8 Aprile 2020 -

Per un’Ecologia dell’Immagine
Appunti su un cinema transfinito

Premessa: questo scritto inizia e finisce con due racconti: il primo mi riguarda, il secondo non mi riguarderà.

Qualche anno fa, la notte del solstizio d’inverno, durante un trip particolarmente intenso il mio io andò completamente in frantumi: della mia personalità rimasero schegge che andavano e venivano, piccoli riflessi. Ero liquido. Pensavo con la voce di un mio amico e improvvisamente ero realmente lui; incrociavo le gambe perché portavo la gonna, ero una donna sulla quarantina. Ero mia madre, i miei nonni, il vicino di casa.
D’improvviso, in un momento di particolare lucidità, tornai in me e sentii la presenza intensa di qualcosa che si nascondeva come dietro ad una porta, chiusi gli occhi per spingermi verso quella soglia perché inconsciamente ero certo che, se l’avessi sorpassata, sarei stato testimone di un segreto. Chiusi gli occhi, e all’improvviso iniziarono a passarmi davanti agli occhi un nugolo di immagini a distrarmi completamente. Erano immagini di cartoni animati, da Dragon Ball ai Pokemon, coprivano ogni angolo allontanandomi da quel punto centrale. Aprivo e richiudevo gli occhi e ogni volta quelle immagini erano ancora là, come un fiume in piena, travolgendo tutto quanto. Mi allontanai sempre di più, fino a perdermi nuovamente.
Quel giorno trovai come unico insegnamento quello di dover ripulire la mente abbandonando certe visioni che sembravano di ostacolo alla mia ricerca.
Giorni addietro, in una situazione analoga, in quel momento di supercoscienza che si trova tra il sogno e la veglia, ho percepito nuovamente quel punto centrale, quella soglia. Nell’avvicinarmi, a mente sgombra, d’improvviso sono stato inondato da immagini provenienti da vari film che avevo visto, quasi tutte opere sperimentali di cui adesso non c’è bisogno di fare i nomi; erano colori, momenti sparsi. Nuovamente mi allontanai da quel punto e non riuscii a raggiungerlo.

Siamo invasi nella nostra mente, siamo sotto assedio, e questo assedio è portato avanti da un muro immenso di immagini. Un’ondata che riempie ogni spazio, che ricompare ad ogni pie’ sospinto, ad ogni occhio chiuso, è una parata allucinatoria, e si frappone tra noi e l’esperienza di un possibile altrove di qualcosa che sta ben al di fuori della nostra portata odierna. L’immagine è di materiale adesivo, si attacca alla parete vitrea della cornea, si arrampica e si aggrappa ad ogni angolo del cervello, ci rende ciechi coprendo ogni punto di vista. Qui per immagine ovviamente non si intende solamente l’immagine cinematografica, ma è un discorso ad ampio respiro che raggruppa tutte le arti visive e la stessa vista quotidiana. E’ una denuncia all’organo della vista. Questo è il processo contro l’occhio.
L’impressione retinica è una manifestazione di ciò che dicevamo prima, una modificazione tangibile del corpo da parte delle immagini che hanno nei milioni di anni allenato e fagocitato i nervi ottici, dandogli la forma che hanno ora e non un’altra. Le immagini ci fanno perdere la vista, ci ricoprono soffocando con la loro estroflessione la nostra introflessione. Non c’è possibilità di precipitare in se’ stessi, saremmo subito avvolti dalle milioni di visioni giornaliere che ormai si fagocitano tra loro, continuamente, pop up della mente. Affermare che ci siano immagini buone e immagini cattive è totalmente errato. C’è da affermare, invece, che le immagini ottundono la vista, di qualsiasi natura esse siano. Non c’è più alcuna differenza, alcun valore, diamo meriti ad una terra devastata, a stracci e rovine. Il cinema è particolarmente portentoso in questo, è un alfiere, il capobanda, che guida l’esplosione delle immagini, una parata ridente che ricorda quella di Chi Ha Incastrato Roger Rabbit, sporgendosi fino ai bordi dello schermo, premendo per fuoriuscirne e conquistare ancora e ancora. E’ interessante notare come il cinema nemmeno sia una luce che definisce i contorni, elementi che vengono illuminati e rispediscono le proprie curve, angoli, linee; ma oggetti che emanano la loro propria luce, un getto diretto all’occhio.
Siamo stati tagliati fuori, disconnessi, dalle possibilità dell’universo, e non è un parlare metaforico, è fattualmente così. Quello che poteva essere chiamato il fantastico, la magia, la metafisica, non sono raggiungibili perché la strada è sbarrata. In questi giorni di quarantena, dove questa presa poteva allentarsi, non si è fatto altro, invece, che fagocitare ancor di più questa produzione; vediamo qualsiasi cosa, ogni momento è adatto alla produzione di immagini, immagini di immagini, riprendiamo sul ripreso, inondiamo l’universo limbico del web di un essere vivente che si riproduce per gemmazione, in una cascata di contenuti che ha ormai invaso e messo la propria bandiera sui territori del nostro essere.

