27 Maggio 2022 -

CLOSE (2022)
di Lucas Dhont

Spesso il film più difficile per un regista è proprio il secondo, quello in cui tentare di confermare la propria autorialità e il proprio sguardo, il decisivo banco di prova con cui definitivamente alzarsi in volo oppure cadere. Tanto più quattro anni dopo un esordio brillante come Girl, vero e proprio ‘caso’ non solo nella Un Certain Regard del tempo con il suo ibrido di genere letteralmente incarnato dal corpo sinuoso dell’attore e ballerino Victor Polster, e con uno stile visivo e di messa in scena barocco e danzante che, pur non disdegnando il ricorso a qualche pennellata d’accademia forse già di troppo, trovava proprio nella fisicità elegante ed enigmatica dell’attore il suo ultimo senso compiuto. Quell’ultimo senso compiuto che invece, in definitiva, sembra mancare a Close, con cui un Lucas Dhont ‘orfano’ dell’attore/corpo del primo film ma sempre bravo nella scoperta di giovani talenti attoriali – in questo caso giovanissimi come i dodicenni Gustav de Waele e soprattutto Eden Dambrine, lui sì veramente sincero e sorprendente per intensità – torna sulla Croisette promosso al concorso principale dell’edizione cannense numero 75 con un’opera seconda che si rivela non tanto, come rilevato dai più che gridano al “compitino”, dalle scelte troppo facili e dalle spalle troppo gracili per reggere una vetrina così importante e per molti versi paradossalmente dannosa quando non la si merita, ma proprio un inaspettato mezzo disastro, diviso nelle sue due metà ben distinte e allo stesso modo glaciali, in cui né l’amicizia (o forse l’amore) giovanile né il superamento del lutto riescono realmente a trovare una propria dimensione o un qualcosa da dire, ma solo la ricerca di un ‘bello’ in fin dei conti vacuo e di una lacrima tanto facile da non riuscire mai ad arrivare. Pure se indubbiamente (e anzi fin troppo) più piccolo, semplice e lineare del film precedente, Close è infatti solo apparentemente meno ambizioso, e anzi nel suo estetizzante mettere in scena senza riuscire ad arrivare da nessuna parte le emozioni dei tredici anni lascia trasparire nemmeno troppo in filigrana la pretenziosità visiva e tematica del trentenne autore fiammingo, che facendo esperire ai suoi giovani protagonisti argomenti esistenziali dalla portata gigantesca vorrebbe parlare di vita e di morte, di amicizia e di innocenza, di ingenuità e di vergogna, di emozioni e di affetto, di incerte attrazioni e di sentimenti che non si può ancora essere in grado di riconoscere, di legami privi di sangue ma non per questo meno “di famiglia”, e poi ancora del trauma, della mancanza, del senso di colpa: non più il prima e il dopo del cambio di sesso di Girl, ma il prima e il dopo della tragedia, il prima e il dopo di chi sopravvive e continua a crescere, il prima e il dopo di chi soffre e non dimentica. Un profluvio di istanze destinate però, proprio come i fiori coltivati nei campi, a rimanere ad altezza bambino senza mai trovare una reale maturazione né un punto di sintesi, e che anzi appesantiscono un film che in realtà è come se fossero due ed entrambi inerti, schematici, costruiti a tavolino sui ponti più sicuri del già collaudato, e quindi inaspettatamente freddi nell'(auto)manierismo malickiano dello sguardo e nei formalismi svolazzanti della loro confezione tanto impeccabile quanto in definitiva priva di cuore. Due (mezzi) film che potrebbero procedere in mille direzioni e che invece si fermano lì, nella struttura circolare e nei piccoli gesti dei protagonisti, nelle paure di chi sta crescendo ma è ancora bambino, negli sguardi d’emozione febbrile ma a dirla tutta pure un po’ ricattatori (abbastanza per puntare a un premio? In realtà conoscendo la sensibilità ‘tematica’ delle giurie per l’infanzia/adolescenza e per lo sviluppo un’identità sessuale che – forse – cerca di emergere nell’omofobia intollerante e ‘assassina’ della società non è affatto da escludere…) che costantemente si scambiano, nel loro progressivo allontanarsi e poi mancarsi per sempre dopo la tragedia. Ma andiamo per ordine.

