8 Gennaio 2017 -

IL CLIENTE (2016)
di Asghar Farhadi

I film di Asghar Farhadi sono innanzitutto, puntualmente, uno dopo l’altro, pezzi di eccellenza narrativa. Per una volta le giurie hanno avuto una certa intelligenza premiando all’ultimo Festival di Cannes Il cliente per la migliore sceneggiatura (oltreché per il miglior attore all’ottimo Shahab Hosseini), sancendo nero su bianco quel che ormai da anni è ben noto, ovvero l’inarrivabile sapienza dell’autore iraniano nella costruzione di puzzle morali, intensamente avvincenti pur nella cornice di una consueta quotidianità. E’ uno dei tratti più personali di Farhadi, quello che l’ha reso noto al mondo e gli ha già portato ampi riconoscimenti (Una separazione, 2011, vide il miracoloso congiungersi di un vero e conclamato capolavoro con un’immediata messe di premi, Orso d’Oro e Oscar compresi). In un placido fluire quotidiano, di cui sulle prime si dà conto tramite l’approccio narrativo di un falso realismo, si apre d’improvviso una falla, una crepa sul muro che da piccola si fa sempre più grande, innescando paradossi morali e reazioni a catena, e costringendo personaggi e spettatori a rileggere a ritroso ciò che si è visto, in cerca di un pur minimo dettaglio rivelatore che restituisca le certezze perdute. Grovigli che più cerchi di sbrogliarli, più s’imbrogliano. Succedeva in Una separazione, dove intere porzioni di racconto venivano successivamente sminuzzate nelle versioni più disparate di testimoni in cerca di una sola (e impossibile) verità, rivelando al contrario le diverse tendenze dei personaggi messi in gioco e quindi sottoponendoli al dilemma della scelta morale. Succedeva in modo ancor più intensivo in Il passato (2013), succedeva in forma embrionale in About Elly (2009), altro scandaglio di ipocrisia e senso di colpa. Da spettatori capita di interrogarsi su ciò che si è visto, richiamati retrospettivamente a dare enorme peso a piccoli eventi quotidiani che sulle prime si sono lasciati trascorrere sugli occhi come ininfluenti sul racconto. E’ la falla, la crepa in mezzo al muro che trasforma in marcati e fondamentali piccoli accadimenti di nessuna importanza, riletti a posteriori, all’insorgere della crepa, come essenziali e anzi decisivi. In genere la crepa che si spalanca nel fluire quotidiano viene da un abbassamento del livello di guardia, da una folata d’irrazionale che irrompe in un mondo di azioni consuete. Una ragazza che scompare sulla spiaggia in un weekend tra amici, una spinta durante un litigio. Stavolta, ne Il cliente, una porta distrattamente aperta senza chiedere chi è al citofono, azione di naturalissima quotidianità quando si sta aspettando qualcuno e si è pressati da altre urgenze. Prima di ogni altra cosa i film di Farhadi (e Il cliente non fa eccezione) sono quindi splendidi congegni narrativi dai quali emerge con ogni evidenza un enorme e profondo lavoro di sceneggiatura. Al fondo resta uno spirito eminentemente tragico nella narrazione del quotidiano in cui sembrano annidarsi conseguenze fatali nel più insignificante dei gesti. I suoi personaggi, che finiscono puntualmente per confrontarsi con l’etica, propria e generale, sperimentano sempre la sostanziale inefficacia di qualsiasi legge morale e la natura beffarda di una risposta comportamentale che per paradosso si ritorce sempre contro se stessa. In costante rapporto col tema dell’ipocrisia, in ultima analisi il cinema di Farhadi si propone come la radiografia di uno scacco morale, capace di elevarsi dalla narrazione della quotidianità a un’inquieta e universale mancanza di risposte univoche, senza perdere quasi mai di vista l’orizzonte etico del proprio paese per vie metaforiche e traslate di tale sopraffina intelligenza da dribblare ogni volta pure la severa censura interna.

