8 Settembre 2022 -

BLONDE (2022)
di Andrew Dominik

Nessun regista sa ragionare sul concetto di icona al pari di Andrew Dominik. Una fascinazione su cui si basa sin dall’esordio tutta la filmografia dell’autore australiano, dalle lettere dal carcere del leggendario criminale Mark Brandon Chopper Read alla frontiera che si disgregava insieme al più mitico e inafferrabile fra i fuorilegge nello straordinario The assassination of Jesse James by the coward Robert Ford, dai simboli della crisi finanziaria del 2007 innestati in Cogan – Killing them softly al doppio sguardo su Nick Cave leggenda (non solo) musicale australiana ed emblema del dolore di un padre nel dittico composto da One more time with feeling e This much I know to be true. Un percorso che, prima o poi, non poteva che portare Dominik ad affrontare l’icona in assoluto più icona di tutte, quella Marilyn Monroe più bella fra le belle e più disperata fra le disperate, tanto desiderata quanto infelice e ripetutamente abbandonata, tanto forte sullo schermo quanto fragile nella vita, tanto colta e intelligente quanto ridotta da sempre a mera immagine, a corpo sinuoso, a cartonato che appare per le strade e sulle locandine, e forse proprio per questo, a oltre sessant’anni dalla sua giovane e tragica morte, ancora così immortale nell’immaginario collettivo. È da questo concetto che parte Blonde, tratto dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates e forse unico reale capolavoro in concorso alla Mostra di Venezia 2022, ed è per questo che pur rimettendo in scena (anche) episodi comprovati della sua vita il film di Dominik non è e non vuole essere in alcun modo un biopic su Marilyn Monroe. Semmai, già a partire dal titolo che punta i fari sulla sua più iconica (e più fittizia, per una donna in realtà castana) caratteristica fisica, è una storia di fantasmi che si reincarnano nelle verità e nelle menzogne, è una spirale distruttiva che procede senza via di scampo verso il baratro, è un incubo ininterrotto che prende dichiaratamente la figura emblematica di Marilyn per ripercorrerla ma soprattutto per frammentarla e reinventarla in un nuovo mosaico di emblemi, come un personaggio letterario e cinematografico unico eppure universale nelle sue fragilità, nelle sue sofferenze, nelle sue mancanze, nelle sue umiliazioni, nelle sue paure, nelle sue dipendenze, nei suoi fallimenti. Nelle sue ossessioni immaginifiche, fra quel padre mai conosciuto e sempre cercato all’origine di ogni suo trauma, quella madre schizofrenica e paranoide da cui essere quasi uccisa e poi abbandonata da bambina, e poi quella Hollywood maschilista e fallocentrica degli anni Cinquanta in cui dovere per forza accettare i più abominevoli compromessi, i provini che diventano stupri del produttore Darryl Zanuck, le mani sulle cosce alle prime dei film, l’imposizione di abortire per non perdere una parte, i pompini a un crudele JFK che le spinge la testa in basso senza nemmeno smettere di parlare al telefono, e più in generale l’impossibilità di uscire dalla figura di «just some blonde» perché non sembrava possibile alla società del tempo che una donna bellissima potesse essere realmente colta e intelligente, realmente appassionata ed esperta di Dostoevskij e Čechov, al medesimo livello culturale di uomini capaci solo di allungare le mani, desiderare il suo corpo, trattarla come una puttana. Mai legittimata nemmeno dai suoi mariti, nemmeno dai suoi amanti, nemmeno dal grande drammaturgo Arthur Miller, pronto a sposarla per l’ennesimo matrimonio fallimentare di aborti spontanei e di dolore ma mai a considerarla realmente una sua pari.

