2 Dicembre 2016 -

UN ALTRO ME (2016)
di Claudio Casazza

A volte, il (bel) Cinema è “solo” una questione di sguardo. È il saper osservare la realtà con discrezione e rispetto per tutte le parti in causa, è il sapersi fare da parte lasciando che chi viene inquadrato si dimentichi dell’esistenza della macchina da presa e sia semplicemente se stesso, è la capacità di fare emergere le complessità umane evitando con cura qualsiasi tesi preconfezionata e preconcetto. È il coraggio di una presa di posizione, soprattutto quando la presa di posizione è proprio uno scomodo equilibrio in uno dei campi in cui l’equilibrio è più difficile: sarebbe stato molto più semplice per Un altro me, documentario di Claudio Casazza presentato come apertura 2016 del fiorentino Festival dei Popoli, sbattere il mostro in prima pagina consegnando i detenuti per reati sessuali del carcere di Bollate alla pubblica gogna, così come sarebbe stato molto più semplice, all’eccesso opposto, considerarli alla stregua di malati e in quanto tali compatirli. Ma Casazza non fa nulla di tutto questo, non si interessa strettamente al loro passato e alle loro condanne, rifiuta il film a tesi sui maniaci sessuali così come il servizio giornalistico sul laboratorio carcerario e sceglie la via dell’osservare e dell’ascoltare per mettere al centro semplicemente l’uomo. Un altro me non è un film sulla violenza sulle donne, non è un film sulla psicologia deviata del criminale e maniaco, e di certo non è il mero resoconto di un anno di dialoghi, attività, incontri, confronti e psicanalisi. O meglio, è tutto questo, ma il punto non è l’indagine sociale all’interno di una frazione della realtà carceraria, né quella antropologica sull’origine della violenza carnale: Claudio Casazza vuole semplicemente lasciare agire in autonomia il sorprendente materiale umano che ha avuto a disposizione per quasi un anno di riprese, con l’approccio del cinema diretto filtrato però dall’impossibilità di vedere distintamente i detenuti, tenuti di quinta, di spalle o fuori fuoco mentre appaiono regolarmente sullo schermo i volti del team di professionisti impegnati nel laboratorio fra psicologi, criminologi e sociologi.

Quello di Claudio Casazza è uno sguardo rispettoso e paziente, uno sguardo indagatore eppure profondamente umano, uno sguardo di sfocature e dettagli su chi è in carcere per un reato fra i più orrendi, e anche a tutela di chi, dall’altra parte, accetta di condividere i traumi subiti e forse mai superati, sperando che dal confronto carnefici/vittima possa emergere un comune percorso di crescita. La negazione dei volti dei condannati (e di quello della vittima che autonomamente ha deciso di mettersi a disposizione del progetto) è un atto di profondo rispetto, atto sì a creare una distanza fra “il mostro” e il pubblico, ma non è tanto una premura nei confronti di chi guarda, quanto nei confronti di chi, fra uno spocchioso “Appena esco di qui me le scopo tutte” e una dilaniata lettera di scuse alla donna a cui si è rovinata la vita, accetta di penetrare le proprie ambiguità per provare a capirsi, pentirsi, reinserirsi nella società e nella vita normale come un uomo nuovo e capace di controllare le proprie fantasie. Anzi, è proprio “il mostro” a essere negato in Un altro me, la sua stessa idea: quelle che parlano fuori fuoco davanti alle videocamere sono semplicemente persone, uomini fatti di carne e sudore, di errori e di fragilità, di istinti e di repressioni. Non c’è spazio per la retorica, non c’è spazio per una tesi forcaiola o difensiva da sostenere, non c’è spazio per forme di giudizio o presunzione, come non c’è spazio per possibili derive moraliste: sullo schermo c’è “solo” un nugolo di esseri umani con i loro problemi, con le loro contraddizioni, con le loro (in)sicurezze, con le loro debolezze, con i loro difetti, con i loro bisogni, con i loro pentimenti tardivi e forse inutili, ma anche e soprattutto con la loro dignità. Un altro me è un film di puro antropocentrismo, è un ritratto disfunzionale in un forzato interno, sono percorsi che si intrecciano – quelli dei detenuti che partecipano volontariamente al laboratorio con psichiatri e criminologi per tentare di arrivare alla radice del loro problema ed evitare ricadute una volta fuori, ma anche quelli degli educatori che ogni giorno scoprono qualcosa di nuovo sulla natura umana e sui rapporti interpersonali –, sono uomini che lentamente si aprono, si raccontano, forse si capiscono o forse no, ma quanto meno ci provano seriamente, perché “Rendersene conto è già un punto di partenza”.

