18 Maggio 2018 -

AYKA (2018)
di Sergey Dvortsevoy

Fingere di stare da una parte, ma schierarsi esattamente dall’altra. Fingere di seguire e supportare una ragazza nelle sue disavventure, ma nel frattempo guardarla dall’alto in basso, giudicarla, punirla, odiarla. Fingere un afflato popolare e proletario, ma costringere la propria protagonista a un sadico tour de force nel dolore, al termine del quale non ci sarà alcuna redenzione ma solo un progressivo e sempre più perverso inoltrarsi nella degradazione morale. Se con la giornata festivaliera di ieri, chiusa con la finta altezza bambino e con l’irricevibile retorica del ricattatorio Capharnaüm di Nadine Labaki, si pensava che il concorso di Cannes71 avesse toccato il fondo del barile, è arrivato nell’ultima mattinata l’estenuante e (nemmeno troppo sottilmente) perfido Ayka del kazako Sergey Dvortsevoy, ma prodotto non certo per caso dal Ministero della Cultura (o, se si preferisce, della Propaganda) della Federazione Russa, a dimostrare che al peggio non c’è mai fine, che oltre all’ipocrisia del trappolone per giurie si può trovare quella ancor più “cattiva” del film di regime, e che l’abisso etico di un film irricevibile, immorale, semplicemente inaccettabile, può essere ancora più profondo di quello, già drammatico, toccato dalla Labaki. Tanto più quando a farlo è un regista che, da kazako a Mosca, dovrebbe essere nelle stesse condizioni, o per lo meno conoscerle alla perfezione, del personaggio che mette in scena, e che invece preferisce lasciare il dramma sociale quasi di sfondo, poco più che un espediente narrativo, per concentrarsi sui sanguinamenti vaginali della sua protagonista, sul suo doloroso latte da estrarre dal seno (stando ben attento a non far vedere la tetta per non rischiare di offendere la morale del pubblico più borghese) che le ricorda costantemente come alla mammella dovrebbe esserci attaccato il figlio, sulla spirale di strazi e tormenti fisici e morali ai quali la donna viene costretta non come reale vittima, ma come sostanziale condannata.
Compresa, ovviamente, la (telefonata) non-rivelazione che pone la ragazza (pessima) madre come vittima di uno stupro e il suo frugoletto come figlio dell’orrore e della violenza, oppure l’altrettanto meccanico suo bisogno di soldi dopo essersi messa nelle mani di strozzini senza scrupoli, mentre nel frattempo il film, fra interminabili squilli di telefono, blandi simbolismi di cagne partorienti, macchinine e peluches a corredo delle ripetizioni ossessive ma mai sagaci, e anzi profondamente disoneste nello sguardo e nel sostanziale ricatto, degli stessi τὸποι (la donna, la maternità, la povertà, la chiusura sociale, la difficoltà di trovare lavoro, l’emorragia che la porterà al pericolo di vita, e non certo in ultimo i trafficanti di esseri umani) glissa o quasi sul razzismo della polizia che viene solo sfiorato per passare immediatamente al padrone di casa che vuole gli arretrati dell’affitto, relega la provenienza kirghiza della sua protagonista a un permesso di lavoro scaduto e a qualche osservazione (che forse non sarebbe folle vedere come più che velatamente razzista) sulla comprensione della lingua russa, e anche in quello che dovrebbe essere il suo afflato più sociale – la ricerca di lavoro fra porte sbattute in faccia e le minacce trasversali degli strozzini contro la sorella della protagonista – evita accuratamente gli affondi, assicurandosi di inanellare le tematiche più “sensibili” per una giuria senza infastidire l’autorità e la censura della Federazione Russa di Vladimir Putin.