Ne Il cliente assistiamo di nuovo a una messa in scacco di codici etici e al ribaltamento delle certezze spettatoriali. Di nuovo lo spunto iniziale è un evento senza importanza: un trasloco. A seguito di un parziale crollo del loro condominio, la coppia Emad e Raana si trasferisce in un altro appartamento su consiglio di un loro amico. Qui la precedente inquilina ha lasciato degli effetti personali, e malgrado le ripetute insistenze la donna tarda a passare a ritirarli. Finché una sera Raana, in attesa del ritorno di Emad, sente suonare il campanello, apre la porta convinta che sia il suo compagno e subisce invece un’aggressione da parte di uno sconosciuto. A poco a poco emergono dettagli poco decorosi sulla vita della precedente inquilina ed Emad s’imbarca in una propria indagine personale lasciandone fuori le autorità. Le certezze si ribaltano, lo spettatore è in scacco. Perché spinto da un’insanabile sete di vendetta, Emad conduce fino alle estreme conseguenze il proprio desiderio di rivalsa accanendosi contro il colpevole, un meschino signore attempato e cardiopatico, e i bassi istinti di chi vede (per lunga parte perfettamente empatici con le intenzioni di Emad) sono chiamati a confrontarsi con la propria crudeltà. La Verità non esiste, o quantomeno sta sempre altrove, magari nella felicità coniugale di una coppia trentennale che rischia di sgretolarsi in un attimo per volontà di chi vuole vendicarsi: il “sentimento del contrario”, avrebbe detto Pirandello, qui del tutto sceverato dal risvolto umoristico. Virando la riflessione sugli eccessi della vendetta, Il cliente ripropone in qualche modo le polarità sociali sulle quali poggiava la costruzione di Una separazione. Là una famiglia in pessime condizioni economiche tentava di spillare denaro a una coppia borghese in conseguenza di un aborto, delineando a poco a poco un proprio quadro di ragioni pure condivisibili: qui una coppia di piccoli borghesi istruiti si confronta con un colpevole di un altro ceto sociale, meschino e anziano lavoratore con qualche distrazione coniugale. E’ uno iato culturale che ritorna spesso nel cinema di Farhadi, innervando un discorso che riesce meravigliosamente a farsi sociale aggirando sia la polemica diretta sia il didascalismo della pesante allegoria. Tra le righe Il cliente mette a confronto due universi etici, problematizzando la rocciosa moralità della borghesia, quella dei “buoni comportamenti”, in relazione alla propria ipocrisia. Subito dopo l’aggressione Emad mostra per linee sottili la crisi delle proprie certezze; crede e non crede alle parole di Raana, finisce quasi per dubitare dell’integrità morale della sua donna, palesando un ancestrale moto di “maschio violato” in netto contrasto con la sua buona formazione. Allo stesso modo, il percorso di giustizia privata a cui Emad si abbandona mostra da un lato l’adesione a un modello pre-culturale di vendetta, dall’altro evidenzia una sorta di arroganza intellettuale; come a dire “Poiché io sono più istruito di te, posso permettermi di umiliarti dall’alto della mia cultura”. In filigrana Il cliente spalanca un prisma di risonanze che vanno dal confronto con la sostanza socio-culturale di un paese, alla condizione della donna, alla frattura tra classi sociali, al denaro come regolatore di rapporti (quelle banconote onnipresenti che provocano rifiuto e nausea a contatto col cibo, e che finiscono poi come strumento di somma umiliazione in prefinale).

