10 Settembre 2016 -

PARADISE (2016)
di Andrei Konchalovsky

E’ molto difficile parlare di un autore instabile come Konchalovsky, soprattutto davanti al controverso e complesso Paradise, presentato nel concorso veneziano edizione 2016. Ma nessuno, in Paradise, pensa al paradiso, perché la guerra ha già cominciato a lasciare le sue ferite. Proprio quando tre anime incrociano le loro strade e, evidentemente, i loro destini, il vortice narrativo parte con un’aristocratica russa immigrata nella Francia che vede già sorgere parecchie schegge di resistenza a cui aderisce. Quando verrà arrestata nel tentativo (spesso vano) di aiutare bambini semiti a scampare dai raid razzisti, incontrerà un francese collaborazionista che si invaghirà di lei. Il soldato la vorrebbe salvare, in cambio ovviamente delle sue grazie, ma lo scorrere degli eventi la porterà comunque in un campo di concentramento. Qui, proprio dove il film rischia di precipitare, incontra un alto ufficiale, e un’altra vecchia fiamma che pare riaccendersi. Nella relazione astratta e distruttiva che il militare porta avanti, c’è anche la liberazione della donna verso ad un destino che pareva ineluttabile. Ma ancora una volta è la Storia a farsi avanti e, con l’avvicinarsi della distruzione nazista, la nostra protagonista non ha più nessuna sicurezza, se non quella che in fondo nessun paradiso (almeno in terra) possa esistere.

Ogni personaggio, frontale davanti alla macchina da presa, racconta la sua storia, come se fosse esterno al film stesso, come se proprio Konchalovsky volesse chieder(si) quale traiettoria sia ancora possibile interpretare nel definire il disumano nazista. Paradise si serve di tre punti di vista, avendo ben presente che era quello femminile (e russo) a comandare il gioco delle parti rispetto ai due interpreti maschili (francese e tedesco). Il tentativo, probabilmente, sarebbe quello di cercare una dialettica tra le lingue socio-politiche d’Europa prima che la guerra mietesse le sue ultime vittime. Il senso della narrazione visiva, anche per questo, si pone sull’austerità di un bianco e nero in 4:3 rigoroso e anonimo, libero da qualsiasi traccia sonora (tranne quelle diegetiche come radio e annunci) e confinato ad una lunga serie di dialoghi spesso esplicativi ben prima di essere narrativi. Tutta questa costruzione, senza dubbio interessante e potenzialmente molto funzionale, è messa in scacco dalla mancanza volontaria di apparato critico che, considerando la densità degli argomenti trattati, meriterebbe ampiamente. Emblematica, e senza dubbio svilente, è la scena che mostra i campi di concentramento il cui si è spostato il teatro dell’azione. Una visione asettica, staccata e quasi panoramica, in cui mai emerge un grammo di dolore ma tutto si compone in quella maniera edulcorata che può solo trovare un senso nella funzionalità alla narrazione. Mentre, per rincarare la dose, le uniche immagini del dramma del campo sono dedicate allo scenografico album degli orrori pieno di fotografie in possesso del gerarca, quasi come testimonianza di anti-memoria.

Proprio partendo da questa mancanza, da questa latenza di meditazione storico-filosofica del contesto, quella che poteva essere la forza linguistica del film diventa algida superficialità di sguardo, banalità sulla banalità del male. Allo stesso modo, la dialettica che Paradise si pone nel tentativo di lettura di un continente tutto prima del suo formarsi, è ridotta a una semplificazione che da una parte non considera la crisi del concetto di umanità durante la shoah, e dall’altra trova una verifica (quanto ma incerta) sull’importanza totale e pressoché unica dell’Unione Sovietica durante i giorni della resistenza e soprattutto nel processo di liberazione. Laddove Paradise dovrebbe riflettere sulle rovine stesse del secolo scorso, e delle sue illusioni (e dunque sui pericoli della retorica dell’odio più che mai legati ai processi di nuova fascistizzazione europea), finisce per mostrare il fianco alla sua bieca visione unilaterale, sicuramente non immune all’immagine di potenza autocelebrativa ed autoassolutoria dell’attuale governo russo. E proprio questo pare essere il limite decisivo di un film che respira spesso un cinema rigoroso e cesellato, ma che non si pone domande, che non vuole in nessun modo scandagliare la memoria per vivificarla; basti pensare al finale, alla costruzione di uno sguardo in macchina ed ad un bagliore (l’agognato e/o presunto paradiso?) che si porta via tutto. Rimane in ultima istanza un film discusso e discutibile, che sa essere estremamente autoriale nell’atto di guardare la storia (al passato), ma senza minimamente interpretarla (al presente) e quindi renderla apparentemente inutilizzabile (al futuro). Se anche per l’immagine un eterno ritorno è necessario, perché vederla invece come un ritorno eterno?

Erik Negro

edit: Vincitore del Leone d’Argento per la regia a Venezia 73 ex aequo con La region salvaje di Amat Escalante – mah…

“Ray” (2016)
Drama | Russia / Germany
Regista Andrey Konchalovskiy
Sceneggiatori Elena Kiseleva, Andrey Konchalovskiy
Attori principali Yuliya Vysotskaya, Christian Clauss, Philippe Duquesne, Peter Kurth
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

L'ESTATE ADDOSSO (2016), di Gabriele Muccino di Max Borg
DOROGIE TOVARIŠČI! (CARI COMPAGNI!) (2020), di Andrei Konchalovsky di Nicola Settis
LIBERAMI (2016), di Federica Di Giacomo di Marco Romagna
ANIMALI NOTTURNI (2016), di Tom Ford di Elio Di Pace
SINGING IN GRAVEYARDS (2016), di Bradley Liew di Marco Romagna
ARRIVAL (2016), di Denis Villeneuve di Elio Di Pace