24 Febbraio 2020 -

VOICES IN THE WIND (2020)
di Nobuhiro Suwa

È paradosso risaputo che, al momento della dipartita di qualsiasi essere umano, la vera e peggiore tragedia non sia tanto quella di chi se ne va, ma quella di chi rimane, costretto a convivere per sempre con la mancanza, con la malinconia, con un vuoto affettivo ed esistenziale che solo il tempo, forse, potrà lentamente lenire e in qualche modo tentare di rimarginare. Ma la morte, atroce e angosciante tanto più se improvvisa come quando dal cielo viene lanciata una bomba, come quando esplode una centrale nucleare o come quando la risacca di un violento tsunami porta via tutto e tutti, ha per lo meno il buon gusto di essere definitiva, certa, inappellabile, e di fronte a un corpo senza vita sarà prima o poi possibile, fra sofferenze e pianti, metabolizzare la dolorosa perdita. Una possibilità del tutto negata alle migliaia di uomini e di donne i cui cari sono invece dispersi dopo una tragedia, a ogni tentativo di analisi razionale molto probabilmente morti, eppure mai ritrovati e quindi in potenza ancora in salute e altrove. Un dubbio atroce, in cui la speranza è forse ancora peggiore della morte perché lascia aperto uno spiraglio di illusione, impedisce di razionalizzare e di arrendersi all’evidenza, impedisce di accettare il destino, magari portando via casa, vita, salute e identità per inseguire una chimera impossibile. Voices in the wind, straordinario ritorno in Giappone di Nobuhiro Suwa dopo diciott’anni di vita e di lavoro prevalentemente in Francia, presentato in punta di piedi nella tradizionalmente poco battuta sezione Generation e invece fra i migliori titoli della 70ma Berlinale, mette in scena il limbo forse eterno dell’incertezza, nuovo paradosso in cui è proprio il residuo lumicino di speranza ciò che rompe ogni schema di ogni razionalità e quotidianamente rinnova il dolore e la tragedia. Ma non si può vivere senza speranza. Non si può rinunciare a ciò che magari è a volte soffocante, ma è in definitiva l’unica scintilla – d’amore – che mantiene ancora vivi.

Cerca la sincerità più profonda dei sentimenti, il cinema di Nobuhiro Suwa. Con uno stile profondamente poetico ed evocativo nei chiaroscuri eppure pressoché documentaristico nelle sue inquadrature fisse, nei suoi campi lunghi e nei suoi tempi dilatati, con una narrazione legata a doppio filo con il reale degli esseri umani, e soprattutto con una scrittura rigorosamente a canovaccio su cui improvvisare la stragrande maggioranza dei dialoghi, lasciando gli attori liberi dalle gabbie dello studio mnemonico e di una sceneggiatura ferrea. E non è un caso, probabilmente, che il regista nativo di Hiroshima abbia scelto di concentrarsi proprio sui luoghi e su tematiche direttamente figlie della più recente crisi nucleare per tornare a fare un film in patria. Su un dolore da sempre e per diritto di nascita al centro della sua anima, già più volte lambito o direttamente affrontato in carriera – basti ripensare al più celebre H Story che ri-metteva in scena (l’impossibilità di rimettere in scena) il Resnais di Hiroshima mon amour – rinnovato con altre modalità ma quasi identica disperazione personale e sociale, fra lo tsunami e i reattori scoperchiati, nel 2011 di Fukushima. Un’ossessione cinematografica già di moltissimi fra gli autori contemporanei nipponici, dal Sion Sono di The land of hope e di The Whispering Star (ma in realtà già da quello di Himizu modificato durante le riprese per iniziare subito a riflettere sul dramma accaduto proprio nel bel mezzo della lavorazione) al Koji Fukada di Sayonara, dal Riyuki Hiroki di Side job fino al Makoto Shinozaki di Sharing, passando per tutte le infinite declinazioni del trauma nazionale come spettro con il quale convivere, per la filosofia zen del Tenzo di Katsuya Tomita come unica possibile risposta al dolore, per la sin troppo ferrea necessità di aiutare dello 0,5mm di Momoko Ando e persino per i sempre lucidissimi cinedeliri di Nobuhiko Obayashi, che alla morte rispondono sempre più smaccatamente con la vita in potenza eterna della celluloide.

