12 Agosto 2023 -

SPRING BREAKERS (2012)
di Harmony Korine

Quando, in occasione del Pardo d’Onore tributatogli dal 76mo Locarno Film Festival, Harmony Korine è entrato nella sala del Palacinema a presentare Spring Breakers ha detto poche cose, per un minuto scarso, per poi scendere dal palco e scomparire chissà dove nella città: 1) Spring Breakers è stato fatto per rievocare il senso di una canzone pop, 2) l’ispirazione creativa principale dietro il film erano le Skittles colorate che Korine mangiava tanto in quel periodo (in un’intervista relativa a Gummo ha detto una cosa analoga, che è un film ispirato alla carne), 3) il film doveva fare esplodere un certo senso di spazio e tempo lineare. Non è un mistero che molti appassionati di cinema reputino Spring Breakers un capolavoro innovativo della contemporaneità, e che magari a quell’esplosione spazio-temporale attribuiscano complessità godardiane, e che altrettanti invece lo trovino volgare, ai limiti del trash, reputando ogni sua trovata di pancia un qualcosa che non funziona di testa o viceversa. Queste tre cose che Korine ha detto presentando il film, e anche il suo andarsene velocemente dalla sala divertendosi ma quasi mancando di rispetto il pubblico, possono confermare sia una visione delle cose che l’altra. La volgarità del film in realtà è di certo volontaria – la maggior parte delle inquadrature mostrano tette e culi in costume, o fiumi di droga, o armi e soldi, in un gigantesco girone dell’inferno basato sul materialismo: l’american dream. Per questo spesso si sente dire che Spring Breakers è un film di satira, che mediante l’eccesso cerca di mostrare le ipocrisie della cultura americana, e come essa cerchi disperatamente di sopprimere le estetiche e le forme mentali che in realtà ha creato. Probabilmente però satira è un termine riduttivo, se è davvero presente nel film di Korine la satira viene fuori da momenti di sovrapposizioni simboliche, contrasti tra reale e grottesco. Stiamo parlando per esempio della celebre scena il cui l’alieno James Franco suona Everytime di Britney Spears al pianoforte, al tramonto, definendola «un angelo se ce n’è mai stato uno su questa terra», dando inizio a un montaggio alternato videoclip-al-ralenti di brutali rapine, che diventano per assurdo un momento sentimentale; ma parliamo anche di altri attimi un po’ più sottili, come quando l’antagonista Big Arch (Gucci Mane) dice di aver bisogno di soldi per sfamare la sua famiglia quando sul suo tavolo ci sono chili di marijuana, o ancora quando Selena Gomez chiama la nonna in preda alla gioia dello Spring Break e la invita a venire con lei nel «luogo più spirituale del mondo» l’anno prossimo, mentre noi spettatori, di quel posto, vediamo l’inadeguatezza, i liquidi corporei, ancora tutta questa ostentazione di materia che ci sembra far male alla retina e al cervello. Questa forse è satira, più probabilmente è solo una sovrapposizione, che più che dire, affermare una cosa (“sappiate che la verità dei fatti è questa”) , pone una domanda (“se la verità dei fatti fosse questa, voi come vi sentireste?”).

