5 Settembre 2016 -

ONE MORE TIME WITH FEELING 3D (2016)
di Andrew Dominik

«Nick mi ha chiesto di realizzare un film sulla registrazione del nuovo album dei Bad Seeds, Skeleton Tree, in un periodo in cui lo frequentavo parecchio. Dopo la morte del figlio, tutti noi siamo stati molto vicini a lui e alla sua famiglia. La mia reazione immediata è stata “perché lo vuoi fare?”. Nick mi ha risposto che sentiva l’esigenza di dire alcune cose, ma non sapeva a chi dirle. L’idea di un’intervista tradizionale secondo lui era fuori discussione, però sentiva il bisogno di far capire, a chi era interessato alla sua musica, come stavano le cose. A me sembrava che si fosse bloccato, e avesse bisogno di fare qualcosa – qualsiasi cosa – per dare almeno l’impressione di muoversi. Ho preso il disco e l’ho ascoltato, cercando di capirlo e di entrarci dentro. Alla fine ho accettato la proposta, a patto che potessi girare in bianco e nero e in 3D. La risposta di Nick è stata più o meno “Non sopporto il 3D del cazzo”. Allora gli ho mostrato vecchie fotografie in bianco e nero attraverso uno stereoscopio degli anni cinquanta. Gli ho detto che volevo realizzare un film in cui questo tipo di foto si animavano poco a poco. Sentivo che il rigore in bianco e nero e la tormentata drammaticità delle immagini in 3D si combinavano perfettamente con la musica incorporea dell’album e con lo strano senso di paralisi da cui Nick sembrava avvolto. Nick è venuto a Los Angeles e ha visto il film. La sua reazione è stata contraddittoria, ma non poteva che essere tale. Alla fine ha detto: “Lascialo così com’è”, ed è quello che abbiamo fatto. Ha aggiunto che si capiva che era stato “fatto con amore”, ed era vero. Poi mi ha chiesto di assicurarmi che “fosse sempre visto in 3D”».

Non c’era forse altro modo per introdurre One more time with feeling, ritorno del regista australiano Andrew Dominik alla Mostra di Venezia dopo averla già folgorata nel 2007 con la sua opera seconda The assassination of Jesse James by the coward Robert Ford, se non con le parole dello stesso autore riportate dal catalogo del Festival. Che Dominik fosse un regista visionario, virtuoso e talentuosissimo già lo sapevamo, dalle lenti con i bordi indefiniti utilizzate in Jesse James fino alla pallottola che vola nel successivo Cogan – Killing them softly, come pure ben sappiamo che si tratta di un autore poco prolifico, giunto con One more time with feeling solo al quarto film, il primo al di fuori della finzione, il primo in stereoscopia, in una carriera iniziata sedici anni fa con Chopper. Andrew Dominik, per affrontare un nuovo lavoro, ha bisogno di una sincera ispirazione, di una sfida tecnica da affrontare, di una sempre nuova spazialità da scardinare e di un nuovo genere – dopo biopic, western e gangster movie, ora il documentario-backstage – da provare (e puntualmente riuscire) a destrutturare: è un autore vero, che rifiuta il cinema dozzinale così come la fossilizzazione su un solo linguaggio; è un autore che ragiona a lungo sui propri film, e che per concepirli e girarli deve necessariamente prima sentirli, amarli, viverli. Come un amico sincero.

L’intuizione di Dominik di girare One more time with feeling in 3D in bianco e nero, al di là del riuscito intento di sconquasso emotivo esplicitato dalle sue stesse parole citate in apertura, è un nuovo e inedito tipo di visione, tentato fino ad ora solo dall’animazione di Burton nel suo autoremake di Frankenweenie – ma in live action, anzi in questo caso addirittura nel reale, la stereoscopia desaturata ha tutt’altro tipo di significato e riuscita. È come se i bastoncelli, nel nervo ottico dello spettatore, prendessero il posto dei coni nella percezione dello spazio, in un’esperienza visiva che mai si riduce al mero esercizio di stile, ma anzi è assolutamente funzionale per ciò che vuole raccontare – l’impossibile elaborazione del lutto più duro, la perdita di un figlio, sublimata nell’arte musicale. Quello di One more time with feeling è uno sguardo sulla realtà che viene filtrato dall’assenza – ad esclusione di una fotografia e di una breve sequenza dal sapore al contempo amaro e catartico – di colore, mentre la luce esplode fragorosa nei contrasti fra i neri e le zone sovraesposte. Dominik aggiunge a questo la scelta, opposta alle generali tentazioni panfocus del 3D, di utilizzare teleobiettivi con un diaframma il più aperto possibile in modo da far fuoriuscire le figure dallo schermo quasi privandole della profondità di campo, e lasciando piuttosto all’indefinitezza delle sfocature il compito di rappresentare l’anima straziata di Cave. Per poi lasciare in montaggio, volutamente e anzi sottolineandolo con un breve split, un piccolo errore tecnico che vede il violinista Warren Ellis intervistato perfettamente a fuoco sulla mdp-occhio sinistro, ma non su quella dedicata all’occhio destro. “L’immagine è da ricalibrare”, dice Dominik fuori campo, mentre ad essere costantemente ricalibrata per tutte le due ore del film, fra i carrelli circolari intorno al pianoforte e gli schizzi del moto ondoso sulla battigia, è invece proprio la pupilla dello spettatore. E il suo cuore.