Basta una linea di trama minimale, a Voices in the wind, che tiene al centro per tutti i suoi 139 magnifici minuti il dolente ritorno in autostop verso casa a Fukushima della diciassettenne Haru otto anni dopo la tragedia che nel 2011 le ha portato via madre, padre e fratello. Bastano gli incontri nel suo procedere lungo la strada, bastano gli aiuti reciproci fra vittime tutte uguali di differenti e quasi cicliche tragedie, basta lasciare libere di intersecarsi, dolcemente e senza un solo briciolo di retorica, le traiettorie di ossessione e di disperazione che mappano un Giappone fatto di umanità profondissime, che riemergono dai lutti e soprattutto dai dispersi alla cui evidente morte non ci si è mai riusciti a rassegnare. Basta non dimenticarsi mai che nello scorrere dei paesaggi dietro i finestrini delle auto e dei treni c’è sempre in filigrana il riflesso dell’essere umano che guarda il mondo, in viaggio per il Paese e soprattutto in viaggio dentro se stesso. Basta che ci sia ancora qualcuno disposto a fermare la macchina per raccogliere Haru da terra, oppure a difenderla da balordi troppo più grandi e violenti per lei, o ancora a dimostrarle come la vita possa continuare, magari nel ventre di una donna che tutti pensavano ormai troppo vecchia per potere ancora rimanere incinta. Basta la tenerezza insostenibile di un’anziana affetta da demenza, che crede di rivedere in Haru la figlia persa tanti anni prima a Hiroshima. Basta una famiglia di curdi che si è vista decimata dagli arresti dell’ufficio immigrazione proprio mentre stava tentando di aiutare gli autoctoni dopo la tragedia. Basta chi ricorda i casi di discriminazione e razzismo nei confronti dei sopravvissuti, come se gli effetti delle radiazioni fossero una malattia trasmissibile, un virus, una pandemia contagiosa. Basta una fotografia ormai quasi del tutto scolorita con la quale ripensare a quei tempi e a quelle persone perse per sempre. Basta un padre che ha visto la famiglia portata via dall’onda anomala, e che ha come congelato la sua vecchia casa e la sua vecchia vita per attraversare chissà quante volte il Giappone sulla sua auto senza smettere mai di andare alla loro vana ricerca. Basta un bambino che parte da solo per andare a parlare per lo meno al telefono con quel papà che ha perso troppo presto, in quella cabina pubblica – la 風の電話 / Kaze no denwa del titolo originale, traducibile come “telefono nel vento” – realmente meta a Itsuchi, nella prefettura di Iwate, di migliaia di pellegrinaggi per confidarsi con i propri cari morti. Un’illusione, chiaramente, ma è proprio quell’illusione che permette all’intimità di trovare in qualche modo una pacificazione. In un certo senso una moderna Eucarestia, in cui credere fermamente di essere ascoltati e potersi così finalmente aprire, sfogare, scavare nel vuoto esistenziale della perdita e della mancanza. Una vera e propria nuova gestazione, in cui poter affrontare gli ultimi non detti, in cui poter finalmente confessare quell’ultimo e lacrimato ti voglio bene rimasto chissà per quanto tempo nella gola di fronte all’improvviso dolore, in cui poter ritrovare l’intimità di un affetto, in cui sentire ancora una volta gli occhi inumidirsi e le guance solcarsi di lacrime, in cui poter continuare a sperare senza venire risucchiati dai paradossi della speranza. E poter così finalmente rinascere. Sopravvissuti ormai da anni, ma solo adesso di nuovo vivi.

Marco Romagna

“The Phone of the Wind” (2020)
49 min | Drama | Japan
Regista Nobuhiro Suwa
Sceneggiatori N/A
Attori principali Tomokazu Miura, Serena Motola, Toshiyuki Nishida, Hidetoshi Nishijima
IMDb Rating N/A

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