31 Agosto 2019 -

SEBERG (2019)
di Benedict Andrews

Il problema del biopic su Jean Seberg proposto dalla programmazione del festival di Venezia 76 non è, come di consueto nel genere, il didatticismo del suo intreccio o la ripetitività del banale; la sceneggiatura, pur non brillante, prosegue per i binari giusti, costruisce un percorso sensato, potenzialmente interessantissimo. Purtroppo è Benedict Andrews, il regista, il problema: la regia insipida e televisiva avvolge i personaggi in un’illusione plastica e infelice della realtà, con un distacco umano la cui radicalità è involontaria. Se i grandi autori, siano essi alle prese con una sceneggiatura di loro pugno o con un lavoro su commissione, riescono sempre a traslare la parola scritta nel loro universo, creando un mo(n)do alternativo con cui ogni spettatore può leggere la propria visione delle cose (messe in scena e non), Andrews pare fare l’opposto, smunge ogni scena al punto di privarla del proprio sottotesto emotivo. Il didascalismo della storia appartiene esclusivamente alla freddezza ebete della macchina da presa. Ed è un gran peccato, perché tanti altri e più nobili del cinema sarebbero riusciti a rivoltare questo testo, anche senza cambiarne una virgola, con le possibilità dell’audiovisivo. Al contrario, con un approccio alla regia descrittivo e piatto, in cui sono sempre filmati l’azione o il dettaglio che devono essere filmati ma la scelta d’inquadratura è perlopiù gestita amatorialmente, Andrews conferisce goffaggine e anempatia alla storia di una ribelle e di una martire del cinema, finendo per non restituirne né il dolore né il nucleo rivoluzionario, che avrebbero meritato una ben più rispettosa rappresentazione. Jean Seberg è per quasi tutti i cinefili comunque un volto di una rivoluzione culturale, soprattutto dal primo piano conclusivo di Fino all’ultimo respiro ma anche dal suo legame all’epoca scandaloso col movimento Black Panther, al centro della prima parte del film. Questo suo valore è evocato, dalla ricostruzione del finale dell’esordio di Godard a vari dialoghi che ricordano nel dettaglio i passaggi fondamentali della storia della sua icona, ma mai raccontato dall’immagine, che non va avanti stilisticamente come l’eroina protagonista né indietro riportando agli stilemi dei tempi, ma è programmatica nel percorrere i binari del biopic standardizzato, talmente presente da essere morto.

La storia è però gestita nel modo in cui dovrebbe essere. Kristen Stewart dà vita a una Jean Seberg sensuale, simbolo degli anni ’60 che si aggira tra un mondo e l’altro con lo stile che si addice a una diva fuori dai canoni, che ricorda la rappresentazione di Sharon Tate nel recente film di Tarantino C’era una volta… a Hollywood ma con meno raffinatezza e più racconto fattuale e cronachistico. Questa maschera è presto abbattuta da un crescente senso di depressione e paranoia, e la Stewart si conferma una delle attrici più ironicamente sottovalutate della sua generazione. Di pari passo, è alternata la storia dell’investigatore FBI, ex-tecnico del suono (il cinema che diventa indagine, l’indagine che ritorna cinema…), che pedina la Seberg, seguendo gli ordini del famigerato piano di Hoover, atto a una distruzione dell’immagine pubblica dell’attrice, e progressivamente sviluppando senso di colpa. Ma è problematico entrare nel merito di quello che il film è perché è troppo immediata l’immaginazione di quello che avrebbe potuto essere. Un regista come Fincher avrebbe reso terrificante il personaggio di Vince Vaughn, un De Palma avrebbe reso in modo perturbante e non soap-operistico il litigio tra l’investigatore e la moglie sull’ossessione di lui per la Seberg, un Soderbergh avrebbe inscenato gli scleri notturni dell’attrice alla ricerca di microfoni e registratori nel proprio appartamento con un’angoscia e un’eccentricità di soluzioni visive che invero Andrews pare incapace di contemplare. Seberg è troppo semplice per una storia così complessa. Sembra fatto di fretta, di fronte a un mondo che invece andrebbe contemplato, e ciò porta a un incolmabile scompenso, che rende triste e riduttiva la struttura del tutto. Andrews è d’origine un regista teatrale e dunque tendenzialmente ci pare immediato che il suo approccio privilegi soprattutto la valorizzazione della recitazione, che non andrebbe messa in dubbio per quanto non sia certo a livelli stellari (Margaret Qualley è sfruttata al minimo delle sue possibilità), ma questo mestiere, nel cinema, richiede un lavoro su più piani, e il rendere al meglio la sfera sensibile di ogni battuta o sguardo è uno di quelli più importanti. Ci sono giusto un paio di scene interessanti, in particolare il momento in cui la Seberg è fotografata dai giornalisti e il suo tentativo di suicidio.

Godard è pressoché assente nel racconto, viene data più importanza al trauma del set di Santa Giovanna di Otto Preminger, tra la cicatrice per bruciatura avuta per sbaglio girando la scena del rogo di Giovanna d’Arco e i traumi psicologici rimasti dal lavoro stressante col regista. Con ciò si conferma la tendenza del cinema biografico moderno di concentrarsi sulla cicatrice più che sulla vita, di elaborare nella narrazione un discorso sulla violenza pregressa e non sulla speranza, sull’usare il cinema per andare oltre. Non c’è un’ode, una costruzione ideale verso altro, è solo una cadaverica ricostruzione. È felice tuttavia la scelta di lasciare la morte dell’attrice fuori dal campo e dalla narrazione, mantenendo il mistero della fine e di come può giungere; se, dunque, alla paranoia non viene conferita la profondità e la complessità che la caratterizzano, perlomeno alla morte non è conferito niente, basta la fredda e distante didascalia, oltre la quale c’è il fatto reale, che supera qualsiasi possibile versione fittizia dei fatti. Seberg non è un film stupido né brutto, è “sbagliato”, racconta le cose giuste nel modo meno giusto, più morto, più lontano dall’emotività e più spinto dalla necessità di attenersi alle convenzioni. Seberg non è la vita di Jean Seberg, è una vita, un film su di lei, un mondo spento.

Nicola Settis

“Against All Enemies” (2019)
Biography, Drama, Thriller | France
Regista Benedict Andrews
Sceneggiatori Joe Shrapnel, Anna Waterhouse
Attori principali Zazie Beetz, Margaret Qualley, Kristen Stewart, Vince Vaughn
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

THE IRISHMAN (2019), di Martin Scorsese di Marco Romagna
AD ASTRA (2019), di James Gray di Marco Romagna
GIANTS BEING LONELY (2019), di Grear Patterson di Erik Negro
SPENCER (2021), di Pablo Larraín di Marco Romagna
SUBJECT TO REVIEW (2019), di Theo Anthony di Marco Romagna
THE LAUNDROMAT / PANAMA PAPERS (2019), di Steven Soderbergh di Marco Romagna