Abbiamo visto ormai anche il film successivo di Korine, ovvero The Beach Bum, che appare come una dichiarazione di intenti per l’esistenza stessa del regista in relazione al mondo, alla cultura pop, al cinema: il Moondog di Matthew McConaughey, protagonista dell’ultimo (a oggi) lungometraggio del regista, è proprio come Korine difatti una sorta di poeta dello squallore, che si immerge in situazioni pericolose e immorali senza giustificarle ma senza neanche smettere di divertirsi nella grande ruota panoramica del disagio esistenziale. E non è neanche così bravo come poeta. La morte e la disperazione sono presenti ma sono solo parte di un carnevale colorato che si fa fiera dell’inutile. Ecco, questa fiera dell’inutile che a noi sembra sempre demolita (e che vogliamo vedere demolita se siamo spettatori di un certo tipo, che si desidera cinema militante, rispettoso, etico), questo carnevale di colori giustappunto, è in realtà proprio il mondo di Korine, il mondo che lui ama, in cui vuole vivere e morire. Il mondo a misura di Skittles e di dubstep. L’opposto del cinema della resistenza: un cinema dell’abbandono, in cui non ci si immerge ma in qualche modo si galleggia.
The Beach Bum, insomma, parla di un protagonista di questo mondo, uno che ne fa parte ma poi se ne appropria e lo ama e lo distrugge in egual misura, ma Spring Breakers dimostra un approccio che è già a posteriori, seguendo le avventure e disavventure di personaggi secondari. È un film sempre sull’orlo di avere una grande trama che poi non comincia mai, facendoci rimanere sul filo del rasoio con una non-trama. Anche dieci anni dopo questo film ha il potere di scandalizzare come di annoiare profondamente, è ipercinetico e colmo di dettagli eppure piatto e insofferente, sempre sommerso dalle stesse sensazioni, gli stessi colori e personaggi, è come una gabbia in cui il pensiero razionale viene sterminato ben oltre le aspettative della generazione beat. Il personaggio di James Franco, appunto Alien, è probabilmente il più emblematico; appare dopo metà film però è come se ne fosse l’evento scatenante e il protagonista nel contempo, è un conglomerato di cultura bianca e cultura nera insieme, è una parodia di Riff Raff, è un criminale da strapazzo al limite del patetico, ma verso di lui il film prova empatia – un paradosso. Alien, da guardiano della soglia del ‘mondo oscuro’ (straordinario) in cui le nostre protagoniste finiscono, invece di esserne l’antagonista ne diventa il martire. Le recensioni e le sinossi del film spesso dicono proprio, un’assurdità, che le quattro protagoniste sprofondano loro malgrado nel ruolo di vittime del ‘mondo oscuro’ della Florida e delle feste in spiaggia, ma non è così: eccetto forse per il personaggio di Selena Gomez, il mondo oscuro del film per le altre tanto oscuro non è, è gradevole, affascinante, libero, e loro ne fanno parte pienamente da ben prima dello spring break. Essere fermati dalla polizia non è l’inizio di una redenzione, è solo una sfortuna passeggera, una rottura di scatole che interrompe la festa infinita di questa vacanza.

E nessuno, nessuno, si sarebbe aspettato dieci anni fa un film così da Korine. Il suo esordio anni ’90 Gummo, con la sua disperazione a ritmo di biciclettate giù per le strade a uccidere gatti a ritmo di stoner metal, era quanto di più lontano da un film pop interpretato da popstar, il successivo Julien Donkey Boy era un angolare film del Dogma disturbante e punitivo, e dopo anni di pausa in cui ha lavorato perlopiù a cortometraggi iper-autonomi ha fatto il film-manifesto (?) Trash Humpers, l’apice del marciume koriniano. Fino al 2012 di Spring BreakersMr Lonely (2007) era l’unica opera del regista che si divincolasse dal mondo delle culture underground, e comunque vantava una colonna sonora dei Sun City Girls e svariati momenti in cui il surrealismo prevaleva sulla mera natura eccentrica da film indie. Come si arriva dai loghi degli Slayer incisi nella pelle di Gummo alle ragazzette in topless che sparano al cielo, da collaborare con Herzog a collaborare con Skrillex?
Una delle scene chiave di Gummo vede alcuni tra i tanti personaggi in un salotto, che giocano con una sedia, la vogliono rompere. Ci mettono tanto, ma ci riescono. Rotta la sedia, per qualche secondo regna un silenzio imbarazzante. E adesso? Adesso che si è conquistato questo inutile, cosa rimane? L’immagine della sedia rotta, e di chi l’ha rotta, che non sa più cosa farsene. Il moralismo in Spring Breakers ha la stessa funzione di quella sedia: viene rotto e disgregato in bella mostra di fronte alla macchina da presa per far scaturire quel momento raro di vuoto, di arte, di poesia, in cui qualcosa sull’esistenza viene svelato. Cosa sia questo qualcosa magari non ci è dato saperlo, e si può solo tentare di capirlo. Herzog e Skrillex fanno pur sempre entrambi parte di questa vita, coesistono, come il nome Moondog (ispirato da Louis Thomas Harding) e Snoop Dogg in The Beach Bum. Quello che ci propina e propone Korine del resto è uno sguardo, mediato da ottimi tecnici, ma lo sguardo è il suo. Sì, gli servono il talento versatile col colore di Benoît Debie, la temporalità fluida del montaggio geniale di Douglas Crise (che collega momenti separati per frasi simili e suoni di pistola, con una distanza saggia rispetto alla materia, che fa sembrare tutto un sogno distante e ritmato da musica), la musica martellante di Cliff Martinez, ma anche ai tempi di Gummo serviva la sapiente cinepresa di Jean-Yves Escoffier, illustre DoP dei primi film di Leos Carax. La coesistenza delle diversità crea quei paradossi che sono interesse principale di Korine, quelli che ci fanno porre le grandi domande e che non ci fanno dare grandi risposte. Si voleva divertire o ci voleva torturare? Però, con che efficacia dà forma al suo delirio immorale (amorale, anti-morale), quel poeta bastardo contro tutti.

