11 Febbraio 2019 -

SERPENTARIO (2019)
di Carlos Conceição

«Il solo vero viaggio, il solo bagno di giovinezza, non sarebbe quello di andare verso nuovi paesaggi, ma di avere occhi diversi, di vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è; e questo possiamo farlo con un Elstir, con un Vinteuil, con i loro pari, con i quali voliamo davvero di stella in stella»
Marcel Proust

Forse non è tanto quello che si troverà alla fine del viaggio, ciò che conta. Quello che conta è semplicemente viaggiare, l’atto di partire, mettersi in marcia, esplorare, scoprire. Quello che conta è cercare e cercarsi, sempre e comunque, nel deserto e nelle rovine, nella Storia e nel futuro, nei luoghi della vita e negli interstizi della mente, nella vita e nella morte. Specialmente quando, a essere cercate, sono la propria identità, la propria appartenenza, la propria tradizione, le proprie radici, rappresentate da una madre rimasta indietro e poi persa per sempre nei viaggi fra l’Angola e il Portogallo colonizzatore, la cui mancanza ancora ritorna nei sogni e nella memoria come una presenza quasi fisica, palpabile nella sua assenza. È una figura che ancora parla attraverso il corpo di un pappagallo in grado, a patto che il figlio mantenga la promessa di tornare a prendersene cura, di vivere fino a 150 anni, simbolo di giudizio e sapienza in ogni cultura del mondo con la sua lunga vita, con i suoi colori sgargianti e con la sua capacità oracolare di parlare, come una novella Sfinge, per rimettere ordine nella babele di formati, di sogni, di speranze, di dubbi e di domande esistenziali. Quelle di Carlos Conceição, già da tempo collaboratore di João Pedro Rodrigues e Guerra da Mata, nato in Angola e trasferitosi in Portogallo nella prima adolescenza, costretto a cambiare più volte vita, paesaggi, tradizioni, cibi, appartenenza, modo di essere. Con Serpentario, ipnotico esordio al lungometraggio presentato fra i convinti applausi del Forum della 69ma Berlinale in attesa della prima in patria al DocLisboa, crea un alter ego cinematografico e lo mette sulle tracce del variopinto fantasma della madre per cercare e trovare se stesso, per cercare finalmente di capirsi con un film che è un costante viaggiare, dalla terra al cielo, fino allo spazio del Serpentario celeste e poi di nuovo alla sabbia, passando dalla solitudine e dai cimiteri, dai costumi coloniali e dalle mucche di oggi, dal mare fino alle più aride dune dei sogni, nella fisicità assoluta e forsennata delle sue impressioni in 16mm che quasi sembrano voler ridare una matericità, con la pellicola, a quel corpo ormai scomparso e che forse non si troverà mai più. Impressioni destinate a bruciarsi, a saltare, a vivere nella loro polverosa grana, eppure a lasciare un segno indelebile come una cicatrice, potente come un tuono, saggio come un pappagallo. Magari proprio quel pappagallo che, dopo la (non specificata, ed è meglio così) tragedia che ha reso la piccola cittadina africana un cimitero a cielo aperto di rovine e brandelli, continuò a cantare per giorni con la voce di quella madre che se n’era andata via per sempre, e che ancora adesso, da qualche parte, continua a tenerla in vita, a rappresentarla, a incarnare la sua mancanza e i dubbi esistenziali del regista, dell’orfano, dell’uomo spartito fra due Paesi e due culture ma con una sola possibile appartenenza: quelle lande desertiche, quelle montagne rifugio di antilopi e sorgenti, quel sole aranciato, quella sensazione di pace e al contempo di morte dell’Africa natale.

