 min | Drama | France
Regista Robin Campillo
Sceneggiatori Robin Campillo, Philippe Mangeot
Attori principali Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz
IMDb Rating 7.8

Articoli correlati

L’AMORE SECONDO ISABELLE (2017), di Claire Denis di Elio Di Pace
ALSO KNOWN AS JIHADI (2017), di Eric Baudelaire di Marco Romagna
JEANNETTE – L’ENFANCE DE JEANNE D’ARC (2017) di Bruno Dumont di Nicola Settis
CHRISTELLE (2017), di Carmit Harash di Erik Negro
BUSHWICK (2017), di Cary Murnion e Jonathan Milott di Nicola Settis
12 JOURS (2017), di Raymond Depardon di Erik Negro