28 Maggio 2017 -

IL VENERABILE W. (2017)
di Barbet Schroeder

«L’odio è sicuramente la più duratura delle passioni»
George Gordon Byron

C’era una volta il Buddhismo, o almeno l’idea che noi potevamo avere di esso. Sarebbe logico pensare, anche nella nostra continua semplificazione occidentale, a quella religione come una specie di tradizione compassionevole e meditativa, o addirittura come terapia dell’anima che incarnasse valori di pace e rispetto anche lontani dalle codifiche di violenza e sopraffazione che le nostre religioni monoteistiche (Cristianesimo e Islamismo su tutte) hanno spesso incarnato nel passato e non solo. Lungi da me addentrarmi in una situazione così complessa e stratificata (non ne avrei assolutamente le competenze), è interessante pensare a come la distruzione di questo assioma/credenza sia la prima cosa che salta all’occhio in The vénérable W., l’ultimo documentario di Barbet Schroeder presentato fuori concorso a Cannes. L’autore tedesco, da sempre vicino e appassionato al buddismo, ha intrapreso un viaggio tortuoso e complesso all’interno della realtà Birmana, in particolare a Mandalay, per decifrare i fatti successi negli ultimi cinque anni nella regione più culturalmente estremista e calda, per lo meno a livello religioso. Durante questo percorso di avvicinamento molto lento e vorticoso, emergono figure e azioni legate alla repressione feroce e disumana perpetrata contro la minoranza islamica della popolazione, e la creazione di falangi armate pronte a combattere per la “la protezione della razza e della religione”. Attorno a tutto ciò, l’anima di Wirathu, monaco e maestro buddhista, venerato e venerabile che oramai incarna perfettamente le sembianze del più ideologico e radicale dei dittatori.

I prodromi di questa deriva sono datati 2003, quando la propaganda del “venerabile” iniziò (quasi segretamente) a far conoscere i suoi sermoni d’odio, invitando a boicottare i negozi musulmani ed affermando che in breve tempo, lui e i suoi seguaci, avrebbero avuto il potere e le armi per iniziare la repressione vera e propria, negando addirittura il loro diritto di vivere in quegli spazi. Basandosi e rifacendosi al Movimento 969 (degenerazione dell’antica tradizione Theravada che, incarnando la cultura e l’identità buddista, predica nella pratica l’attuazione di un regime religioso e razzista), Warathu inaugura un nuovo conflitto inter-etnico contro la minoranza dei Rohingya con una propaganda sofisticatissima che porterà addirittura al rogo di villaggi. In un primo tempo, sarà addirittura l’esercito a tentare di fermare la spirale di violenze in Birmania riuscendo a condannare ed incarcerare il Maestro. Ma oramai la miccia è accesa, i seguaci si moltiplicano, e cinque anni fa il governo è quasi costretto a concedergli l’amnistia. Da quel giorno il livello dello scontro si alza, la propaganda è una macchina sempre più perfetta e infernale e che spinge verso il massacro fondamentalista tutto il paese, anche con la passività delle autorità militari e governative. Sarà proprio Schroeder ad affermare come questo, probabilmente, possa essere il primo genocidio del nuovo millennio, genocidio del quale ovviamente il mondo occidentale non è consapevole. Oggi, però, le cose paiono forse cambiare, con l’arrivo al potere di Aung Sang Suu Kyi e con le inchieste che stanno accerchiando le sette più calde di questo processo. Emerge dunque quasi una forma filosofico-teologica che già ben conosciamo. La discriminazione della figura del diverso e del degenerato viene esaltata per rafforzare un’identità comunitaria e ancor di più una tesi ideologica, e proprio in questo la religione, e il suo postulare all’esterno di porzioni di realtà, non può che essere l’arma più forte propria di una deriva politica di potere. Servirebbe appunto Feuerbach e il suo ribaltamento dei rapporti di predicazione per liberarsene, anche perché proprio questa sintassi è quella articolata da Wirathu (ovviamente alla rovescia, quasi come alla rovescia perpetua il suo credo da anti-divinità mantenendo, reiterando ed esasperando le strutture dell’appartenenza religiosa) per scardinare anche il secolare equilibrio di convivenza pacifica che contraddistingueva proprio quella regione del mondo.

Per Schroeder questo è il terzo movimento, e conclusione, di questa specie di trilogia del male cominciata con Idi Amin Dada (1974) e proseguita con L’avvocato del terrore (2007). The Venerable W. è un lavoro estremamente complesso, che cerca di far parlare i documenti ed essenzialmente informare una comunità quanto mai sorda come la nostra. Nella sua lentezza narrativa, quest’opera è estremamente, apparentemente anche troppo, didascalica nel respirare l’essenza dell’inchiesta pura, bisognosa di materiali per la sua stessa sussistenza. Vive nell’urgenza calda di qualcosa che non possiamo conoscere, nella necessità di dare una voce agli oppressi, nella provvisorietà di una ricerca d’archivio (in maggioranza sul web) estremamente complessa e di un girato (nei luoghi del dramma) quantomai scomodo e difficoltoso. A emergere nello schema narrativo spesso farraginoso, tuttavia, non è tanto la figura del mostro, ma l’impalcatura che esso è riuscito a creare all’interno del suo popolo, quasi come se il film volesse affermare l’eterno ritorno di un orrore e giustificare una corrente storica (la Arendt soprattutto) che vede una riproducibilità possibile degli schemi sul male all’interno di una società. In fondo, in questo interrogarsi, Schroeder utilizza le immagini per parlare di altre immagini, su tutte quelle dei filmini prodotti dal movimento estremista in cui la minoranza musulmana viene dapprima ridicolizzata, poi discriminata brutalmente, e infine messa in scena come portatrice di un messaggio pericoloso e disumanizzante, che mette a rischio la sopravvivenza stessa della razza buddhista. L’immagine è uno strumento, proprio come la religione; sta all’uomo usarla, e sta al libero arbitrio di tutti gli altri uomini assorbirla o respingerla. Quello che rimane, nonostante tutto, è una dedica di speranza fatta da tutti quei monaci non allineati all’estremismo di Wirathu, a se stessi ma soprattutto al popolo birmano, spesso sordo nell’odio se non complice di questo dramma umanitario e geopolitico. Ai posteri l’ardua sentenza, (di)speranza, appunto.

Erik Negro

IL VENERABILE W. di Barbet Schroeder, distribuito da Satine Film, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione: Con uno sguardo che si tiene laterale per mettere ancora più in mostra la stortura del pensiero del suo protagonista, il monaco birmano islamofobico Ashin Wirathu, Barbet Schroeder firma una regia attonita eppur rigorosa, in un’opera che ragiona sulla politica religiosa, sul pensiero che si autodefinisce “superiore” e sul primato della materia belluina rispetto all’evaporazione della “fede”.
“Le vénérable W.” (2017)
107 min | Documentary | France / Switzerland
Regista Barbet Schroeder
Sceneggiatori Barbet Schroeder
Attori principali U. Zanitar, Kyaw Zayar Htun, U. Kaylar Sa, Matthew Smith
IMDb Rating 7.3

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