Si apre sui neonati che piangono ancora nel reparto di ostetricia, Aika, per passare subito sulla fuga dalla finestra del bagno della sua omonima protagonista, venticinquenne kirghiza clandestina a Mosca, che abbandona senza particolari remore il suo bambino in ospedale. E in questa fuga sotto la neve, nel non-rimorso con cui questo avviene, nel cuscino con il quale continuerà a fingere la gravidanza e soprattutto nell’ipocrisia con cui Dvortsevoy rimarrà appiccicato alla sua protagonista e al suo sangue fra le cosce mentre, anziché provare a capirla e a sostenerla, la giudica e la punisce per il suo atto, il film è in un certo senso già finito prima ancora di iniziare. Fin dalla primissima inquadratura e dalle premesse narrative e morali, Dvortsevoy fa tutto ciò che è in suo potere per rendere il suo film pesante, estenuante e indigesto, per annullare ogni tipo di umanità e di etica del racconto e dello sguardo in favore del pulpito e del cinismo, per spingere sempre più nel baratro, e con soddisfazione, la sua protagonista “rea” dell’abbandono proprio mentre finge di indagare le cause, sociali e non personali, della sua colpa. Lo stile fatto di camera a mano e pedinamenti è preso di peso dai fratelli Dardenne, e così la struttura modulare, che inanella un episodio dopo l’altro nel girare intorno alla stessa mancanza di lavoro e di diritti sociali, eppure i fratelli belgi sono lontani anni luce: dove il loro cinema è reale e assoluta vicinanza nei confronti dei protagonisti, Aika preferisce sfruttare la sua storia per moraleggiare e per chiudere sempre più a ogni tipo di speranza di redenzione, in un sempre più asfissiante e punitivo affastellarsi di occasioni di lavoro perdute fra locali e bar di ogni categoria, di pressanti usurai alle calcagna, di povertà per la quale l’unico modo per bere diventa quello di staccare e far sciogliere le stalattiti di ghiaccio dai tetti, di case/comuni sovrappopolate e di studi medici veterinari, passando per capi (non certo a caso di un allevamento intensivo/mattatoio di polli, tanto per inserire sempre senza affondare anche i simbolismi della carne da macello e della catena di montaggio) che scappano con gli stipendi di tutte le disperate operaie.
Nemmeno la maxinevicata che imbianca Mosca chiedendo un impiego extra degli spazzini offre un reale sbocco lavorativo temporaneo (per quello bisogna aspettare l’estate, con tanto di sostanziale spot governativo alle occasioni che offrirà il mondiale di Russia 2018), mentre Dvortsevoy, ripetitivo e meccanico, ostenta la sua (dubbia) autorialità quasi come fosse una medaglia al valore autoassegnata nei tempi dilatati, nella citazione sacrilega di locandine alle pareti (fra cui Chaplin e Jackie Coogan ne Il monello, dal trovatello cresciuto e amato da Charlot a quello abbandonato e poi ripreso ma solo per venderlo da Ayka) e in un atteggiamento moraleggiante che mai, nemmeno per un solo istante, riesce a farsi realmente introspettivo o esistenziale, o anche solo che sincero. «La colpa è solo tua», dirà a un certo punto il creditore alla protagonista, e nelle sue parole, nel suo sadico e ipocrita puntare il dito e accusarla, sembra quasi di sentire la voce del regista, sembra di vedere rispecchiata la sua non-etica, sembra quasi di percepire il suo distorto senso di giustizia. Parla di donne e di una società atroce Ayka, ma lo fa rendendo il peggior servizio possibile alla sua protagonista, guardando a lei con disprezzo, dipingendola come egoista e dipendente dagli altri, chiudendola sempre più nella sua disperazione fino a farle abbandonare anche l’ultimo barlume di umanità. E a poco servono il dubbio e il rimorso che solo sul finale di solitudine e abbandono iniziano a far capolino nella coscienza di Ayka, a poco serve il suo capezzolo che solo nell’ultima occasione entra in campo per allattare suo figlio, a poco servono le sue tardive, e pretestuose, lacrime di coccodrillo quando chi avrebbe dovuto portare via per sempre il bambino estinguendo il suo il debito non si presenta all’appuntamento. È solo ipocrisia, è solo una finta conciliazione dopo che Sergey Dvortsevoy, il danno, lo aveva già ampiamente fatto. E di fronte a un simile abisso etico, contrario alla stessa funzione del cinema, non può che scattare il più disgustato rifiuto nei confronti di un film profondamente cattivo, crudele, ipocrita, irricevibile, punitivo tanto nei confronti della sua protagonista quanto in quelli dello spettatore.

Marco Romagna

“Ayka” (2018)
100 min | Drama | Russia / Germany / Poland / Kazakhstan / China
Regista Sergei Dvortsevoy
Sceneggiatori Sergei Dvortsevoy, Gennadiy Ostrovskiy
Attori principali Samal Yeslyamova
IMDb Rating 6.0

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