Compito in classe: descrivi un progetto multimediale dove si manifesti il virus.

Risoluzione: creiamo un canale youtube dove in un video ne commentiamo un altro, di qualsiasi fattura. Il giorno dopo gireremo un video dove commentiamo il video del giorno prima. Al terzo giorno si girerà un video a commentare quello girato il secondo, nel quarto quello del terzo, nel quinto quelli del quarto e così via. Apriranno canali youtube da parte di altri utenti, creati unicamente per commentare i video del primo canale, e produrranno lo stesso effetto Droste. Piano piano il virus si diffonde, la produzione è infinita.

La Elysia chlorotica, la lumaca foglia, che ha trasformato il suo intero corpo per assorbire la luce, come una pianta, e farne nutrimento vitale. Eccolo un cinema differente! Anche noi nel nostro piccolo usiamo il corpo per la luce: al sole la nostra pelle sintetizza la vitamina D, ricordo ancestrale che risale la nostra catena evolutiva fino agli organismi marini pluricellulari che si nutrivano attraverso la fotosintesi.
La storia dell’evoluzione è una storia di adattamento per la mera sopravvivenza. Lo spettro del visibile si è ristretto ad un’infinitesima parte di ciò che realmente può essere visto, ristretto a ciò che ci è utile, elidendo universi. E in questo stretto recinto retinico abbiamo fondato il bello, l’artistico, l’affascinante; ci abbiamo appoggiato sopra le teorie dell’arte e della filosofia.
Negli ultimi tempi discutendo con la mia ragazza è tornato il tema del mio daltonismo. Il mio spettro visivo, ancor più stretto, a me potrebbe bastare; non conoscendo ciò che ne sta fuori questo diviene il mio mondo e su questo fondo tutti i miei aspetti, eppure lei mi ripete “non sai che ti perdi”. Una popolazione, nata con una degenerazione che le permette di percepire solo il rosso, in questa mono visione inventa tutti i propri paradigmi, non consapevole di tutto ciò che sta ad un palmo dalla propria percezione. Abitudine.
Così, in un articolo uscito di recente, si parla dell’immagine poiesi, dell’immagine creatrice. Ma l’immagine non crea, l’immagine delimita, circoscrive all’interno dell’anello retinico. La storia dell’immagine, del cinema, è quella di Orfeo ed Euridice. La vista che cancella, annulla, la realtà che si impone sul reale, la perdita dei mondi. La punizione del peccato originale è la nascita del bulbo oculare: allora il maligno diventa un serpente tra i frutti, ci si vergogna improvvisamente perché nudi, e si perde la nudità, si è al mondo, sulla strada, fuori dai mondi.
Allora si parla del Papa a San Pietro e si vedono Sorrentino e Tsai Ming-liang, le immagini che coprono come adesivi ogni traccia dell’invisibile fede.
Cosa fare?
L’immagine è l’evoluzione biologica di un castigo.
Su questo recinto, come si diceva, abbiamo creato enormi strutture, anche bellissime, magnifiche, grattacieli che sfiorano l’immenso, lo cercano e lo mostrano, ma è una contorsione, sono pallide manifestazioni, come castelli dentro una palla di neve. Possiamo mostrare ma siamo castigati a non esperire realmente, e abbiamo assunto questa come unica posizione possibile, come una dolce posizione, ci crogioliamo in questa impossibilità. Ogni film, ogni opera, ogni immagine, è il voltarsi di Orfeo, eterno ritorno, continuiamo a guardare con la convinzione di sviscerare e invece facciamo cessare di esistere il reale. Ed eccolo il paradosso dell’arte (visiva): che è un qualcosa di non necessario alla sopravvivenza, sopra la sopravvivenza, eppure rimane dentro il recinto dato dai mezzi e dai meccanismi della sopravvivenza. Immaginate un bambino, nato e cresciuto dentro una sola stanza, con solo un letto e le 4 pareti, che non conosce nulla del mondo esterno. Immaginate se un giorno gli venisse portato un libro e leggesse la descrizione di un leone, che shock sarebbe mai per lui! Eppure qui nasce l’equivoco: perché per pensarlo, per portarlo a se stesso, il bambino inizierebbe ad immaginare il leone con quello che conosce: la coda diverrebbe una sbarra del letto, la criniera la lana della coperta, il corpo un materasso. Noi siamo ciò di fronte al reale, siamo testimoni dell’infinito, ma le immagini che ci coprono la vista lo riporteranno sempre a ciò che conosciamo, non rendendolo mai manifesto.
Oggi non siamo nemmeno più in grado di penetrare i simboli. Possiamo capirne i rimandi, i significati concettuali, possiamo creare analogie di senso, ma non siamo più in grado di penetrarne la natura. I simboli oggi sono carcasse di automobili, congegni inutilizzabili. Ecco l’Apocalisse, in tutto il suo significato: la svelazione della rivelazione, ciò che viene annunciato è che il mondo è rivelato dalle immagini ormai incastrate sopra i nostri occhi.
Tutto questo allora solleva un’idea assurda, forse, ma possibile. I luoghi dell’arte come le grotte, i deserti, i templi, le chiese, non sarebbero luoghi di culto, ma custodie dove contenere le immagini, lontane da noi, fatte solo per alcuni momenti, per non farci assaltare, già come siamo continuamente battagliati dalle immagini quotidiane.
Abbiamo portato le immagini fuori dai luoghi, in ogni luogo. Un tempo l’arte era posta in siti specifici, scelti, e per molto tempo i luoghi dove l’arte stava erano gli stessi dove veniva compiuta. Questa non vuole essere l’ennesima critica alla perdita della sala, dei luoghi preposti. Mi chiedo invece se la sala sia mai stato il luogo reale del cinema. Il cinema è mai stato fatto al cinema? E’ una domanda che può essere interessante, ma fuorviante al momento.