In qualche modo sta già tutto nella doppia valenza nel titolo: Close, la parola inglese per indicare tanto la vicinanza quanto la chiusura. Quelle del preadolescente Léo e del suo migliore amico Remi, dai giorni inseparabili in cui correre nei prati giocosamente inseguiti da soldati immaginari per poi dormire ogni notte l’uno a casa dell’altro fino alla progressiva ritrosia con punte di machismo (la violenza intrinseca dell’hockey sul ghiaccio e i nonnismi da spogliatoio, ma anche l’aperto scontro fisico fra i due bambini) con cui Léo abbandona o quasi l’amico, mosso da un imbarazzo che non si sa spiegare dopo l’ennesimo insulto omofobo che probabilmente nemmeno sa ancora che cosa voglia dire, o dopo l’ennesimo «state insieme?» di compagne di classe che hanno tutta l’aria di essere meno ingenue di loro. Eppure Dhont non sembra voler mettere in scena la nascita di una malizia, non sembra voler realmente ragionare sul desiderio o sul pudore, non sembra voler puntare a una qualche forma di consapevolezza. Si limita a percorrere i sentieri di un’amicizia giovanile sensibile e un po’ morbosa destinata al più tragico degli sviluppi, che nella prima metà di Close si sviluppa stazione per stazione in maniera sommaria e un po’ forzata ma pure con qualche sprazzo di reale dolcezza che riesce a emergere dagli occhi dei protagonisti mentre si guardano e ancora giocano a girarsi le orecchie per mangiare gli spaghetti, e poi svolta con il trauma che farà totalmente cambiare (ma anche definitivamente precipitare, proprio come le ripetute e alla lunga patetiche cadute pattinando sul ghiaccio) la direzione narrativa e tematica della seconda parte del film verso le rapide del lutto e del suo difficile superamento, a sua volta tanto smaccatamente consequenziale nel suo procedere cinematografico da perdere per strada quasi tutti i pezzi dell’emozione. Salvo poi riaccendersi per brevissimi tratti, con le lacrime che una madre per un attimo non riesce più a trattenere, con uno sguardo impietrito e un bastone nelle mani mentre si confessa un indefinito senso di colpa, con un pullman da cui sembra impossibile riuscire a scendere perché fuori dalle porte c’è da affrontare la realtà. Eppure non si riesce a crescere lo stesso in Close, ingabbiati nella spasmodica ricerca del taglio di luce e nella metafora banale e a grana grossissima, impossibile da non comprendere, della necessità finale di uno sguardo all’indietro e poi di nuovo in avanti verso il futuro. Ancora una volta la vicinanza e la chiusura, ma questa volta del regista belga nei confronti dei suoi protagonisti. Da osservare e sviscerare, da inseguire fra case e scuola (con tanto di strabordanti carrellate laterali “p.t.andersoniane” sulla loro corsa insieme) e da mettere di fronte agli orrori della vita, ma al contempo in qualche modo chiusi e soffocati proprio dalla vicinanza eccessiva di Dhont, narrativamente ed esteticamente intralciati nel loro percorso dall’infanzia all’adolescenza dal bilancino con cui cui eccessivamente soppesa ogni scelta di sceneggiatura e di regia, e dall’affastellarsi di ambizioni esistenziali che non compiono il passo ma che si fermano lì, frustrate e irrisolte. Se questa volta non ci è riuscito nemmeno il cinema, come potrebbe farlo un bambino?

Marco Romagna

“Close” (2022)
105 min | Drama | Belgium / Netherlands / France
Regista Lukas Dhont
Sceneggiatori Lukas Dhont, Angelo Tijssens
Attori principali Émilie Dequenne, Léa Drucker, Kevin Janssens
IMDb Rating N/A

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