El auge del humano, l’apogeo dell’umano, è il punto zenitale, quello più distante, fra esseri umani tanto incompatibili quanto interconnessi, così come fra l’uomo e una macchina sempre più presente, tecnologica, collegata in una rete fitta, ambigua, potenzialmente infinita. Presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente, il lungometraggio d’esordio del cineasta argentino classe ’87 Eduardo Williams è un apogeo che è anche un oscuro apologo, e in un certo senso persino un epilogo: l’umanità ha perso, è come un formicaio che si estende da Buenos Aires al Mozambico e poi giù fino alle Filippine, in una babele linguistica e culturale ormai senza più distanze, nella quale anche nel fitto della giungla può suonare un cellulare o arrivare un sms, e in cui anche una nuotata comunitaria nel lago più sperduto si conclude con la necessità di un Internet point. Complesso e stratificato, El auge del humano è prima di tutto un film sul ribaltamento del ruolo: non è più l’uomo a guardare Internet, ma è Internet a guardare l’uomo, ad avvicinarlo ma anche a condizionarlo, aiutandolo enormemente con le sue svariate funzioni ma al contempo spingendolo nei gorghi più melmosi, fra esibizione e prostituzione. Sarebbe però fuorviante considerarlo un film “contro” Internet: al pari del recentissimo Lo and Behold – Reveries of the connected world del maestro Werner Herzog, il giovane cineasta argentino guarda sì al web e più in generale alla tecnologia con preoccupazione, ma anche con la dovuta ammirazione e la cautela che merita un mondo così complesso, di cui vuole mettere in scena proprio l’ambiguità. Perché basta che salti un wi-fi o che si rompa un hardware per rimettere tutto in discussione, rendendo necessario un nuovo intervento dell’uomo, armato però di altri mezzi tecnologici di precisione.
È molto difficile provare a descrivere una trama, parlando di un film come El auge del humano. Perché il film argentino, nella sua struttura episodica tripartita e connessa prima dal web e poi da un illusorio quanto ideale ritorno alla natura, non ha in realtà la minima intenzione di “raccontare una storia”. Quello di Eduardo Williams è piuttosto un film impressionista e (meta)fisico, ellittico e oscuro, fatto di ambiguità – (omo)sessuali, ma non solo –, aderenze e contrasti alla ricerca di un umanità perduta e forse impossibile da ritrovare. In una Buenos Aires allagata, Exe si licenzia dal lavoro per esibirsi, con i suoi amici, in videocam erotiche in diretta web, con tanto di sasso-carta-forbici per estrarre lo “sfortunato” che, eterosessuale, avrebbe dovuto praticare una fellatio a uno degli amici per alzare lo share e di conseguenza i guadagni. È un modo per suggerire nuovamente ambiguità e complessità, per ricordare ancora una volta di non credere a tutto ciò che si vede, e non a caso quando si passa, attraverso lo schermo, da Exe e i suoi amici a un secondo gruppo di analoghi ragazzi mozambicani fra i quali Alf, questi riceveranno analoghe proposte via chat, ma si rifiuteranno di andare oltre l’esibizione dell’inizio dei peli pubici. Seguendo Alf in fuga nella giungla con Archie, necessario ritorno alla natura dopo l’invadenza del web, sarà una pisciata mattutina su un formicaio, vera e propria simbiosi con la natura dopo il ritorno e geniale intuizione di regia, a portarci, tramite la metafora dell’uomo-formica e del mondo-formicaio, nelle Filippine di Kanh e al terzo mondo differente eppure identico. Cambiano le lingue, cambiano i paesaggi, cambiano i personaggi, cambiano le situazioni, ma rimangono sempre gli schermi al centro della contemporaneità, rimane la comunicazione, rimane la connessione, rimangono gli esseri umani.
Gli apparati tecnologici sono spesso rotti, dal wifi di Exe che smette di funzionare allo schermo dello smartphone venato in mezzo alla giungla, eppure così fondamentali e decisivi per la nostra comunicazione, per i nostri contatti, per il nostro lavoro, per i nostri sentimenti, per la nostra vita. Sono un nostro completamento, un nostro arto aggiunto, un prolungamento, piccole creature che l’uomo deve progettare e poi, come se fossero pazienti in ospedale, operare con cura, saldando i fili di collegamento fra i vari componenti. Internet siamo noi, persone così lontane eppure collegate alla stessa rete, ingranaggi dello stesso macchinario-mondo, piccoli puntini nell’infinito. Internet è sguardo, quello della webcam che diventa oggettiva, quello dell’anziano inquadrato inconsapevolmente che guarda in macchina, quello del regista che osserva e pedina i suoi personaggi. Con El auge del humano, Eduardo Williams gioca con un’umanità che entra ed esce dal centro del mondo, sostituita da ciò che lui stesso ha creato, in una sorta di teoria evolutiva per la quale finiamo per coincidere con i nostri dispositivi e fra di noi, messi in connessione a volte necessaria e a volte quasi forzata dalla globalizzazione e dai tempi che avanzano. Episodico, allegorico e metafisico, il film di Williams è un flusso dal quale farsi travolgere e nel quale perdersi, un flusso che mette in comunicazione zone e umanità riflettendo sulla società, sulla storia, sulla tecnologia e sul mezzo cinema. Non è infatti di sicuro casuale la scelta di girare la prima e l’ultima parte, l’Argentina e le Filippine, la partenza e l’eterno ritorno, in un oscuro e al contempo sfavillante 35mm ad alta saturazione, lasciando però esplodere la pulizia quasi eccessiva di un HD privo di grana anche digitale in quella centrale mozambicana fatta di fughe e pedinamenti. Williams parte dal cinema per tornare al cinema passando per la sua modernizzazione, e al contempo parte dall’uomo per tornare all’uomo passando per la sua digitalizzazione. El auge del humano è un film che mette in scena un’umanità sperduta come una goccia nel mare, un’umanità bizzarra e in costante moto, un’umanità interconnessa eppure appiattita, un’umanità ambigua da interpretare, un’umanità in un’evoluzione che non si sa dove potrà arrivare, un’umanità complessa sulla quale interrogarsi. Un’umanità forse non ancora in grado di trovare le risposte, ma finalmente in grado di porsi seriamente le giuste domande. Abbiamo vinto? Abbiamo perso? Oppure sarebbe finalmente il caso di renderci conto che siamo ancora in tempo per lottare?
Marco Romagna