Ma si diceva dell’icona. Un concetto che Andrew Dominik mette in chiaro sin da subito, con quell’incipit di flash al ralenti che richiamano inevitabilmente al non certo per caso iconico Toro scatenato, e in effetti anche Blonde è in definitiva, al pari del capolavoro di Scorsese, un film sulla dissoluzione dell’anima e del corpo. Eppure un film dall’anima profondamente lynchana, da qualche parte fra la mecca del cinema zombificata di Mulholland Drive e le doppie identità di Strade perdute, che ricostruisce il senso del vero (o per meglio dire dell’impossibilità di un vero, un po’ come quelle lettere del padre che nient’altro si riveleranno che un’ennesima finzione) nel falso narrativo, nell’invenzione, nella messinscena. Nelle più insanabili dicotomie di Marilyn Monroe e di quello che rappresenta, come vie che sembrano procedere parallele e che invece finiranno inevitabilmente per intersecarsi, per confondersi, per diventare nuovi nodi in un cappio di delirio onirico di telefoni che suonano e di bambini nel comò, di matrimoni falliti e di obiettivi a cui necessariamente sorridere, di ripetuti aborti naturali (o meno) e di barbiturici con cui tentare di diluire il male di vivere fino a esagerare e morirne, per sempre nuda su quell’anonimo letto, fra la cornetta del telefono e le scatole delle pillole. Come una novella Laura Palmer, uscita dalla Loggia di Fuoco cammina con me per rimettere in scena foto, incontri e scampoli di carriera fra provini e canzoni, fra La tua bocca brucia e Gli uomini preferiscono le bionde, fra il periodo incubale dissimulato sul set di A qualcuno piace caldo e le bocche mostruose dei fan che allucinatorie circondano il tappeto rosso della prima, fino allo spartiacque della carriera e della vita (a partire dalla fine del matrimonio con il geloso Joe DiMaggio) con quella gonna – altra icona, non certo per caso – che svolazza sulla griglia della metropolitana proprio Quando la moglie è in vacanza. Dominik lo dichiara apertamente, il suo continuo ondeggiare fra il dato biografico e il dettaglio che invece è puro frutto dell’immaginazione, fra il fatto storico comprovato che diventa nuovo simbolo e i suoi effetti sulla percezione sempre più frustrata, alienata e dolorosa della protagonista, messa in scena (o forse sarebbe meglio dire sbattuta in faccia allo spettatore, forse l’unica via possibile per l’identificazione e la partecipazione all’incubo) nella maniera il più possibile estrema, respingente, volgare, atroce, brutale, necessariamente scioccante (l’aborto visto dall’interno della vagina, il profluvio di simboli fallici che circondano le manie sessuali di Kennedy, la violenza delle lacrime che scorrono sul cuscino mentre il produttore approfitta sessualmente della sua posizione, il vomito direttamente sulla macchina da presa sistemata nel water, o ancora le allucinazioni che mescolano senza soluzione di continuità la vita e l’autorappresentazione di sé). La stessa cesura frastagliata e sanguinante fra Norma Jeane Mortenson Baker e Marilyn Monroe, sottolineata da una sapiente alternanza del bianco e nero più vicino al vero con il colore che interviene invece a puntellare il sogno (del cinema), l’invenzione, il romanzo. Fra la realtà e la finzione, fra la persona e il personaggio, fra la sfera privata e quella pubblica, fra l’anima e il corpo. Fra i formati che partono dal 4/3 per allargare e stringere insistitamente i loro orizzonti dall’1:1 fino al 2,40:1 del cinemascope passando per gli accademici 1,66:1 e 1,88:1, un po’ come un’attrice deve cambiare continuamente pelle per interpretare i suoi personaggi, un po’ come una donna scissa fra due nomi e due vite recita per cercare invano la propria identità, la propria famiglia, il proprio triste e inevitabile destino. Una risposta – almeno una – alla sua impossibilità di essere (stata) figlia, di essere moglie in un rapporto realmente stabile e innamorato, e di potere prima o poi diventare finalmente madre, fra i momenti consapevoli del forcipe e quelli inaspettati dei più dolorosi sanguinamenti.