Un altro me è l’uomo del passato che ha compiuto il libidinoso reato, Un altro me è l’uomo (forse) nuovo che uscirà in futuro dal percorso umano all’interno del carcere, mentre il film di Claudio Casazza, con la sua rigorosa pulizia minimale e la sua pazienza certosina nel raccogliere ore e ore di materiale da scremare al montaggio, mostra il momento del passaggio, forse della crescita, senza dubbio della consapevolezza. C’è chi si assume le proprie colpe anche quando nemmeno una madre crede che il figlio possa essersi spinto a tanto, c’è chi minimizza, c’è chi si giustifica, c’è chi ha bisogno di ripartire dalle basi di anatomia e c’è chi reagisce a testa alta e con fare arrogante, ma nel corso dell’anno di laboratorio vedrà il proprio capo abbassarsi progressivamente. Sono fasi, sono resistenze psicologiche, sono ammissioni e vagiti di umanità fuori fuoco che valgono più di qualsiasi trattato: contraddittori, difficoltosi, ma finalmente sinceri, e il mostro torna finalmente uomo, con tutte le sue fragilità e tutti suoi dolori. Un altro me sono i corridoi e le sbarre di un luogo che è il non-luogo per definizione, è un momento di sospensione – ulteriormente sottolineata da una sfocatura, da una sovraesposizione che filtra dalle sbarre, dallo stipite di una porta o dal dettaglio di un disegno a carboncino che sta prendendo forma – che si sta cercando di convertire in un percorso di crescita. C’è chi “Ho fatto sesso con il numero di ragazze che mi serviva”, perché il sesso è visto come una necessità e non come un’ossessione nelle sue deviazioni, puro istinto e forse diritto di possesso, ma c’è anche chi “A ruoli invertiti, mio padre mi vorrebbe ammazzare”; c’è chi non vuole credere che la vittima che verrà a parlare sia davvero una vittima, ma poi sarà commosso dai suoi resoconti di sevizie subite sin dalla più tenera infanzia dal cuore della famiglia e di profonda dignità nel superarle. Un altro me è il rendersi conto di aver sfruttato le altrui debolezze e anzi forse di averle viscidamente create, è una presa di coscienza di cosa ha trasceso dalla normalità di un rapporto, è un dialogo costante con se stessi, alla scoperta della propria natura più intima. Un altro me sono i modellini e le statuette di cera, forse una sorta di totem nel quale tentare di rinchiudere il proprio mostro interiore o forse solo uno sfogo creativo, sono i silenzi, sono le attese, sono le attività fisiche, sono le lunghe file di finestre perché il carcere è straniante e tale rimarrà, sono le consapevolezze che lentamente maturano: “Sono la ciambella senza buco”, “Sono fatto così”. Perché Un altro me è un percorso, ma nessuno può essere sicuro che al termine ci sia un approdo sicuro, nessuno può essere sicuro che non ci saranno ricadute e recidive, nessuno può essere sicuro che una normale attrazione non diventi di nuovo fatale. Magari a partire dalla bionda psicologa, o dalle sue stagiste che hanno accettato di entrare nella tana del lupo. Ed è proprio il dubbio, questa dichiarata impossibilità di vincere le ambiguità e le contraddizioni, quella atroce possibilità di sbagliare ancora a rendere il film di Claudio Casazza così interessante, così disarmante, così agghiacciante, così profondamente umano.

Marco Romagna

“Another Me” (2016)
83 min | Documentary | Italy
Regista Claudio Casazza
Sceneggiatori Claudio Casazza (story), Claudio Casazza, Simona Nobile (story)
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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