È un lungo flusso di coscienza, Serpentario, viaggio personale ed esistenziale fatto di associazioni di idee e di spazi che si innestano nel tempo di Proust, quello dell’anima, quello delle continue digressioni dove si può essere damerini di corte con tanto di pizzi settecenteschi al collo, passeggeri di un furgone o delle Tre Caravelle, pistoleri nei saloon del selvaggio west o contemporanei nerd con i jeans e lo zainetto, o ancora astronauti alla ricerca di un altro Spazio al di là dello spazio e del tempo, proiettati verso il futuro a bordo di un’astronave orgogliosamente rimasta nel passato, che pare estrapolata da un b-movie degli anni Settanta. Eppure, proprio dalle sue trascendenze nasce l’immanenza dell’anonimo protagonista, qui e oggi, a vagare nella natura, nei relitti lasciati dall’uomo, nelle pianure, nei sogni, nel colonialismo, nelle radici, nei frammenti, nella vita e nella morte. Alla ricerca di una madre, di un pappagallo, di una «dolce voce nella polvere» dalla quale farsi ancora una volta, o forse per sempre, cullare. Una voce che va ben oltre lo spostamento d’aria o l’illusione, ma che rappresenta la mancanza, le radici, il futuro, l’unica speranza per riuscire ad affrontare i non detti, per elaborare il lutto e per poter finalmente affrontare con maturità il ricordo, la nenia di un tempo, quelle radici mai recise e ora finalmente ritrovate, riscoperte con il viaggio, con l’immaginazione, con la memoria, con il sogno, e forse soprattutto con il cinema, l’unico grimaldello che rende tutto possibile.
Un cinema, anch’esso, fatto di frammenti, di istanti subliminali, di mascherini che creano e sporcano rendendo ancor più materica e polverosa la babele di formati, di raggi di luce che filtrano nel caricatore scaldando e ardendo l’emulsione. Un cinema fatto di stranianti ellissi temporali sullo stesso asse, di lentissime panoramiche che mostrano come la vita e la morte spesso vadano a braccetto e di musiche che vanno dai violini ai tamburi e poi al sintetizzatore, per lavorare ancor più sul tempo, sul luogo e sulla sospensione fra i generi. Un cinema fatto di spezzoni di immagini d’archivio, che costruiscono un nuovo immaginario frastagliato, slabbrato, vorticoso, come uno stato di trance in cui cui le detonazioni nucleari e le colpe occidentali si rincorrono con il momento in cui l’Angola conquistò l’indipendenza, passando per fotogrammi di vecchie pubblicità e di cinegiornali che scorrono fra guerriglieri, pugili, perle, pianti, allagamenti, devastazioni, crash test, e persino la ricerca di identità sessuale estrapolata dal (piuttosto esplicito) trailer di un porno d’epoca, come una manciata di istanti quasi impercettibili nel rutilare delle immagini e delle idee fra tramonti e voli d’uccello, fra il sole e la terra, fra il cielo e le stelle, fra la polvere d’argilla e il viaggio nello Spazio. E poi ancora la terra, con i suoi sterminati paesaggi arsi e colorati, con i suoi specchi d’acqua, con le sue carcasse di automobili e di animali, con le sue tragiche catastrofi. Con il solitario cammino, estetico ed estatico nell’evidente eppure a suo modo equilibrato cambio di ritmo fra la prima e la seconda parte, da affrontare in quei luoghi in cui forse nessuno ha mai più messo piede. Dalla città alla natura, dalle barche alle travi delle case abbandonate, dall’elicottero al cammino, in un eterno vagare fra i segni alla ricerca di un segno, di una voce, di una reale “buona speranza”, ben oltre il punto di separazione fra gli Oceani ma nuovo inizio, nuova consapevolezza, o per lo meno nuova ritrovata pace nel superamento del lutto e del trauma, nel ritrovare, negli occhi di un pappagallo e in un film che sono tre, quattro, dieci o forse cento film, le proprie radici. Del resto, il Serpentario è il luogo dove i serpenti vengono allevati, è il mestiere di chi li porta, è la costellazione da cui cercare di osservare il mondo, è lo zodiaco, ma è anche il rapace africano specializzato a sbranarli, ancora una volta sospeso fra la vita e la morte, fra un becco che (non) si muove e una voce portata forse dal vento. Rimarranno tre domande. Sta tutto nel giocarsele bene, preferibilmente benissimo. Un po’ come ha fatto Carlos Conceição nello sfruttare al meglio, e forse anche un po’ di più, questa sorprendente, personalissima e stratificata possibilità di esordire al lungometraggio.

Marco Romagna

“Untitled Project” (2014)
N/A | Portugal
Regista Carlos Conceição
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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