Basterebbe già la primissima parte, con Norma Jeane ancora bambina in casa con la madre prima del suo definitivo crollo nervoso. Una povertà quasi assoluta, un solo pupazzo di pezza, un padre conosciuto solo in foto che già disvela l’ambizione splendidamente non realistica dei centosessantasei (rapidissimi) minuti di Blonde, iniziando a spergiurare già dalla cornice che prima o poi tornerà dalla figlia. E poi un viaggio verso l’anticamera dell’inferno, quando la collina di Hollywood inizia a bruciare e il fumo invade la città. Fino al ritorno a casa, alla madre che cerca di annegare Norma Jeane nella vasca da bagno, e poi a quella lunga trafila di affidamenti e orfanotrofi che di fatto le negherà l’infanzia. «In California non sai mai cosa sia reale e cosa stia nella tua testa», si dicono, mentre il suono continuo del telefono già immerge nel sogno e nell’incubo, in una narrazione ellittica in cui ogni episodio vero/falso è un nuovo tassello di sempre maggiore sofferenza nella costruzione di un’immagine che non è più il personaggio di un film, non è più l’attrice che lo interpreta e non è nemmeno più la persona che si cela dietro al nome d’arte, ma è un puro segno semiotico, un significante alla costante e vana ricerca del suo significato, e al contempo l’incarnazione di un’era, di un mondo, di un desiderio condiviso. Ma anche di un senso di vuoto opprimente, di una psiche fragile, di una costante e dolorosa sottovalutazione, di un eterno fallimento che nessun contemporaneo successo ha mai potuto realmente colmare. Perché è una Marilyn profondamente infelice, quella magnificamente incarnata da Ana De Armas, una Marilyn fisica e carnale quanto in realtà inafferrabile, conturbata, astratta, sfuggente, e forse è per questo che, mentre è impegnata in un menage a trois con i figli omonimi di Charlie Chaplin ed Edward G. Robinson, le lenti distorcenti di Dominik già fondamentali in Jesse James allungano e deformano il suo corpo «fatto per essere visto, ammirato e desiderato», costringendolo alle pure macchie di colore di chi «è carne, ma non sono io». Una creatura che si nutre di applausi ma che ha in realtà avuto sempre paura del palcoscenico, capace di far ridere gli spettatori mentre internamente grida il suo dolore (e la sua endometriosi), via via sempre più dipendente dall’alcool e dalle pastiglie mentre l’allucinazione si mescola alla realtà: l’ennesimo marito senza più il volto, lei stessa (o forse sono quei figli che non ha mai avuto) di nuovo neonata nel cassetto, le reazioni sul set di una persona sempre più ingestibile a ogni stop, e poi ancora la necessità di essere portata a braccia giù dall’aereo e fino alla stanza presidenziale, troppo strafatta per camminare. Eppure, in una vita alla costante ricerca di un marito da chiamare «daddy», sperando di trovare quella figura paterna mai avuta accanto e di riuscire così a colmare il suo vuoto, è stata solo Norma Jeane a potersi permettere di stare male. Marilyn no. Marilyn doveva essere sempre e nonostante tutto bellissima, serena, disponibile. Rinchiusa nella sua gabbia dorata di immagini perfette sorridenti, di corpo e di anima, di falso nel vero e di vero nel falso, che Andrew Dominik, fra infinite intuizioni visive e un sapiente utilizzo della strepitosa colonna sonora fornitagli di Nick Cave e Warren Ellis, trasforma in un vicolo cieco d’orrore senza reale possibilità di via d’uscita. In un film consapevolmente divisivo, duro, provocatorio, cerebrale, disturbante, eppure doloroso, femminista, trasognante, potentissimo. Già un’icona sull’icona, imprescindibile e immortale come Marilyn Monroe, “la bionda”, l’immagine, il mito.

Marco Romagna

“Blonde” (2022)
166 min | Biography, Drama, Mystery | United States
Regista Andrew Dominik
Sceneggiatori Andrew Dominik, Joyce Carol Oates
Attori principali Ana de Armas, Bobby Cannavale, Lucy DeVito
IMDb Rating N/A

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