A irrobustire un’ulteriore riflessione su cinema, racconto e rappresentazione, Farhadi colloca Emad e Raana nel contesto del teatro; i due infatti stanno allestendo con un gruppo di amici una messinscena di “Death of a Salesman”, la Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, e tale filone narrativo s’intreccia indissolubilmente al resto del racconto a partire dal titolo internazionale con cui fu presentato in Croisette, The Salesman, in un certo senso ribaltato nell’edizione italiana da “venditore” a Cliente. Anzi, Farhadi conferisce all’ambientazione metateatrale un ruolo primario, aprendo il film proprio su tale scenario di palcoscenico. Tralasciando i rinvii più immediati tra vita e teatro (la vita come palcoscenico di comportamenti prestabiliti, decisi da leggi al di sopra dell’individuo e regolati da rapporti gerarchici tra “registi” e “attori”), vi sono alcuni elementi che si ergono a decisivi per il senso del film: la censura, la rappresentazione e il ruolo dell’intellettuale, tutti e tre strettamente legati tra loro. Alla censura è riservato un riferimento diretto, quando la compagnia dichiara di attendere un ultimo parere sullo spettacolo da una commissione esaminatrice. Per mettere su il loro spettacolo, Emad, Raana e i loro amici sono scesi a compromessi, a cominciare dalla rappresentazione edulcorata di una prostituta. Altrettanto sembra fare Emad nella sua vita privata, dal momento che senza alcun ripensamento deroga ai propri principi imbarcandosi in un percorso di vendetta, e non ha alcuna pietà proprio per un anziano lavoratore di umile estrazione sociale, profilo umano che al contempo lo stesso Emad sta celebrando sulle tavole del teatro nei panni di Willy Loman. Si apre insomma una frattura tra finzione e realtà che alimenta anche una riflessione sulla coerenza morale dell’intellettuale. In qualche modo Il cliente sembra narrare una generale compromissione con il potere, incarnato sotto varie forme, che siano le aspettative di una commissione di censura o le leggi scritte e non scritte di un’intera cultura. Partecipare di tali meccanismi, sociali, psicologici o comportamentali, significa dar loro forza e diventarne complici. In questo risiede la forza del cinema di Farhadi, nella sua capacità di parlare anche del contingente tramite perfetti marchingegni narrativi di aspirazione universalizzante. Una polemica sottotraccia che investe pure il ruolo dell’intellettuale e i suoi doveri di rappresentazione, soprattutto se calati in un contesto culturale in cui la repressione serpeggia ovunque. A ben vedere la crepa, l’irruzione dell’incontrollato non si verifica per prima nella fatale porta che lentamente si apre dopo la scampanellata al citofono. Avviene prima, sul taxi in cui Emad viene accusato dalla vicina di posto di concedersi un eccessivo contatto fisico con lei. È lì che la superficie composta e corretta, culturalmente determinata, subisce la prima violazione. In un universo dove la separazione (mai parola fu più splendidamente polisemica nel cinema di Farhadi) viene a dettare anche le distanze tra i corpi, dove il significato dei comportamenti è così rocciosamente preordinato, il rischio della crepa e della conseguente violenza rimane altissimo. Come in teatro nell’allestimento di un classico, dove al massimo l’improvvisazione può essere tollerata solo per brevi tratti.

Massimiliano Schiavoni

“The Salesman” (2016)
125 min | Drama, Thriller | Iran / France
Regista Asghar Farhadi
Sceneggiatori Asghar Farhadi
Attori principali Shahab Hosseini, Taraneh Alidoosti, Babak Karimi, Mina Sadati
IMDb Rating 8.5

Articoli correlati

LA MIA VITA DA ZUCCHINA (2016), di Claude Barras di Marco Romagna
LA RAGAZZA SENZA NOME (2016), di Jean-Pierre e Luc Dardenne di Elio Di Pace
POESIA SENZA FINE (2016), di Alejandro Jodorowsky di Marco Romagna
BACALAUREAT - UN PADRE UNA FIGLIA (2016), di Cristian Mungiu di Elio Di Pace
JUSTE LA FIN DU MONDE (2016), di Xavier Dolan di Marco Romagna
ELLE (2016), di Paul Verhoeven di Erik Negro