Un tempo affermai durante una proiezione la speranza di divenire tutti non vedenti, ma diventarlo vorrebbe dire oggi rimanere soli con le immagini di una vita, una prigionia. Questo testo è scritto con un chiaro intento: chiedo, invoco, la nascita di una nuova ricerca, di una scienza completamente nuova, un’arte-scienza, che non renda ciechi ma combatta l’occhio, lo sconfigga e sia pronta ad aprire le porte dell’Altrove, che trasporti l’uomo oltre quel muro impenetrabile costruito dalla vista e apra alla visione.

FINALE: nota a margine sull’equivocità

Fra milioni di anni il sole si spegnerà, lasciando tutto nel buio e nel gelo più totali. I pochi superstiti di quest’apocalisse troveranno grandi fondi di energia immagazzinata, con la quale alimenteranno uno schermo gigantesco, posto sopra una città. Lo accenderanno e questo schermò proietterà l’immagine di un sole, e tornerà la luce, le piante faranno la fotosintesi, gli animali pascoleranno nei prati verdi, riprenderà la vita. Allora un uomo dirà:” per fortuna qualcuno decise di riprendere un’immagine così inutilmente utile come il sole accecante”.

Maurizio Marras

Articoli correlati

LE MURA DI BERGAMO (2023), di Stefano Savona di Marco Romagna
HORS DU TEMPS (2024), di Olivier Assayas di Marco Romagna
PICCOLO FILM DI UN ALBERO (2016), di Maurizio Marras, (+ Satellite/Quello che non ho visto) di Marco Romagna
INLAND EMPIRE – L'impero della mente (2006), di David Lynch di Nicola Settis
COMA (2022), di Bertrand Bonello di Marco Romagna
Autoritratto di un annegato, capitoli 1-2 di Maurizio Marras