Si, il cuore, perché si può essere Andrew Dominik quanto si vuole, ma perché il film riesca a emozionare – e ci riesce con rara potenza –, dall’altra parte della “ridicola” macchina da presa 3D deve necessariamente esserci un uomo come Nick Cave, curiosamente già visto nel suo “odiato” 3D in questa Venezia nel cameo in Les beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders. Musicista e attore pure lui australiano, personaggio sciamanico, magnetico e magmatico, Nick Cave è il cuore pulsante di One more time with feeling, colui che ancora una volta ha bisogno di provare emozioni ponendosi come committente e poi come (s)oggetto di indagine del documentario. Cave, uomo straordinario ed enigmatico, si pone dinanzi al doppio occhio meccanico di Dominik come un libro aperto, pronto a mettere per la prima volta a nudo la sua famiglia, la sua poesia e la sua intima fragilità. Sarebbe superfluo ricordare la sua carriera iniziata nel 1984 con i suoi Bad Seeds, il pianoforte, la voce calda e baritonale, il post-punk, la new wave, il gothic rock, le colonne sonore (anche per Jesse James), l’elettronica dei synth, fino alla più recente musica di stampo cantautorale: il punto del film, come del resto del disco di cui viene raccontata la genesi, è prima di tutto il trauma, la drammatica mancanza, il cuore straziato, la rinascita/sopravvivenza nella creatività. One more time with feeling si traveste da backstage e mostra Cave in studio, al lavoro sul nuovo album Skeleton Tree in uscita fra 3 giorni (a proposito, lo diciamo subito dopo la graditissima anteprima: è una bomba!), ma a Dominik interessa ben di più mostrare l’uomo Nick, l’amico, il confidente, il marito, il padre che ha di recente perso un figlio e che mai riesce a usare, nelle interviste estemporanee alternate alle fasi di registrazione e a quelle della vita che (in qualche modo) continua, la parola death. Ma si gira sempre lì intorno, nei nuovi testi non più narrativi ma eterei e drammatici, nei discorsi alla macchina da presa e alla famiglia, negli accordi quasi rigorosamente in minore, nelle riflessioni metaforiche sulla bidimensionalità dell’uomo e sulla tridimensionalità di Susie, la fedele moglie che, come tutte le donne, è sempre pronta a “uscire di fuoco o di campo per poi rientrare totalmente cambiata” non appena a Nick Cave pare di avere iniziato a capirla. Si torna sempre lì, su quella parola non pronunciata, perché da quel giorno “il tempo è come un elastico”, si può allungare, si può andare avanti, ci si può allontanare dal trauma, ma prima o poi si tornerà sempre a quel maledetto giorno, a quel maledetto faro, a quella maledetta caduta, a quel maledetto istante in cui Arthur Cave non c’era più.

One more time with feeling è un film documentario profondamente umano, viaggio nella poetica e nella devastazione ispiratrice di un artista. Nick Cave, per carriera, qualità del nuovo album e trauma appena sofferto, non meritava “solo” un film concerto, né tantomeno “solo” un film backstage – viene in mente il recente e pur discreto Junun di Paul Thomas Anderson, incentrato sugli esperimenti indiani del Radiohead Jonny Greenwood, lontano anni luce dalla sostanza formale, concettuale e umana di questo lavoro di Dominik. Nick Cave parla della funzione profetica delle canzoni, mentre la sua voce off ci trascina nel baratro apocalittico della sua malinconia. Il nuovo album è ipnotico, metafisico, depresso, ossessionato, dolorosamente ispirato. If you wanna live, just bleed. La voce da scaldare, la paura di perderla, come ha perso Arthur. Gli oggetti smarriti, my voice, my iPhone, il volto che cambia lentamente, anno dopo anno. Nell’inoltrarsi progressivamente dalla sfera prettamente artistica di Nick Cave a quella più intimamente sentimentale e privata, Dominik meticcia la musica con il cinema, li lascia completare, fa in modo che si stimolino a vicenda. Ecco quindi le vorticose carrellate circolari intorno al pianoforte, il MicroKorg, il pedale Freeze, le luci in campo, il ciak, il pianino elettrico, i microfoni, i preamplificatori, il glockenspiel, il compressore, l’iMac per la registrazione, il 3D che esplode nell’inquadratura zenitale sulla scala a chiocciola dello studio londinese di registrazione, le risate fuori campo fra Warren Ellis e lo stesso Dominik che diventano inquadratura, la stereoscopia che filma Skype, il rapporto fra l’uomo e l’obiettivo della macchina da presa, l’estemporaneità del colore nella foto che Earl, gemello superstite così identico ad Arthur, scatta al padre. Perché quando perdi chi ami, Nothing really matters, I just need you. Arriva di nuovo il colore, tenue e soffuso, illusione di catarsi, la città dall’alto, la Gran Bretagna, l’Europa, il mondo, il sole. Ma poi non più, torna il bianco e nero, perché dopo aver seppellito un figlio si perde l’immaginazione, si perde la speranza, si perde il senso stesso delle canzoni precedenti. Nick Cave vorrebbe rivedere il sole sorgere negli occhi del figlio, convinto che solo i sogni ci sopravvivano: il suo Skeleton Tree è un album straordinario, è impotenza e profezia, è emozione e trance artistica, è canzone che sublima nella poesia. E, di conseguenza, One more time with feeling è un amico sincero che filma e racconta un amico sincero, è musica che si fa cinema, è riflessione sull’arte che parte rigorosamente dall’uomo. Quello di Andrew Dominik è un film sorprendentemente devastante, al contempo dolce e amaro, atto d’amore umanissimo, vitale, straziante. Senza dubbio fra le visioni del cuore di Venezia73, e non solo.

Marco Romagna

“One More Time with Feeling” (2016)
112 min | Documentary, Music | UK / France
Regista Andrew Dominik
Sceneggiatori N/A
Attori principali Nick Cave, Nick Cave & The Bad Seeds
IMDb Rating N/A

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