E il poeta bastardo contro tutti ha uno sguardo fallico e ignorante, è un pornografo soft sotto mentite spoglie – un Re Mida che trasforma la merda (la spazzatura che filma) in oro (l’immagine leccata, patinata, romantica), o viceversa l’oro (la grande immagine…) in merda (…asservita al niente). Tragicommedia che raggiunge il patetico. E col suo lirismo del ridicolo, Korine, Debie & co svolazzano per le spiagge della Florida a filmare senza preoccuparsi dello sguardo della spettatore, mischiando reale e finzione, videoclip e documentario, squallido (‘fuck’) e preghiera (‘amen’), automobili fluo e pisciate sul bordo della strada, pellicola 35mm e immagini distorte girate col cellulare, una pop star o una starlet Disney e gli spacciatori dallo sguardo torvo incrociati en passant in un losco retrobottega. La parata dei contrasti assurdi scorre in un fiume di immagini talmente veloce da divenire statuario, monolitico, ci sono così tante cose che non ce n’è nessuna: è un testamento di un altro mondo, di un sogno, di un un film che racconta una storia che non si mette in questione, procede come un treno tra luci al neon e provocazioni anacronistiche che ad alcuni potrebbero sembrare sterili. Eppure, come ogni provocazione che ci tocca nel profondo, ha attecchito. Spring Breakers ha senza dubbio fatto breccia nell’immaginario contemporaneo del cinema – forse soprattutto per aver lanciato Debie, che è diventato il direttore della fotografia più emblematico di un certo tipo di estetica molto di moda negli ultimi anni (dopo Spring Breakers ha lavorato per le regie di Ryan Gosling, Wim Wenders, Andrew Dominik, Gaspar Noè, Jacques Audiard). Anche Korine ha poi lavorato per marchi di moda, ha collaborato con musicisti pop rilevanti e controversi (Travis Scott), in un senso materialista e di apparenza è diventato, sì, più pop, più noto, più parte dello Zeitgeist culturale. Per un film che in Usa hanno visto tutti e non è piaciuto a nessuno. Un film velocissimo ma noioso, sgargiante ma nullo. Una profezia silenziosa (cos’è (stata) la trap se non la cristallizzazione di un materialismo feroce che non si fa sottoporre a esegesi?) di un ragazzotto che si faceva di eroina e che ora balla da solo il tip tap in discoteche che bruciano. Un miracolo della retorica che può solo essere visto per essere avvicinabile, che dice tutto e che non dice niente, che affronta Dio e il diavolo senza provarci neanche.

Nicola Settis

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